Ordinanza N. 275 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
22/07/1996
Data deposito/pubblicazione
22/07/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/07/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano
VASSALLI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv.
Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof.
Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia) come modificato
dall’art. 22, comma 01, del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche
urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di
contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni,
nella legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con n. 3 ordinanze emesse
il 5 maggio 1995, il 28 aprile 1995 e il 22 settembre 1995 dal
Tribunale di Napoli, rispettivamente iscritte ai nn. 488, 489 e 840
del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 38 e 50, prima serie speciale, dell’anno 1995;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 giugno 1996 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky;
Ritenuto che con ordinanza del 28 aprile 1995 (r.o. 489 del 1995)
il Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2 della legge 31 maggio 1965, n. 575
(Disposizioni contro la mafia), nel testo modificato, da ultimo,
dall’art. 22, comma 01, del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito,
con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in riferimento
agli articoli 3 e 97 della Costituzione;
che la norma è censurata dal Tribunale nella parte in cui
attribuisce la facoltà di promuovere il procedimento per
l’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di persone
indiziate di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, al
procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario
dimora la persona anziché al procuratore della Repubblica presso il
tribunale del capoluogo del distretto in cui ricade il luogo di
dimora del proposto;
che ad avviso del Tribunale rimettente l’anzidetta attribuzione
del potere di impulso del procedimento di prevenzione al procuratore
“circondariale” della Repubblica si rivelerebbe irragionevole e non
coordinata con l’attribuzione – effettuata dal d.-l. 20 novembre
1991, n. 367, convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio
1992, n. 8 – al procuratore distrettuale della Repubblica delle
funzioni di pubblico ministero nei procedimenti penali per i reati di
criminalità organizzata (art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.);
che tale differenziazione comporterebbe un pregiudizio sul piano
dell’efficienza dell’azione della pubblica amministrazione – nella
quale andrebbe inclusa anche l’amministrazione giudiziaria – in
quanto gli elementi in base ai quali è possibile formulare la
proposta per la misura preventiva emergerebbero proprio nel corso
delle indagini preliminari relative ai reati di stampo mafioso e
sarebbero quindi nella disponibilità del procuratore della
Repubblica individuato ex art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., il
quale non sarebbe, d’altra parte, obbligato a trasmettere gli
elementi di cui dispone al procuratore presso il tribunale
circondariale, se non in limitate ipotesi;
che la denunciata discrasia normativa non troverebbe neppure
adeguato bilanciamento nell’attribuzione del potere di impulso in
argomento anche al Procuratore nazionale antimafia (ex art. 22, comma
01, del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del
1992, ulteriormente modificativo della norma impugnata), essendo tale
potere, oltre che sistematicamente “spurio”, comunque riferibile alle
sole misure di prevenzione personali e non anche a quelle
patrimoniali;
che, inoltre, il giudice a quo ravvisa nella disposizione
denunciata un profilo di contrasto con il principio di eguaglianza,
giacché l’accennata disciplina favorirebbe coloro che – quali
possibili destinatari della proposta di applicazione della misura di
prevenzione – dimorano in un circondario diverso da quello il cui
capoluogo è anche capoluogo del distretto, correlativamente
sfavorendo coloro per i quali i detti luoghi coincidono;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, il quale, sottolineando da un lato l’estraneità del parametro
ex art. 97 della Costituzione all’ambito della funzione
giurisdizionale, e rilevando dall’altro la consapevolezza della
scelta legislativa censurata nonché la sua coerenza con il sistema
normativo di riferimento, ha concluso per una declaratoria di
infondatezza della questione;
che questioni analoghe a quella sopra detta sono state sollevate,
con due distinte ordinanze del 5 maggio e del 22 settembre del 1995
(r.o. 488 e 840 del 1995), dal medesimo Tribunale di Napoli;
che nei relativi giudizi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei Ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato,
che, richiamando il precedente atto di intervento, ha concluso nel
medesimo senso della infondatezza delle questioni così ulteriormente
sollevate.
Considerato che le questioni prospettate sono sostanzialmente
identiche, e che pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e
decisi congiuntamente;
che con la censura, formulata nei riguardi della disposizione che
individua gli organi cui è attribuito il potere di impulso del
procedimento di prevenzione, il Tribunale rimettente richiede a
questa Corte una pronuncia che sostituisca un ufficio del pubblico
ministero a un altro quanto alla titolarità di detto potere,
nell’assunto della maggiore, se non esclusiva, idoneità dell’ufficio
del procuratore distrettuale della Repubblica (art. 51, comma 3-bis,
cod. proc. pen.) a determinare l’avvio del procedimento in
questione;
che, dunque, la prospettiva cui mira la questione di
costituzionalità è quella della riunificazione, in capo al medesimo
ufficio del procuratore della Repubblica presso il tribunale del
capoluogo del distretto, della attribuzione delle funzioni di
pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di
primo grado per i reati indicati nel citato art. 51, comma 3-bis,
cod. proc. pen., e della attribuzione del potere di proposta per
l’applicazione di misure di prevenzione ai sensi della legislazione
antimafia;
che simile prospettiva potrebbe trovare ingresso in questa sede
solo qualora potessero dirsi omogenee le rispettive funzioni che,
come si è detto, il Tribunale rimettente chiede di accentrare in
unico ufficio del pubblico ministero;
che, viceversa, l’anzidetta omogeneità non è ravvisabile, sotto
diversi profili;
che, in particolare, in primo luogo manca una regola di
necessaria coincidenza tra il pubblico ministero (distrettuale) che
compie le indagini per i reati di criminalità organizzata e quello
(sempre distrettuale) che, nell’ipotesi formulata dal rimettente,
avvia il procedimento di prevenzione, giacché, dovendosi effettuare
l’individuazione del procuratore della Repubblica nel processo penale
di riflesso dalla individuazione del giudice competente, i criteri di
determinazione della competenza territoriale (artt. 8, 9 cod. proc.
pen.) e le modificazioni di questa in ragione della connessione
(artt. 12, 16 cod. proc. pen.) ben possono portare alla
individuazione di un pubblico ministero distrettuale per il reato “di
mafia” diverso da quello (della “dimora”) cui il giudice a quo chiede
venga attribuita la facoltà di avviare il procedimento delineato
dalle leggi n. 1423 del 1956 e n. 575 del 1965;
che, più in generale, devono essere sottolineate le profonde
differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e
di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato
oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio
dell’azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione
di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente
costituiscono reato e che sono localizzate attraverso il concetto di
“dimora” della persona, e altresì verificate in un procedimento che,
pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari dell'”azione” di
prevenzione soggetti diversi, appartenenti all’amministrazione
(Ministro dell’interno, con facoltà di delega ai prefetti, al
direttore della direzione investigativa antimafia e ad altri organi
dell’amministrazione della pubblica sicurezza; questore; nonché, in
precedenza, Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro
la delinquenza mafiosa);
che, alla luce dell’accennata diversità di funzione e di
struttura dell’accertamento penale e dello strumento di prevenzione
della pericolosità, il legislatore è variamente intervenuto a
regolare i punti di possibile interferenza tra le due sedi,
abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole
atipiche di pregiudizialità, per pervenire, da ultimo, alla
configurazione di ambiti di totale autonomia; salva l’opportuna
disposizione di coordinamento e di economia investigativa contenuta
nell’art. 23-bis, commi primo e secondo, della legge 13 settembre
1982, n. 646, menzionata del resto dal giudice a quo;
che, ulteriormente, è proprio nella linea di questa autonomia
reciproca dei due ordini di giudizi che il legislatore è intervenuto
(con l’art. 20 del d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con
modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203) sull’impugnato
art. 2 della legge n. 575 del 1965, ricollegando la competenza
dell’organo abilitato alla proposta di prevenzione all’ambito
circondariale in cui ricade la dimora del proposto, secondo una
scelta, non censurabile in questa sede, di ulteriore accentuazione
della vicinanza tra l’organo di investigazione e la persona che ne è
oggetto, in funzione dell’efficienza degli accertamenti utili alla
formulazione della proposta;
che, con detta scelta, il legislatore ha quindi consapevolmente
mutato il precedente criterio di collegamento tra pubblico ministero
proponente e giudice (del capoluogo di provincia) competente a
decidere, rendendo altresì possibile la diversificazione tra il
procuratore della Repubblica che avvia il procedimento e quello che
svolge le funzioni di pubblico ministero davanti al tribunale
decidente;
che, nell’ambito di tale quadro normativo, la richiesta
sostituzione di un organo a un altro nella titolarità del potere di
impulso del procedimento, per quanto osservato, non può dirsi sotto
alcun profilo soluzione costituzionalmente imposta sul piano della
ragionevolezza del sistema;
che, al contrario, l’introduzione della regola processuale
richiesta dal giudice a quo, oltre a essere in antitesi con il quadro
anzidetto, produrrebbe essa stessa effetti di complessiva disarmonia,
poiché individuerebbe il solo procuratore distrettuale della
Repubblica quale ufficio del pubblico ministero abilitato ad avviare
il procedimento di prevenzione, e ciò anche in tutti quei casi nei
quali, pur facendosi applicazione della legge n. 575 del 1965, non
v’è connotato “mafioso” o comunque riferibile a contesti di
criminalità organizzata nel senso indicato dall’art. 51, comma 3-bis
cod. proc. pen. preso a norma di raffronto, vale a dire nelle ipotesi
di pericolosità non qualificata richiamate dall’art. 19 della legge
22 maggio 1975, n. 152;
che, relativamente al profilo di contrasto con l’art. 97 della
Costituzione, deve essere ribadita l’estraneità di detto parametro
all’esercizio della funzione giurisdizionale, nel suo complesso e in
relazione ai diversi provvedimenti che ne costituiscono espressione
(da ultimo, ordinanze nn. 159, 147, 99 e sentenza n. 84 del 1996);
che le questioni sollevate devono perciò essere dichiarate
manifestamente infondate, in riferimento a entrambi i parametri;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza delle
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 31
maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), sollevate, in
riferimento agli articoli 3 e 97, primo comma, della Costituzione,
dal Tribunale di Napoli, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 luglio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 22 luglio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola