Ordinanza N. 178 del 1999
Corte Costituzionale
Data generale
18/05/1999
Data deposito/pubblicazione
18/05/1999
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/05/1999
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28
febbraio 1997 dalla Corte d’assise di Napoli nel procedimento penale
a carico di Giovanni Aprea ed altri, iscritta al n. 328 del registro
ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 1999 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto che la Corte d’assise di Napoli ha sollevato, con
ordinanza del 28 febbraio 1997, in riferimento agli artt. 3 e 24
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non
prevede che non possa partecipare al giudizio penale nei confronti di
un imputato del delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis
cod. pen.) il giudice che in precedenza, nell’ambito di un
procedimento di prevenzione promosso ai sensi dell’art. 1 della
legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), abbia
pronunciato o concorso a pronunciare il decreto di applicazione della
misura di prevenzione, con il quale “sia stata comunque affermata, in
termini di certezza, l’esistenza della medesima associazione di tipo
mafioso e l’appartenenza ad essa della stessa persona imputata” nel
successivo processo penale;
che, ad avviso della Corte rimettente, nell’anzidetta ipotesi –
che si verifica nella specie – si configura un pregiudizio per
l’imparzialità del giudice penale, in termini analoghi a quelli che
hanno condotto alla dichiarazione di incostituzionalità dello stesso
art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva
che non potesse partecipare al giudizio nei confronti di un imputato
il giudice che avesse pronunciato o concorso a pronunciare una
precedente sentenza, resa nei confronti di altri soggetti ma nella
quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua
responsabilità penale fosse già stata comunque valutata (sentenza
n. 371 del 1996);
che infatti, secondo la Corte d’assise, gli accertamenti –
benché incidenter tantum – circa l’esistenza di un’associazione di
tipo mafioso, e gli apprezzamenti – benché fondati su criteri
indiziari o probabilistici – circa l’appartenenza del soggetto a
detta associazione, quali effettuati dal giudice nell’ambito del
procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione,
porrebbero il giudice chiamato alla successiva partecipazione al
giudizio penale per il reato associativo in condizioni non dissimili
da quelle cui ha riguardo la richiamata sentenza n. 371 del 1996,
tanto più considerando la sostanziale coincidenza del materiale
probatorio utilizzabile nelle due sedi processuali, in tal modo
delineandosi la lesione dei parametri costituzionali invocati.
Considerato che il giudice rimettente, facendo richiamo alla
sentenza n. 371 del 1996, chiede a questa Corte una pronuncia che
estenda l’istituto dell’incompatibilità del giudice all’ipotesi in
cui questi si sia pronunciato nell’ambito di un precedente processo
per l’applicazione di una misura di prevenzione;
che, successivamente alla proposizione della presente questione,
questa Corte, richiesta di analoghe estensioni, con numerose pronunce
di inammissibilità ha precisato che le regole concernenti
l’incompatibilità del giudice nel processo penale sono tutte interne
all’articolazione del processo medesimo, giacché sono poste in
rapporto a determinate attività precedentemente svolte nell’ambito
di esso, secondo una logica di garanzia dell’imparzialità del
giudice che opera in via preventiva e in astratto (sentenze nn. 351,
308, 307 e 306 del 1997);
che nelle anzidette decisioni questa Corte ha individuato il
limite entro il quale il principio costituzionale del giusto processo
– sotto il profilo dell’esigenza di imparzialità del giudice – è
destinato a operare per il tramite dell’istituto
dell’incompatibilità: limite rappresentato, appunto, dallo
svolgimento di attività valutative e decisorie nell’ambito dello
stesso procedimento penale;
che, nelle stesse pronunce, questa Corte ha ulteriormente
chiarito che, se il pregiudizio che si assume lesivo
dell’imparzialità del giudice deriva da attività da questi compiute
al di fuori del giudizio in cui è chiamato a decidere – siano esse
attività non giudiziarie o attività giudiziarie svolte in altro
giudizio -, si verte nell’ambito di applicazione degli istituti
dell’astensione e della ricusazione (artt. 36 e 37 cod. proc. pen.),
anch’essi preordinati alla salvaguardia delle esigenze di
imparzialità della funzione giudicante, ma secondo una logica a
posteriori e in concreto;
che, più in particolare, è alla stregua del predetto criterio
di distinzione e delimitazione delle due categorie che questa Corte
ha ricondotto all’ambito di operatività dell’astensione e della
ricusazione ogni motivo di pregiudizio all’imparzialità del giudice,
con riguardo alla relazione tra attività “pregiudicante” nel
processo penale e attività “pregiudicata” nel procedimento di
prevenzione (sentenza n. 306 del 1997 citata);
che alla medesima conclusione si deve ora logicamente pervenire
rispetto alla relazione tra le medesime sedi processuali, quale
sottoposta all’esame della Corte, giacché la regola di giudizio
sopra indicata non muta secondo il rapporto di successione temporale
che in concreto può darsi tra l’uno e l’altro procedimento;
che pertanto la questione sollevata deve essere dichiarata
manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di
procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, dalla Corte d’assise di Napoli, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 18 maggio 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola