Ordinanza N. 384 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
23/07/2002
Data deposito/pubblicazione
23/07/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/07/2002
Presidente: Cesare RUPERTO;
Giudici: Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo
DE SIERVO, Romano VACCARELLA;
secondo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza
emessa il 1 agosto 2001 dal Tribunale di Torino nel procedimento
civile vertente tra Caffè Fioccucci S.n.c. e Giuseppe Maggio,
iscritta al n. 914 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, 1ª serie speciale,
dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2002 il Giudice
relatore Franco Bile.
Ritenuto che, con ordinanza in data 1 agosto 2001, il Tribunale
di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 669-septies,
secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non
prevede che il giudice possa provvedere sulle spese nel caso di
pronuncia di rigetto o di dichiarazione di incompetenza sulla domanda
di provvedimento cautelare proposta nel corso della causa di merito;
che la questione è stata proposta nel corso del giudizio
introdotto dalla s.n.c. Caffè Fioccucci contro Giuseppe Maggio, per
ottenere la riduzione del prezzo della compravendita di un’azienda,
in pendenza del quale la società attrice ha presentato un’istanza ex
art. 700 del codice di procedura civile, chiedendo che fosse ordinata
la sospensione del pagamento delle cambiali all’uopo rilasciate;
che il rimettente – premesso che l’istanza cautelare è
infondata, per carenza dei requisiti del fumus boni juris e
dell’irreparabilità del pregiudizio – rileva di non poter
pronunciare sulle spese del procedimento, perché l’art. 669-septies
secondo comma, del codice di procedura civile ammette la
liquidazione delle spese solo in caso di rigetto della misura
cautelare richiesta ante causam o di dichiarazione di incompetenza a
provvedere su di essa;
che ne deriverebbe – ad avviso del rimettente –
un’ingiustificata disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 della
Costituzione, tra due situazioni omogenee, secondo che la
soccombenza riguardi una domanda cautelare proposta ante causam o in
corso di causa, potendo la condanna alle spese seguire solo nel primo
caso e non anche nel secondo;
che inoltre la mancata previsione della regolazione delle
spese nei casi di rigetto delle istanze cautelari proposte nel corso
del processo non potrebbe essere ragionevolmente giustificata
con l’argomento che tale regolazione potrà avvenire con la sentenza
che definisce il giudizio, perché non sempre i processi si chiudono
con sentenza; perché non mancano ipotesi di provvedimenti provvisori
(viene citato l’art. 186-quater cod. proc. civ.), per i quali si
prevede la regolazione di spese; perché la differenza di trattamento
non servirebbe a deflazionare, ed anzi incrementerebbe, “il ricorso
ad un esagitato uso dell’azione cautelare atipica”;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria,
nella quale ha sostenuto l’infondatezza della questione.
Considerato che in tema di condanna nelle spese giudiziali civili
vige la regola generale per cui essa è correlata alla chiusura del
procedimento avanti al giudice (art. 91 del codice di procedura
civile);
che di tale regola l’art. 669-septies del codice di procedura
civile, concernente la liquidazione delle spese in caso di rigetto
della domanda cautelare proposta ante causam, rappresenta
un’applicazione, in quanto – non essendo previsto alcun automatismo
per l’inizio del giudizio di merito – il provvedimento di rigetto
definisce il procedimento cautelare;
che, invece, il provvedimento di rigetto della domanda
cautelare proposta in corso di causa non “chiude” il processo avanti
al giudice (semmai definisce solo un sub-procedimento interno al
giudizio a cognizione piena), e per tale ragione la decisione sulle
spese relative alla domanda cautelare è rimessa al momento della
definizione del giudizio di merito;
che pertanto la censura di disparità di trattamento fra
l’ipotesi del rigetto ante causam e quella del rigetto in corso di
causa, fra le quali non sussiste alcuna omogeneità, è
manifestamente infondata;
che altrettanto deve dirsi per la censura di
irragionevolezza, prospettata in ragione del rilievo che non sempre
il giudizio di merito è definito con sentenza;
che infatti tale ipotesi si verifica in caso di estinzione
del giudizio, la quale – che avvenga per rinuncia agli atti, ovvero
per inattività delle parti – non solo trova nel codice precise
regole riguardo alle spese (art. 306, ultimo comma; art. 310, ultimo
comma), ma comunque si correla ad una decisione delle parti (e,
quindi, anche di quella che vede rigettata l’altrui domanda
cautelare);
che – circa l’ulteriore profilo di censura relativo
all’esistenza di provvedimenti provvisori che regolano le spese pur
non definendo il giudizio avanti al giudice che li pronuncia,
discostandosi dalla regola emergente dall’art. 91 cod. proc. civ.
(come nel caso, citato dal remittente, della liquidazione delle spese
recata dall’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione ex
art. 186-quater cod. proc. civ., ma anche nei casi del decreto
ingiuntivo ex art. 641 cod. proc. civ. e dell’ordinanza-ingiunzione
ex art. 186-ter cod. proc. civ.) – è decisivo il rilievo che queste
deroghe alla regola generale non possono essere assunte come tertia
comparationis perché, al di là delle peculiarità di struttura e
funzione di ciascun istituto, sono correlate all’attitudine di tali
provvedimenti ad acquisire successivamente un certo grado di
stabilità circa l’assetto degli interessi coinvolti, eventualmente
con la forza del giudicato o con la possibilità di essere posti in
discussione solo in successivi giudizi a cognizione piena;
che questo rilievo vale in particolare per l’istituto
(ricordato dal rimettente) di cui all’art. 186-quater cod. proc.
civ., il quale sul piano dei presupposti, della struttura (per la
natura della cognizione che lo caratterizza) e della funzione non ha
alcun punto di contatto con la cognizione cautelare;
che l’ultima argomentazione del rimettente – secondo cui la
mancata previsione della statuizione sulle spese non scongiurerebbe
la riproposizione di istanze cautelari – si limita a prospettare un
inconveniente, rispetto al quale può soccorrere l’istituto di cui
all’art. 96 cod. proc. civ;
che, conclusivamente, la questione dev’essere dichiarata
manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 669-septies, secondo
comma, del codice di procedura civile, sollevata dal Tribunale di
Torino, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, con
l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Bile
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2002.
Il cancelliere: Fruscella