Ordinanza N. 213 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
19/06/2000
Data deposito/pubblicazione
19/06/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
08/06/2000
Presidente: Cesare MIRABELLI;
Giudici: Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Riccardo
CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido
NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE,
Giovanni Maria FLICK.
legge 4 maggio 1990, n. 107 (Disciplina per le attività
trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la
produzione di plasmaderivati), promossi con ordinanze emesse il 29
gennaio (n. 2 ordinanze) e il 2 febbraio 1999 (n. 3 ordinanze) dal
pretore di Genova, rispettivamente iscritte ai nn. 190, 191, 208, 209
e 210 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 14 e 15, prima serie speciale,
dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte;
Ritenuto che con due ordinanze di analogo contenuto (R.O. nn. 190
e 191 del 1999), emesse in data 29 gennaio 1999, il pretore di
Genova, nel corso di due distinti procedimenti penali, ha sollevato,
in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 17 della legge 4 maggio 1990, n. 107 (Disciplina per le
attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi
componenti e per la produzione di plasmaderivati);
che con l’ordinanza di remissione n. 190 del 1999 si propone
nuovamente la questione già da questa Corte dichiarata
manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla
rilevanza (ordinanza n. 311 del 1998), ed in entrambe si precisa,
proprio ai fini della rilevanza, che i giudizi a quibus riguardano
imputati ai quali sono contestati, da un lato, il reato previsto
dagli articoli 81, cpv., e 110 del codice penale, e 17 della legge
n. 107 del 1990, in relazione agli articoli 1, 4, 5 e 6 della stessa
legge, per avere, nelle rispettive qualità di responsabili e
operatori di una struttura sanitaria privata, attivato un centro
autotrasfusionale presso struttura non prevista dalla legge e
comunque non convenzionata con le apposite strutture trasfusionali,
e, dall’altro, il reato configurato, nei confronti del solo direttore
sanitario, in base agli artt. 81, cpv., del codice penale e 17 della
legge n. 107 del 1990, in relazione all’art. 91 del d.P.R. 24 agosto
1971, n. 1256 (Regolamento per l’esecuzione della legge 14 luglio
1967, n. 592, concernente la raccolta, conservazione e distribuzione
del sangue umano) e agli articoli 31 e 34 del d.m. 27 dicembre 1990
(Caratteristiche e modalità per la donazione del sangue ed
emoderivati), per avere, in tale qualità, omesso di restituire al
servizio trasfusionale e autonomamente smaltito unità di sangue e/o
emocomponente non utilizzate, provenienti sia da autotrasfusioni che
da donazioni di sangue omologo, e per non aver predisposto un sistema
di registrazione ed archiviazione dei dati relativi;
che il remittente riconosce nella legge n. 107 del 1990,
recante la disciplina delle attività trasfusionali, “un complesso
normativo vario ma al contempo omogeneo nella sua strumentalità
all’obiettivo fondamentale di ottimizzare raccolta e distribuzione
del sangue e i suoi derivati”: la scelta del legislatore – argomenta
il giudice a quo – è comprensibile, poiché in un settore così
delicato e fonte di rischi reali come quello in esame, è talmente
imprescindibile l’esigenza di tutela della salute, fondamentale
diritto dell’individuo ma anche interesse della collettività
(art. 32 della Costituzione), ed è talmente pericoloso, oltre che
immorale, che un bene primario come il sangue possa sottostare a
logiche di mercato, da rendersi necessaria una tutela diffusa in
tutte le fasi delle operazioni relative alla sua raccolta,
conservazione, lavorazione, distribuzione o distruzione;
che tuttavia – rileva il remittente – alla fattispecie di cui
all’art. 17 della legge n. 107 del 1990, caratterizzata da un minimo
edittale elevato (mesi dodici di reclusione e lire 400.000 di multa)
e da una pena accessoria particolarmente significativa (interdizione
dall’esercizio della professione sanitaria per un periodo non
inferiore a due anni), sono astrattamente riconducibili condotte
assai differenziate, il cui disvalore può anche essere
manifestamente disomogeneo;
che da ciò conseguirebbe la violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sia per l’irragionevole parificazione di trattamento
sanzionatorio di situazioni profondamente diverse, sia per il mancato
rispetto del principio di proporzionalità tra la pena e il disvalore
dell’illecito;
che risulterebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, della
Costituzione, giacché un minimo edittale eccessivo per fatti di
minore entità impedirebbe alla pena di svolgere la sua funzione
rieducativa, che deve operare già al livello della astratta
previsione del meccanismo sanzionatorio globalmente inteso;
che nel giudizio instaurato con l’ordinanza di remissione
n. 190 del 1999 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata “inammissibile e non
fondata”;
che con altre tre ordinanze di contenuto non dissimile (R.O.
nn. 208, 209 e 210 del 1999), emesse in data 2 febbraio 1999, il
pretore di Genova, nel corso di altrettanti procedimenti penali, ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo
comma, della Costituzione, la medesima questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17 della legge n. 107 del 1990, “nella parte
in cui prevede indistintamente la pena della reclusione da uno a tre
anni e la multa da lire 400.000 a lire 20.000.000, nonché
l’interdizione dall’esercizio della professione sanitaria per un
periodo non inferiore ad anni due, per tutte le violazioni delle
norme di legge che regolano il prelievo, la raccolta e la
distribuzione di sangue umano ovvero la produzione e messa in
commercio di suoi derivati, così come per chi svolge tali attività
per fini di lucro”;
che anche in queste ordinanze si premette che i giudizi a
quibus riguardano imputati ai quali è contestato il reato di cui
agli articoli 110 e 81 del codice penale e 17 della legge n. 107 del
1990, in relazione all’art. 31 del d.m. 27 dicembre 1990, per avere,
in qualità di direttore sanitario dell’ospedale e di primario
responsabile dei relativi reparti, omesso di restituire al centro
trasfusionale competente talune unità di sangue non utilizzate (R.O.
nn. 208 e 209 del 1999), ovvero il reato di cui agli articoli 110 e
81 del codice penale e 17 della legge n. 107 del 1990, in relazione
agli articoli 1, 4, 5 e 6 della medesima legge, per avere, nelle
medesime qualità, realizzato un centro per autotrasfusioni, senza
rientrare tra le strutture tassativamente indicate dalla legge e non
essendo convenzionati con alcuna struttura pubblica (R.O. n. 210 del
1999);
che nelle ordinanze di remissione numeri 208 e 209 del 1999 –
emesse, come appena ricordato, nel corso di giudizi nei quali la
contestazione trae origine da violazioni alla disciplina posta
dall’art. 31 del d.m. 27 dicembre 1990 – il giudice a quo dichiara di
ritenere “poco chiaro e quindi non convincente l’inciso, contenuto
nell’ordinanza di questa Corte n. 311 del 1998, col quale si afferma
di voler “prescindere dal considerare che i fatti contestati
nell’imputazione alla quale il giudice a quo si riferisce non
appaiono integrare alcuna delle fattispecie legali di cui alla norma
che viene denunciata come sospetta di illegittimità costituzionale,
non essendo possibile ricostruire alcuna “violazione delle norme di
legge” sulla base di norme secondarie come quelle indicate ;
che, in particolare, secondo il remittente, la Corte, con
quell’inciso, “sembra aver risolto con una mera affermazione di
principio, non sorretta da alcun tipo di argomentazione, il tanto
dibattuto problema della norma penale in bianco e della sua
integrazione da parte di fonti secondarie quali il decreto
ministeriale ;
che, non ritenendo di potere senz’altro escludere la
rilevanza penale delle condotte ascritte agli imputati in base a
previsioni contenute in fonti secondarie, il pretore di Genova, con
argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle svolte nelle
ordinanze di cui si è fatto cenno in precedenza e nella successiva
ordinanza di remissione n. 210 del 1999, solleva questione di
legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge n. 107 del 1990
nei termini già esposti.
Considerato che le ordinanze di remissione pongono medesime
questioni e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per
essere definiti unitariamente;
che questa Corte, con ordinanza n. 311 del 1998, ha
dichiarato la manifesta inammissibilità di identica questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 17 della legge 4 maggio
1990, n. 107, già sollevata dal pretore di Genova, per difetto di
motivazione sulla rilevanza, essendosi omesso di indicare,
nell’ordinanza di rimessione, il regime sanzionatorio
costituzionalmente imposto e di enucleare l’esatta tipologia delle
singole fattispecie oggetto di giudizio;
che nella suddetta pronuncia questa Corte non ha mancato di
precisare che la dichiarazione di manifesta inammissibilità della
questione si imponeva “anche volendo prescindere dal considerare che
i fatti contestati nella imputazione alla quale il giudice a quo si
riferisce non appaiono integrare alcuna delle fattispecie legali di
cui alla norma che viene denunciata come sospetta (sia pure sotto il
solo profilo sanzionatorio) di illegittimità costituzionale, non
essendo possibile ricostruire alcuna “violazione delle norme di
legge” sulla base di norme secondarie come quelle indicate ;
che con tale precisazione si era in sostanza escluso che la
disposizione censurata potesse essere letta come norma penale in
bianco, volta ad autorizzare integrazioni di sé medesima con norme
poste da fonti secondarie, quali i decreti ministeriali emanati in
attuazione della legge n. 107 del 1990;
che in effetti l’intento di costruire il precetto penale
sulla base delle sole previsioni di legge e non anche con l’apporto
integrativo di fonti secondarie emerge dall’insuperabile tenore
letterale dell’art. 17 censurato, che assoggetta alle pene in esso
contemplate chiunque preleva, procura, raccoglie, conserva o
distribuisce sangue umano o produce e mette in commercio derivati del
sangue umano “in violazione delle norme di legge , formulazione,
questa, talmente chiara, precisa ed univoca da impedire
all’interprete qualsiasi estensione della fattispecie incriminatrice
a fatti contemplati in norme non legislative;
che, una volta chiarito che non si è in presenza di una
fattispecie di norma penale in bianco con la quale il regolamento sia
esplicitamente autorizzato dalla legge a integrare il precetto
penale, la questione, sotto tale profilo, va dichiarata
manifestamente infondata per l’evidente erroneità del presupposto
interpretativo dal quale procede il remittente;
che le violazioni dei regolamenti attuativi della legge
n. 107 del 1990, allo stato della legislazione attualmente vigente,
possono dar luogo, concorrendone i presupposti, a responsabilità
civile, amministrativa e a provvedimenti di carattere sanzionatorio
da parte della pubblica amministrazione competente; in materia
penale, possono rilevare ai fini della sussistenza dell’elemento
psicologico nelle fattispecie di delitto colposo (art. 43 del codice
penale), ma non possono integrare il reato di cui all’art. 17;
che la questione appare manifestamente infondata anche se la
sfera di applicazione dell’art. 17 viene circoscritta alle sole
violazioni delle norme di legge, pure contestate nei giudizi a
quibus; poiché il legislatore, considerata la particolare importanza
del bene protetto, largamente riconosciuta dallo stesso remittente,
non ha ecceduto i limiti della propria discrezionalità e non è
incorso in alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione con lo
stabilire un trattamento sanzionatorio severo con un minimo edittale
elevato sia per la pena principale che per quella accessoria;
che d’altronde, quanto alla pluralità di condotte diverse
per struttura e disvalore che – pur esclusa la rilevanza penale delle
violazioni regolamentari restano nondimeno comprese nella fattispecie
incriminatrice del censurato art. 17 della legge n. 107 del 1990,
nessuna disparità di trattamento è configurabile: è, infatti,
massima consolidata nella giurisprudenza costituzionale che in questi
casi sarà il giudice a fare emergere in concreto la diversa gravità
delle varie sottospecie ed a graduare su questa base, nel rispetto
dei minimi edittali, la pena da irrogare (v. ordinanze nn. 145 del
1998, 456 del 1997 e 220 del 1996; sentenza n. 281 del 1991);
che, disattesa la censura relativa alla violazione
dell’art. 3 della Costituzione, la questione va dichiarata
manifestamente infondata anche in riferimento all’art. 27, terzo
comma, della Costituzione, non risultando, per le medesime ragioni
ora esposte, alcuna sproporzione tra l’entità della sanzione penale
e il disvalore dell’illecito commesso.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi;
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 17 della legge 4 maggio
1990, n. 107 (Disciplina per le attività trasfusionali relative al
sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di
plasmaderivati), sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo
comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal pretore di Genova
con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’8 giugno 2000.
Il Presidente: Mirabelli
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 19 giugno 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola