Ordinanza N. 457 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1997
Data deposito/pubblicazione
30/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 13
gennaio 1997 dal giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Cassino, nel procedimento penale a carico di Turchetta
Antonio ed altri, iscritta al n. 122 del registro ordinanze 1997 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie
speciale, dell’anno 1997;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 1 ottobre 1997 il giudice
relatore Giuliano Vassalli;
Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Cassino ha premesso in fatto che, essendo stato ammesso
il giudizio abbreviato su consenso prestato dal locale procuratore
della Repubblica, successivamente posto fuori del ruolo organico
della magistratura, nella udienza fissata per la discussione altro
magistrato, chiamato a svolgere le funzioni di pubblico ministero, ha
dichiarato di voler revocare il consenso al rito non essendo il
procedimento a suo avviso definibile allo stato degli atti e, in
subordine, ha eccepito questione di legittimità costituzionale degli
artt. 438 e seguenti cod. proc. pen. nella parte in cui non
prevedono la possibilità di revoca del consenso nella ipotesi in cui
il magistrato che lo ha prestato non possa più partecipare
all’udienza;
che a sostegno della proposta eccezione il pubblico ministero ha
invocato la sentenza n. 484 del 1995, nella quale questa Corte ha
affermato il principio della revocabilità della ordinanza di
ammissibilità del rito da parte del giudice diverso per un postulato
di identità che, inespresso nel dato normativo, risulta chiaramente
delineato nel sistema;
che a proposito di tale eccezione, il rimettente – pur rilevando
che “tale postulato di identità” non può essere invocato per il
pubblico ministero, attesa la particolare composizione dell’ufficio e
“per la natura di contratto di diritto pubblico che si riconosce alla
richiesta di rito ed al consenso” – osserva che il principio di
indipendenza del pubblico ministero, attuato dall’art. 70, terzo
comma, dell’ordinamento giudiziario e ribadito dall’art. 53 del
codice di rito, risulterebbe in effetti compromesso nei casi in cui
il magistrato che ha espresso il consenso si trovi nella assoluta
impossibilità di partecipare al giudizio abbreviato sostenendo
personalmente l’accusa;
che alla stregua di tali rilievi – conclude il giudice a quo – si
appaleserebbe dunque fondato il dubbio che gli artt. 439 e 440 cod.
proc. pen. si pongano in contrasto con l’art. 108 della Costituzione,
nella parte in cui non prevedono la revocabilità da parte del
pubblico ministero di udienza, anche dopo l’ordinanza di ammissione
del rito abbreviato, del consenso prestato da diverso magistrato
della procura della Repubblica impossibilitato in modo assoluto a
partecipare al giudizio abbreviato;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e
comunque infondata;
Considerato che, a prescindere dalla palese erroneità del
parametro invocato – venendo qui in discorso l’art. 107, ultimo
comma, della Costituzione e non, come dedotto dal rimettente, l’art.
108 della Carta fondamentale – il caso di specie posto a fondamento
della questione non presenta alcuna interferenza con le garanzie di
indipendenza che il codice di rito e le norme sull’ordinamento
giudiziario assicurano al pubblico ministero, giacché la
sostituzione del magistrato che esercita quelle funzioni è in sé
una eventualità che in nessun caso può incidere sulla validità e
l’efficacia degli atti processuali già compiuti o valere quale
atipica legittimazione ad una sorta di restituzione nel termine per
l’esercizio di facoltà precluse o per riesaminare unilateralmente
scelte che hanno ormai prodotto i loro effetti;
che il principio di conservazione degli atti, l’ordine del
processo e la certezza dei relativi rapporti sono tutti valori che
impongono la riferibilità delle singole condotte alla parte
unitariamente intesa, a prescindere da chi volta a volta sia chiamato
a rappresentarla, sicché in ipotesi di sostituzione del magistrato
del pubblico ministero – e non diversamente da ciò che accade nel
caso di sostituzione del difensore – il nuovo rappresentante non può
che intervenire nel processo nello stato in cui esso si trova, senza
per questo vedere in alcun modo compromessa la propria autonomia,
posto che tale garanzia – essendo per definizione correlata
all’esercizio concreto delle relative funzioni – può trovare risalto
solo nel presente e con riferimento a quelle attività processuali
ancora da compiere;
che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata
manifestamente infondata;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale degli artt. 439 e 440 del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento all’art. 108 (recte: 107, ultimo comma)
della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Cassino.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.
Il cancelliere: Fruscella