Ordinanza N. 490 del 1994
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1994
Data deposito/pubblicazione
30/12/1994
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/12/1994
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: prof. Gabriele PESCATORE, prof. Antonio BALDASSARRE, prof.
Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof.
Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando
SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento,
del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 4 maggio 1994 dal Tribunale di Monza
sull’istanza proposta dalla s.p.a. Mariovilla nei confronti della
s.d.f. G.A.M. Luce, iscritta al n. 488 del registro ordinanze 1994 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima
serie speciale, dell’anno 1994;
2) ordinanza emessa il 26 maggio 1994 dal Tribunale di Rimini
sull’istanza proposta dalla Banca Popolare Valconca di Morciano nei
confronti della s.a.s. Carnevali Evio e C., iscritta al n. 534 del
registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 1994;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 1994 il Giudice
relatore Francesco Guizzi;
Ritenuto che nel corso del procedimento instaurato per la
dichiarazione di fallimento della società di fatto G.A.M. Luce di
Sandri Andrea e La Rosa Antonino, il Tribunale di Monza, con
ordinanza in data 4 maggio 1994, ha sollevato, in relazione all’art.
3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo
1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), nella parte in cui dispone che “in nessun caso sono
considerati piccoli imprenditori le società commerciali”;
che, ad avviso del Tribunale rimettente, la società debitrice,
non iscritta nell’Albo delle imprese artigiane, svolgeva attività di
produzione e vendita di lampade con l’esclusivo lavoro dei due soci
ed era alimentata da introiti particolarmente modesti, sì che
potrebbe essere ritenuta “piccola impresa” se non vi ostasse il
disposto dell’ultima parte dell’art. 1 del citato Regio decreto n.
267;
che, di conseguenza, il Tribunale ha sollevato questione di
legittimità costituzionale della norma anzidetta per violazione
dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione, nonostante una
precedente negativa pronuncia di questa Corte (sent. n. 54 del 1991);
che il concetto di piccolo imprenditore, secondo
l’interpretazione corrente, si riferirebbe esclusivamente alle
imprese individuali e non a quelle costituite in forma societaria,
anche quando, per limiti dimensionali ed attività esercitata, esse
non differiscono dalle prime, sì che ne discenderebbe una palese
disparità di trattamento non solo tra imprenditori individuali e
piccole società, ma, in questo stesso ambito, tra le società di
persone a seconda che rivestano la qualifica formale di artigiane o
commerciali;
che tale ultima incongruenza sarebbe stata favorita dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza
n. 368 del 1991, avrebbe affermato l’esclusione delle società
artigiane dal fallimento e l’assoggettabilità di tutte quelle
imprese societarie che – per limiti dimensionali e per l’assenza di
speculazione e di profitto – non risultino piccoli imprenditori;
che l’irrazionale disparità di trattamento si apprezza
ulteriormente in considerazione del fatto che la legge 8 agosto 1985,
n. 443 (legge quadro per l’artigianato), secondo una diffusa
interpretazione della giurisprudenza, richiede – per la
qualificazione di società artigiana – l’iscrizione nell’Albo delle
imprese istituito presso la Camera di commercio, onde due società,
svolgenti le medesime attività economiche senza intento speculativo,
sia per la modestia dei mezzi sia per la prevalenza del lavoro sul
capitale, sarebbero diversamente trattate a seconda che abbiano o
meno richiesto l’iscrizione nel predetto Albo;
che, pur avendo questa Corte respinto analoga questione di
costituzionalità con le sentenze nn. 395, 374 e 11 del 1993 (tutte
con preciso richiamo alla sentenza n. 54 del 1991), il tribunale
rimettente ha creduto di doverla riproporre in ordine allo specifico
profilo della differenziazione dei trattamenti conseguibili sulla
base dell’iscrizione (o meno) della società personale nell’Albo
previsto dalla legge;
che, con altra ordinanza, emessa nel procedimento per la
dichiarazione di fallimento della società in accomandita semplice
Carnevali Evio e C., il Tribunale di Rimini ha sollevato analoga
questione di costituzionalità relativa all’art. 1, secondo comma,
del Regio decreto n. 267 del 1942;
che, anche in questo caso, la società debitrice avrebbe tutte
le caratteristiche per essere qualificata come piccolo imprenditore
se non vi ostasse la disposizione impugnata;
che, ad avviso del giudice a quo, all’attuale stadio della
legislazione la presunzione di speculazione e profitto,
caratteristica delle società commerciali, non dovrebbe più
ritenersi elemento essenziale delle società di capitale, come
mostrerebbe l’esempio delle società sportive;
che ne conseguirebbe l’irrazionalità, nel mutato contesto
legislativo, della presunzione assoluta della finalità lucrativa
stabilita per tutte le società nell’ultimo comma dell’art. 1 della
legge fallimentare, tuttora in vigore, in quanto essa impedirebbe
all’impresa societaria di fornire al giudice la prova circa le
proprie piccole dimensioni (e, quindi, la prova dell’assenza dello
scopo di lucro);
che altrettanto irragionevole sarebbe – rispetto alle società
comnmerciali di persone – il differente trattamento riservato alle
imprese artigiane a struttura societaria, per le quali non vi
sarebbero invece ostacoli all’accertamento delle caratteristiche di
piccola impresa, ai sensi dell’art. 2083 codice civile (censure di
incostituzionalità in relazione ai parametri di cui agli art. 3 e 24
della Costituzione);
che, per entrambi i giudizi, è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o
l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale
sollevata;
Considerato che, con argomenti già valutati da questa Corte
(sent. n. 266 del 1994), con le due ordinanze in esame viene
impugnata l’identica disposizione rappresentata dall’art. 1, secondo
comma, ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), nella parte in cui stabilisce che “in nessun caso
sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”;
che l’unica sostanziale nuova prospettazione è costituita dal
preteso diverso trattamento delle società “di piccole dimensioni” a
seconda che abbiano (o meno) richiesto l’iscrizione nell’Albo delle
imprese artigiane;
che in ordine all’assoggettabilità (o meno) al fallimento della
società artigiana devesi prendere ulteriormente atto – come già
rilevato nella citata sentenza n. 266 – dell’errato presupposto d’uno
stabile orientamento giurisprudenziale;
che, pertanto, previa la riunione dei giudizi, la questione va
dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma,
ultima parte, del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata,
in relazione all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale di Monza e, in relazione agli artt. 3 e 24 della
Costituzione, dal Tribunale di Rimini, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1994.
Il Presidente: CASAVOLA
Il redattore: GUIZZI
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1994.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA