Ordinanza N. 441 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
23/12/1998
Data deposito/pubblicazione
23/12/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/12/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 27
ottobre 1997 dal Tribunale di Messina, nel procedimento penale a
carico di M. C., iscritta al n. 150 del registro ordinanze 1998 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima
serie speciale, dell’anno 1998;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella Camera di consiglio del 25 novembre 1998 il giudice
relatore Guido Neppi Modona;
Ritenuto che il tribunale di Messina ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, del codice di
procedura penale, nella parte in cui non prevede l’operatività della
connessione dei procedimenti tra reati comuni e reati militari in
tutte le ipotesi stabilite dall’art. 12 cod. proc. pen., in
riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione;
che, in relazione all’art. 3 Cost., il rimettente lamenta la
irragionevole disparità di trattamento riservata agli appartenenti
alle Forze armate, in quanto, nel caso in cui pendano a loro carico
procedimenti per reati comuni e militari, tali imputati possono
venire giudicati in un unico procedimento solo quando il reato comune
è più grave di quello militare, così risultando sacrificato –
malgrado la loro posizione sia sostanzialmente identica ove il reato
militare sia più grave di quello comune – l'”interesse sostanziale
al simultaneus processus, sia in ragione dell’onere aggiuntivo
derivante dall’essere sottoposto a più procedure, sia, soprattutto,
in considerazione del vantaggio di una difesa unitaria a fronte di
un’accusa relativa a fatti connessi”;
che, al riguardo, il rimettente precisa che la disciplina dettata
dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. è ispirata da valutazioni di
mera opportunità politica, certamente secondarie rispetto
all’interesse dell’imputato al simultaneus processus e tali da non
giustificare l’esclusione della piena operatività delle ipotesi di
connessione di cui all’art. 12 cod. proc. pen.;
che, in riferimento all’art. 76 Cost., il giudice rimettente
lamenta la violazione per eccesso di delega della direttiva numero 14
dell’art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, in quanto il
legislatore delegante “ha posto il principio della connessione”,
“stabilendo, quale unica eccezione all’operatività di tale
principio, i processi a carico di imputati minorenni”, in tal modo
escludendo che ulteriori deroghe potessero rientrare nell’ambito
della discrezionalità del legislatore delegato;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato chiedendo
che la questione sia dichiarata infondata e riportandosi, stante
l’analogia delle questioni, all’atto di intervento relativo al
giudizio di costituzionalità promosso con l’ordinanza iscritta al n.
980 del 1996 e deciso con ordinanza n. 169 del 1997;
Considerato che, nel perseguire il risultato di un simultaneus
processus tra reati appartenenti alla giurisdizione ordinaria e reati
appartenenti alla giurisdizione militare, legati da connessione, il
rimettente sovrappone erroneamente i distinti istituti della
connessione e della riunione dei processi, mostrando di non avvertire
che il primo istituto è strumento attributivo della competenza,
operante nei casi previsti dall’art. 12 cod. proc. pen., mentre il
secondo, quale criterio di mera organizzazione del lavoro
giudiziario, trova applicazione, in base all’art. 17 cod. proc. pen.,
solo quando più processi, pendenti davanti al medesimo giudice e
legati da connessione o da altri nessi tra reati, sono suscettibili
di trattazione congiunta, e cioè quando la riunione non pregiudichi
la loro rapida definizione (v. ordinanza n. 247 del 1998);
che, dunque, l’auspicato ampliamento dell’operatività della
connessione fra reati appartenenti alle sopraindicate sfere di
giurisdizione, con attribuzione di ogni regiudicanda alla
giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, non condurrebbe
necessariamente di per sé al cumulo dei processi, dipendendo tale
evenienza dal verificarsi di presupposti di natura processuale del
tutto accidentali (v. Relazione al Progetto preliminare del codice di
procedura penale p. 13);
che il legislatore delegante, con la direttiva n. 14 dell’art. 2
della legge-delega n. 81 del 1987, non ha affatto dettato un
principio normativo volto a favorire il cumulo delle regiudicande, ma
anzi, mirando a escludere ogni discrezionalità nella determinazione
del giudice competente e delineando perciò la connessione quale
criterio autonomo di attribuzione della competenza in vista di un
più rigoroso rispetto del principio del giudice naturale (v.
Relazione al Progetto preliminare ivi), da un lato ha espresso “un
evidente favor per la separatezza dei processi, ritenuta utile
soprattutto al fine di una maggiore speditezza degli stessi” (v.
sentenza n. 254 del 1992, nonché ordinanza n. 159 del 1996, che ha
confermato “la persistente validità dell’opzione di trattazione
autonoma di ciascuna res iudicanda” anche dopo la modifica dell’art.
12 cod. proc. pen. introdotta dall’art. 1 del decreto-legge 20
novembre 1991, n. 367, convertito in legge 20 gennaio 1992, n. 8);
dall’altro ha implicitamente previsto che la forza attrattiva della
connessione operi anche qualora non sia possibile o conveniente la
riunione dei procedimenti connessi;
che comunque con tale direttiva, che la Relazione al progetto
preliminare riferisce anche ai rapporti fra diverse giurisdizioni, il
legislatore delegante, diversamente da quanto opinato dal giudice a
quo, non ha inteso attribuire alla competenza per connessione il
valore di regola generale ed assoluta, derogabile solo con riguardo
ai reati commessi da imputati minorenni, né, tantomeno, ha indicato
alcun particolare criterio per stabilire in quali ipotesi il reato
comune attragga il reato militare nella giurisdizione ordinaria;
che, infatti, la direttiva n. 14 si limita a stabilire che la
disciplina dell’istituto della connessione dovrà prevedere
espressamente i relativi casi, con esclusione di qualsiasi forma di
discrezionalità nella determinazione del giudice competente
(criterio, quest’ultimo, puntualmente rispettato dall’art. 13, comma
2, cod. proc. pen.), introducendo poi una espressa ipotesi di
esclusione della connessione, certamente non tassativa, in quanto il
legislatore delegato risulta abilitato ad individuare i casi di
connessione;
che, conseguentemente, non sussiste il denunciato vizio di
costituzionalità per eccesso di delega;
che, quanto alla dedotta lesione dell’art. 3 Cost., l’art. 13,
comma 2, cod. proc. pen. – che opera una riduzione dei casi di
connessione tra reati comuni e reati militari rispetto alla
disciplina prevista dall’art. 49, terzo comma, del codice di
procedura penale del 1930 (poi superato dall’art. 8 della legge 23
marzo 1956, n. 167, a sua volta sostitutivo dell’art. 264 del codice
penale militare di pace mediante una disciplina che ha privilegiato
la vis attractiva del giudice ordinario) – delinea una soluzione
normativa non censurabile, in quanto espressione di una scelta non
irragionevole del legislatore, che si inserisce nell’impostazione di
fondo del processo penale in favore della trattazione separata dei
procedimenti;
che, infatti, con riferimento ai rapporti tra i procedimenti per
reati comuni e militari, non può dirsi imposto dal principio di
ragionevolezza un assetto normativo che, in vista dell’interesse
dell’imputato a un (del tutto eventuale) simultaneus processus
travalichi in ogni caso i limiti entro cui ordinariamente si
esercitano le due distinte giurisdizioni (v., in relazione alla
disciplina della connessione tra reati comuni e militari sotto la
vigenza del codice di procedura penale del 1930, sentenze n. 206 del
1987, n. 73 del 1980, n. 196 del 1976, n. 29 del 1958);
che la scelta del vigente codice di procedura penale di limitare
i casi di connessione tra reati comuni e militari alle ipotesi di
maggiore gravità del reato comune risponde all’esigenza,
sottolineata nella relazione al progetto definitivo del codice (p.
166), di evitare che, attraverso l’estensione della competenza
attrattiva del giudice ordinario a tutte le ipotesi di connessione
previste dall’art. 12 cod. proc. pen., l’esercizio della
giurisdizione militare risultasse eccessivamente e irragionevolmente
penalizzato, in quanto operante, paradossalmente, anche nelle ipotesi
in cui il reato militare fosse connesso con un mero reato
contravvenzionale di competenza del giudice
ordinario;
che pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice
rimettente, la disciplina dettata dall’art. 13, comma 2, cod. proc.
pen. non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza, né
determina una ingiustificata disparità di trattamento tra
appartenenti alle Forze armate imputati di reati comuni e militari;
che la questione sollevata dal rimettente deve pertanto essere
dichiarata manifestamente infondata;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale;
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 13, comma 2, del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dal
tribunale di Messina, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Neppi Modona
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1998
Il direttore della cancelleria: Di Paola