Ordinanza N. 456 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1997
Data deposito/pubblicazione
30/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale
MARINI;
comma 2, della legge 10 febbraio 1992, n. 164 (Nuova disciplina delle
denominazioni d’origine), promosso con ordinanza emessa il 9 ottobre
1996 dal pretore di Bologna, iscritta al n. 1323 del registro
ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 51, prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 15 ottobre 1997 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte;
Ritenuto che, nel corso di un processo di opposizione a decreto
penale di condanna alla pena di lire 102 milioni e 250 mila di multa,
emesso nei confronti del titolare di un’azienda agricola in relazione
alle contravvenzioni previste e punite dall’art. 28 della legge 10
febbraio 1992, n. 164 (Nuova disciplina delle denominazioni di
origine), per avere prodotto diverse quantità di vino Merlot dei
Colli Bolognesi DOC, Sauvignon dei Colli Bolognesi DOC e Cabernet
Sauvignon dei Colli Bolognesi DOC, risultate all’esame organolettico
prive dei requisiti richiesti per l’uso della denominazione perché
interessate da frizzantatura o da presa di spuma, il pretore di
Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27, secondo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 10 e 28 della predetta legge;
che, ad avviso del giudice a quo, le disposizioni impugnate
contrasterebbero con il principio di necessaria offensività del
reato, in quanto la sanzione penale viene prevista anche per la
violazione di prescrizioni del disciplinare di produzione di vini a
denominazione di origine controllata prive, come nel caso di specie,
della significatività minima necessaria a conferire al bene
giuridico tutela penale;
che, sempre ad avviso del giudice remittente, le stesse
disposizioni contrasterebbero con l’art. 3 della Costituzione,
perché irragionevolmente prevederebbero, per le condotte ivi
considerate, una sanzione più grave di quella posta dall’art. 516
cod. pen. per identici fatti tipici lesivi del medesimo bene
giuridico;
che, infine, secondo il giudice a quo, gli artt. 10 e 28 della
legge 10 febbraio 1992, n. 164, contrasterebbero con l’art. 27,
secondo comma, della Costituzione, essendo evidente, a causa della
mancata previsione di una ipotesi delittuosa attenuata per violazioni
non comportanti adulterazione o manipolazione del prodotto, che nel
caso di specie il legislatore ha fatto un uso irragionevole della
propria discrezionalità nella determinazione della pena;
Considerato che l’art. 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164,
sanziona con la pena della reclusione fino ad un anno e della multa
da lire tre milioni a lire diciotto milioni per ogni ettolitro o
frazione di ettolitro di prodotto chiunque vende, pone in vendita o
comunque distribuisce per il consumo con denominazione di origine
vini che non hanno i requisiti richiesti per l’uso di tale
denominazione;
che l’art. 10 della citata legge, anch’esso oggetto di
impugnazione, stabilisce che nei disciplinari di produzione dei vini
DOCG e DOC, proposti dai consorzi volontari autorizzati ovvero dagli
interessati, e approvati dal Ministro dell’agricoltura e delle
foreste, sono stabiliti, oltre alla denominazione di origine e alla
individuazione della zona di produzione, la resa massima di uva e di
vino ad ettaro, il titolo alcolometrico volumico minimo naturale
potenziale delle uve alla vendemmia, le caratteristiche
fisico-chimiche ed organolettiche del vino nonché il titolo
alcolometrico volumico minimo richiesto al consumo, le condizioni di
produzione e le caratteristiche naturali dell’ambiente, le modalità
dell’esame chimico-organolettico prescritto dalla CEE per tutti i
vini VQPRD, l’eventuale periodo minimo di invecchiamento in
recipienti di legno e di affinamento in bottiglia e, infine,
l’eventuale imbottigliamento in zone delimitate;
che le prescrizioni contenute nel disciplinare, la cui osservanza
consente la utilizzazione della denominazione di origine, quindi,
contrariamente a quanto prospettato dal giudice remittente,
concernono aspetti che, riguardando la individuazione della zona di
produzione e dei vitigni, il procedimento di vinificazione, le
caratteristiche organolettiche del prodotto, l’invecchiamento e
l’imbottigliamento, non attengono ad aspetti formali, ma ineriscono
alle caratteristiche che sole consentono di poter qualificare un
prodotto con quella particolare denominazione;
che, pertanto, la previsione di una sanzione penale per la
violazione delle prescrizioni dei disciplinari di produzione non
appare affatto lesiva del principio di offensività, dovendosi
ravvisare in tale violazione una sicura lesione del bene giuridico
dell’affidamento del consumatore nella sussistenza di determinati
requisiti di qualità in un prodotto che legittimamente gode di una
denominazione;
che, quanto alla violazione del principio di eguaglianza,
prospettata dal giudice a quo, con riferimento al trattamento
sanzionatorio stabilito dall’art. 516 cod. pen. (reclusione fino a
sei mesi o multa fino a lire due milioni) per chiunque ponga in
vendita o metta comunque in commercio come genuine sostanze
alimentari non genuine, difetta il requisito di una valida
comparazione, ponendosi la normativa sulla denominazione dei vini in
termini di specialità rispetto a quella generale sulla vendita delle
sostanze alimentari e non apparendo, quindi, affatto irragionevole un
trattamento sanzionatorio più severo proprio in considerazione delle
garanzie di qualità che la utilizzazione di una certa denominazione
comporta;
che, del resto, la proposizione di una censura ai sensi dell’art.
3 della Costituzione, sul presupposto della identità delle condotte
sanzionate, alla quale dovrebbe fare riscontro una identità di
trattamento sanzionatorio, risulta contrastata dalla varietà di
trattamenti sanzionatori previsti dalle leggi speciali a tutela della
esistenza dei requisiti richiesti per la utilizzazione di alcune
denominazioni di origine (si vedano, ad esempio, le disposizioni in
materia di formaggi: art. 9 della legge 10 aprile 1954, n. 125; in
materia di oli: art. 8 della legge 13 novembre 1960, n. 1407; in
materia di prosciutto: art. 13 della legge 13 febbraio 1990, n. 26);
che, quanto alla dedotta violazione dell’art. 27, secondo comma,
della Costituzione, per irragionevole esercizio della
discrezionalità legislativa nella determinazione della pena, desunta
dal giudice a quo dalla mancata previsione di una ipotesi attenuata
per le violazioni di minor rilievo, deve ricordarsi che questa Corte
ha più volte affermato che la configurazione delle fattispecie
criminose e la valutazione delle conseguenze penali appartengono alla
politica legislativa e, quindi, all’incensurabile discrezionalità
del legislatore, con l’unico limite della manifesta irragionevolezza,
che deve senz’altro escludersi nel caso in cui due condotte,
ancorché diverse nel disvalore, siano tuttavia trattate in modo
omogeneo sul piano sanzionatorio dal legislatore, in quanto in questo
caso l’adeguamento della pena all’effettivo disvalore della condotta
rientra tra i compiti del giudice nell’esercizio dei poteri
conferitigli dagli artt. 132 e 133 cod. pen;
che, nel caso di specie, essendo la pena per le violazioni
sanzionate dall’art. 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164,
stabilita tra un minimo e un massimo ed essendo, quindi, consentito
al giudice, entro questi limiti, adeguare la pena all’effettivo
disvalore della condotta, deve senz’altro escludersi la manifesta
irragionevolezza del trattamento sanzionatorio;
che, infine, non rientra tra i compiti di questa Corte la
possibilità di valutare le scelte del legislatore in ordine alla
previsione o meno di ipotesi delittuose attenuate, potendosi soltanto
rilevare che, poiché nella precedente normativa, così come
osservato dal giudice a quo, era effettivamente prevista una ipotesi
attenuata per infrazioni relative a lievi differenze nelle gradazioni
o alle disposizioni sulla etichettatura (art. 28, secondo comma, del
d.P.R. 12 luglio 1963, n. 930, recante “Norme per la tutela delle
denominazioni di origine dei mosti e dei vini”), la mancata
previsione di siffatta ipotesi di minor gravità risponde
inequivocabilmente ad una scelta discrezionale del legislatore, la
quale non appare a sua volta manifestamente irragionevole, potendo
trovare giustificazione nella maggior diffusione del prodotto oggetto
di denominazione e nella esigenza di ampliare le forme di tutela del
consumatore;
che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 10 e 28 della legge 10 febbraio 1992, n. 164, deve essere
dichiarata manifestamente infondata sotto tutti i profili prospettati
dal giudice a quo;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale degli artt. 10 e 28 della legge 10 febbraio 1992, n.
164 (Nuova disciplina delle denominazioni d’origine), sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 25 e 27, secondo comma, della Costituzione,
dal pretore di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
Il cancelliere: Fruscella