Ordinanza N. 273 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
24/06/2002
Data deposito/pubblicazione
24/06/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/06/2002
Presidente: Cesare RUPERTO;
Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,
Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA,
Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Francesco
AMIRANTE;
cui agli articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice
di procedura penale, e dell’articolo 341 del codice penale, promossi
con ordinanze emesse il 29 maggio (n. due ordinanze) e il 13 luglio
2001 dal Tribunale di Rovereto, rispettivamente iscritte al n. 668,
n. 669 e n. 897 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 e n. 44, prima serie
speciale, dell’anno 2001.
Udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto che, nel corso di un procedimento di esecuzione avente
ad oggetto la richiesta di revoca parziale di una sentenza penale di
condanna per vari reati, tra i quali quello di oltraggio a pubblico
ufficiale, e la conseguente rideterminazione della pena sulla base
dell’intervenuta abrogazione dell’articolo 341 del codice penale
disposta dall’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega
al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al
sistema penale e tributario), il Tribunale di Rovereto, in
composizione monocratica, con ordinanza in data 29 maggio 2001 (r.o.
n. 668 del 2001), ha sollevato due questioni di legittimità
costituzionale: l’una, avente ad oggetto il combinato disposto degli
artt. 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di procedura
penale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, 25, secondo
comma, e 27, terzo comma, della Costituzione; l’altra, relativa
all’art. 341 del codice penale, in riferimento agli artt. 1, secondo
comma, 2, 3, primo e secondo comma, 13, 25, secondo comma, 27, terzo
comma, 28, 49, 54 e 97, primo comma, della Costituzione;
che il remittente – preso atto della ordinanza n. 107 del
2001, con la quale questa Corte ha dichiarato la manifesta
inammissibilità di analoghe questioni di legittimità costituzionale
allora prospettate in un legame irrisolto di alternatività –
ripropone le medesime questioni, attribuendo valore principale a
quella relativa al combinato disposto di cui all’art. 2, terzo comma,
cod. pen. e all’art. 673 cod. proc. pen., in quanto tale questione
verrebbe in considerazione “in via più immediata e diretta nel
procedimento di esecuzione” e coinvolgerebbe “tutti i casi di
successione di leggi penali nel tempo in cui la legge successiva più
favorevole modifica il regime di procedibilità del reato o la stessa
specie di pena, sicché il suo accoglimento avrebbe effetti di più
ampia e generale portata”;
che, in particolare, secondo il giudice a quo una volta
riconosciuto che nel caso di specie ricorre un’ipotesi di successione
di leggi penali nel tempo e non una abolitio criminis non sarebbero
applicabili gli artt. 2, secondo comma, cod. pen. e 673 cod. proc.
pen., ma l’art. 2, terzo comma, cod. pen., nella parte in cui fa
salvi in tali casi gli effetti del giudicato anche se la disciplina
successiva sia più favorevole, e, conseguentemente, nel procedimento
di esecuzione sarebbero queste le disposizioni che verrebbero
immediatamente in considerazione, essendo in prima battuta ed in
linea di principio irrilevante la norma incriminatrice che aveva
trovato applicazione nel processo di cognizione;
che, pertanto, la questione riguardante l’art. 341 cod.
pen. assumerebbe rilievo solo a condizione che la prima questione sia
dichiarata infondata o inammissibile e sarebbe, perciò, logicamente
subordinata ad essa;
che, con la prima questione, il remittente – muovendo dalla
premessa che l’art. 18 della legge n. 205 del 1999 non avrebbe
comportato una vera e propria abolitio criminis ma una semplice
successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, poiché tutti i
comportamenti previsti dall’art. 341 cod. pen. dovrebbero ormai
essere ricondotti alla più generale fattispecie dell’ingiuria di cui
all’art. 594 dello stesso codice, eventualmente aggravata ai sensi
dell’art. 61, numero 10 – dubita della legittimità costituzionale
del combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673
cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la modifica del
giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di
successione di leggi penali nel tempo con effetto meramente
modificativo e conseguente abrogazione di una norma incriminatrice,
per lo meno nei casi in cui l’intervento legislativo viene a porre in
discussione l’an della sanzione, mediante la modifica del regime di
procedibilità del reato, ovvero il quantum o la species della pena,
prevedendo la nuova disciplina la pena pecuniaria (sia pure in
alternativa) in luogo di quella detentiva;
che ad avviso del Tribunale di Rovereto, la ratio sottesa al
limite del giudicato posto dall’art. 2, terzo comma, cod.
pen. sarebbe “eminentemente pratica”, cioè connessa all’esigenza di
evitare un nuovo giudizio ad ogni sopravvenire di modifiche
normative; si tratterebbe, quindi, di un fondamento certamente meno
“alto” ed importante rispetto a quello a base della regola della
retroattività della norma favorevole, consistente nel principio di
eguaglianza sotto il profilo della parità di trattamento;
che, rileva il giudice a quo il limite del giudicato posto
dal terzo comma dell’art. 2 cod. pen. sarebbe intrinsecamente
irragionevole sia in rapporto alla diversa regola di cui al secondo
comma del medesimo art. 2, sia “all’interno dei casi di mero
intervento modificativo, in senso favorevole, da parte del
legislatore”;
che, prosegue il remittente, la mancanza di ragionevolezza
della disciplina censurata sarebbe evidente almeno nel caso in cui la
modifica legislativa non incidesse solo su aspetti secondari o solo
sui limiti edittali di pena, ma comportasse, come nel caso di specie,
una modifica del regime di procedibilità e della stessa specie di
pena irrogabile, determinando il passaggio da una pena
obbligatoriamente detentiva ad una pena pecuniaria, sia pure in via
alternativa: in simili casi, infatti, verrebbero in considerazione
anche altri parametri costituzionali, quali l’art. 13 Cost., in
riferimento al bene supremo della libertà personale, l’art. 25,
secondo comma, Cost., in riferimento al principio di offensività, e
l’art. 27, terzo comma, Cost., dal quale sarebbe desumibile il
principio di proporzione tra fatto e pena;
che, rileva ancora il Tribunale di Rovereto, l’accoglimento
della prospettata questione di costituzionalità consentirebbe di
applicare l’art. 673 cod. proc. pen. tutte le volte in cui la
successiva legge più favorevole escludesse la punibilità del fatto
per qualsiasi ragione (anche attinente al regime di procedibilita)
ovvero l’applicazione di una pena detentiva;
che, con la seconda questione, il giudice a quo osserva che
se “in tutti i giudizi di cognizione in corso per effetto
dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod. pen. dovrà trovare
applicazione la più mite disciplina di cui all’art. 594 cod. pen.,
ai sensi dell’art. 2, terzo comma, cod. pen.”, al contrario, nei
procedimenti di esecuzione, relativi a sentenze di condanna passate
in giudicato, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità
dell’art. 341 cod. pen. comporterebbe l’applicazione, in luogo della
disciplina di cui all’art. 2 cod. pen., dell’art. 30 della legge
11 marzo 1953, n. 87;
che, prosegue il remittente precisando la sua tesi, mentre
gli effetti del sopravvenire di un atto legislativo andrebbero
distinti a seconda che si tratti di abolitio criminis o di mera
successione nel tempo di leggi penali, riconducibili rispettivamente
al secondo e al terzo comma dell’art. 2 cod. pen., nel caso di
dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di
legge l’art. 30 della legge n. 87 del 1953 non consentirebbe
distinzione alcuna, poiché si imporrebbe sempre e comunque
l’efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità senza
alcun limite di carattere processuale;
che sarebbe appunto questa la ragione per la quale l’art. 341
cod. pen., anche se abrogato, potrebbe formare oggetto di una
questione dotata del requisito della rilevanza: l’eventuale
accoglimento di tale questione comporterebbe l’applicabilità, non
più dell’art. 2 cod. pen., ma dell’art. 30 della legge n. 87 del
1953 e, quindi, sul piano processuale, dell’art. 673 cod. proc. pen.,
con la conseguente revoca, nel giudizio principale, della sentenza di
condanna;
che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione,
il remittente dubita, in riferimento ai suindicati parametri, della
legittimità costituzionale:
a) della configurazione dell’oltraggio a un pubblico
ufficiale come autonomo reato, anziché quale aggravante del reato di
ingiuria;
b) in subordine, del tipo e della entità delle pene
stabilite per tale reato, a causa della mancata previsione della pena
pecuniaria in alternativa a quella detentiva, e del regime di
procedibilità d’ufficio anziché a querela di parte;
che, nel corso di altro procedimento di esecuzione avente ad
oggetto la richiesta di revoca di una sentenza pronunciata ex
art. 444 cod. proc. pen. per il reato di oltraggio a pubblico
ufficiale a seguito dell’intervenuta abrogazione dell’art. 341 cod.
pen., il Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, con
ordinanza in data 29 maggio 2001 (r.o. n. 669 del 2001), ha
sollevato, sulla base delle medesime argomentazioni, identiche
questioni di legittimità costituzionale sia dell’art. 341 cod. pen.,
sia del combinato disposto di cui agli artt. 2, terzo comma, cod.
pen. e 673 cod. proc. pen;
che, nel corso di un terzo procedimento di esecuzione
concernente la revoca di una sentenza penale di condanna per il
delitto di oltraggio a pubblico ufficiale a seguito dell’intervenuta
abrogazione dell’art. 341 cod. pen., il Tribunale di Rovereto, in
composizione collegiale, con ordinanza in data 13 luglio 2001 (r.o.
n. 897 del 2001), ha sollevato identiche questioni di legittimità
costituzionale delle medesime disposizioni sopra indicate.
Considerato che, poiché le ordinanze di rimessione sollevano
analoghe questioni di legittimità costituzionale, i relativi giudizi
vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
che il giudice a quo muovendo dal presupposto che
l’abrogazione dell’articolo 341 del codice penale, che puniva il
reato di oltraggio a pubblico ufficiale, disposta dall’articolo 18
della legge 25 giugno 1999, n. 205 non avrebbe comportato una vera e
propria abolitio criminis ma avrebbe dato luogo ad una semplice
successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, dovendosi, a
suo avviso, applicare ai fatti di oltraggio le disposizioni
penalistiche che prevedono il reato di ingiuria aggravata per la
qualità della persona offesa, solleva due questioni di legittimità
costituzionale subordinate l’una all’altra, così da consentire di
prendere in esame la seconda questione solo in caso di rigetto o di
inammissibilità di quella posta in via principale;
che, in particolare, in via principale il remittente denuncia
il combinato disposto degli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673
cod. proc. pen., nella parte in cui non consentirebbe la modifica del
giudicato, in sede di procedimento di esecuzione, nel caso di
successione di leggi penali nel tempo, perlomeno nelle ipotesi in cui
l’intervento legislativo si limita a incidere sul regime di
procedibilità del reato (a querela anziché di ufficio), ovvero sul
quantum o sulla species della pena (pecuniaria, sia pure in via
alternativa, anziché esclusivamente detentiva);
che in via subordinata il medesimo remittente, pur nella
consapevolezza della sua intervenuta abrogazione, sottopone al
giudizio di questa Corte l’art. 341 cod. pen., ritenendo che una
eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale di tale
disposizione comporterebbe l’applicazione, in luogo dell’art. 2,
terzo comma, cod. pen., dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, che non distinguerebbe l’ipotesi della abolitio criminis da
quella della successione nel tempo di leggi penali, con la
conseguenza che la sentenza di condanna per il reato di oltraggio
potrebbe essere revocata ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen;
che, ponendo le due questioni in rapporto di subordinazione,
il giudice a quo supera indubbiamente quel profilo preliminare di
inammissibilità, consistente nel carattere alternativo delle
prospettazioni, che aveva inficiato le sue precedenti ordinanze di
rimessione sulle quali questa Corte si è pronunciata con l’ordinanza
n. 107 del 2001;
che nello scrutinio di merito al quale si deve oggi attendere
emerge tuttavia un profilo di manifesta infondatezza che consegue
proprio alla premessa interpretativa dalla quale il remittente
procede e che accomuna le due distinte questioni: che cioè
l’abrogazione dell’art. 341 cod. pen. ad opera dell’art. 18 della
legge n. 205 del 1999 configuri una successione nel tempo di leggi
penali anziché una vera e propria abolitio criminis;
che tale presupposto interpretativo sia erroneo è stato
affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella recente
pronunzia del 17 luglio 2001;
che la soluzione adottata dal giudice di legittimità, che ha
risolto un contrasto interpretativo che era insorto sul punto, ruota
attorno a due argomenti centrali: l’assenza di una disciplina
transitoria che abbia ad oggetto i reati di oltraggio commessi prima
dell’abrogazione della norma incriminatrice, da un lato, e la
limitatezza dei poteri del giudice dell’esecuzione in sede di revoca
ex art. 673 cod. proc. pen. della sentenza di condanna, dall’altro;
che il primo argomento poggia sulla ineccepibile
constatazione che l’art. 19 della legge di delegazione n. 205 del
1999, che prevede nuovi termini per la proposizione della querela,
non riguarda il reato di oltraggio a pubblico ufficiale di cui
all’abrogato art. 341 del codice penale, ma alcuni altri reati, che
in precedenza erano perseguibili d’ufficio e che solo in forza di
tale legge e dei successivi decreti legislativi sono divenuti
perseguibili a querela;
che l’ulteriore rilievo che questa disposizione non è
suscettibile di estensione analogica non può non essere condiviso,
tanto più se si considera che, nella specie, si tratterebbe di una
estensione in malam partem intesa cioè a far sopravvivere la
punibilità di un fatto al di fuori di una esplicita e specifica
previsione legislativa: questa Corte del resto, già nell’ordinanza
n. 175 del 2001, nel respingere l’ipotesi di estendere con una
propria pronuncia l’operatività dell’art. 19 della legge n. 205 del
1999 alle fattispecie di oltraggio, non ha mancato di rilevare che,
nel caso di pura e semplice abrogazione di una norma che prevede un
reato perseguibile di ufficio, l’introduzione di condizioni di
procedibilità e di punibilità non esplicitamente previste dal
legislatore si risolverebbe in un aggravamento della posizione
sostanziale dell’imputato, precluso al giudice delle leggi non meno
che al giudice comune;
che l’assenza di una disciplina transitoria e il divieto di
estendere in via analogica quella dettata dall’art. 19 della legge
n. 205 del 1999 per reati diversi dall’oltraggio impongono di
ritenere che si versi in un’ipotesi di abolitio criminis regolata
dall’art. 2, secondo comma, del codice penale, e non di successione
nel tempo di norme penali incriminatrici: se il legislatore del 1999
avesse soltanto inteso rendere sanzionabili a titolo di ingiuria
anche per il passato fatti di oltraggio, non si sarebbe potuto
esimere dal regolare i modi e i tempi per la proposizione della
querela, pena, altrimenti, la violazione del canone di ragionevolezza
delle classificazioni legislative;
che infatti l’interpretazione propugnata dal remittente
finisce con l’imputare al legislatore scelte tra loro inconciliabili:
la persistente punibilità a titolo di ingiuria dei pregressi reati
di oltraggio e l’ineluttabile improcedibilità per mancanza di
querela dei giudizi pendenti;
che anche l’ulteriore argomento che, insieme alla constatata
assenza di una disciplina transitoria, ha indotto il giudice di
legittimità a interpretare la vicenda abrogativa dell’art. 341 del
codice penale come abolitio criminis argomento che fa leva sui
limitati poteri dei quali è investito il giudice dell’esecuzione ai
sensi dell’art. 673 del codice di procedura penale, non risponde
soltanto alla dogmatica processualpenalistica in tema di rapporti tra
giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione, ma assume il valore
dell’interpretazione costituzionalmente conforme, che non potrebbe
essere disattesa se non violando principi costituzionali;
che al giudice dell’esecuzione penale non è in effetti
consentito modificare l’originaria imputazione né accertare il fatto
in modo difforme da quello ritenuto dalla sentenza passata in
giudicato, e non gli è quindi neppure permesso estendere il suo
giudizio a istituti, che, secondo l’orientamento delle sezioni unite,
opererebbero come esimenti solo nell’ingiuria, quali la ritorsione o
la provocazione;
che la soluzione che postulasse la titolarità in capo al
giudice dell’esecuzione di poteri pieni in ordine alla rivalutazione
del fatto contrasterebbe con i criteri direttivi di cui ai numeri 96
e 97 dell’art. 2 della legge di delega per il nuovo codice di
procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81), che simili poteri
riconoscono, in sede di esecuzione penale, solo ai fini
dell’applicazione della disciplina del concorso formale e della
continuazione di reati, e comporterebbe quindi a carico dell’art. 673
cod. proc. pen. un vizio di eccesso di delega;
che il vincolo all’interpretazione costituzionalmente
conforme, come questa Corte ha già affermato (cfr. da ultimo
sentenza n. 292 del 2000), si impone tutte le volte in cui una
disposizione di un decreto legislativo, diversamente interpretata,
eccederebbe i limiti fissati nella legge di delegazione, con
violazione dell’art. 76 della Costituzione;
che l’ulteriore canone interpretativo, che depone nel senso
dell’abolitio criminis si trae dall’art. 24 della Costituzione, che
proclama inviolabile il diritto di difesa in ogni stato e grado del
procedimento e che verrebbe leso dall’applicazione dell’art. 2, comma
terzo, del codice penale, nei casi in cui al condannato per oltraggio
non sia stata offerta, nel corso del giudizio di cognizione,
l’opportunità di provare l’esistenza delle eventuali esimenti
proprie del delitto di ingiuria, che non potrebbe certo essere
provata di fronte al giudice dell’esecuzione, il quale è sfornito di
pieni poteri valutativi;
che non può essere condivisa neppure l’osservazione del
remittente, secondo cui la soluzione dell’abolitio criminis
lascerebbe senza tutela i pubblici ufficiali che siano stati offesi
da pregressi fatti di oltraggio, poiché in relazione a tali fatti
essi vengono soltanto privati del sostegno della pretesa punitiva
dello Stato, ma non vengono spogliati del loro diritto di ottenere il
risarcimento del danno;
che invero, nel caso di condanna passata in giudicato,
l’abolitio criminis comporta sì la revoca della sentenza da parte
del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.,
ma solo relativamente ai suoi capi penali (in questa logica si è
mossa questa Corte nell’ordinanza n. 57 del 2001), non anche a quelli
civili, la cui esecuzione ha luogo secondo le norme del codice di
procedura civile, con la conseguenza che, se vi è stata costituzione
di parte civile e condanna al risarcimento dei danni, quest’ultima
resta ferma, mentre, in ogni altro caso, permane per la persona che
abbia subito un ingiusto pregiudizio la possibilità di esercitare
l’azione civile nella sede sua propria fino al termine di
prescrizione, giacché la formula assolutoria per l’ipotesi di
sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice (“il fatto non è
previsto dalla legge come reato”) non è fra quelle alle quali
l’art. 652 cod. proc. pen. attribuisce efficacia nel giudizio civile;
che, in conclusione, una volta accertato che la vicenda
legislativa della abrogazione dell’art. 341 cod. pen. integra
un’ipotesi di abolitio criminis disciplinata dall’art. 2, secondo
comma, del codice penale, è erroneo il presupposto interpretativo
sul quale il giudice remittente ha basato entrambe le questioni di
legittimità costituzionale;
che, pertanto, le questioni stesse devono essere dichiarate
manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi,
Dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli
articoli 2, terzo comma, del codice penale e 673 del codice di
procedura penale, e dell’articolo 341 del codice penale, sollevate in
riferimento, rispettivamente, agli articoli 3, primo comma, 13, 25,
secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, e agli articoli
1, secondo comma, 2, 3, primo e secondo comma, 13, 25, secondo comma,
27, terzo comma, 28, 49, 54 e 97, primo comma, della Costituzione,
dal Tribunale di Rovereto, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 giugno 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere:Di Paola
Depositata in cancelleria il 24 giugno 2002.
Il direttore della cancelleria:Di Paola