Ordinanza N. 580 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
29/12/2000
Data deposito/pubblicazione
29/12/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/12/2000
Presidente: Fernando SANTOSUOSSO;
Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,
Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in crisi), convertito, con
modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell’art. 203 del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, della amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il
2 dicembre 1999 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a
carico di P. O., iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2000 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, 1ª serie
speciale, dell’anno 2000.
Visti gli atti di costituzione di P. O. e del Commissario
straordinario della Pianelli & Traversa S.a.s. in amministrazione
straordinaria nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 28 novembre 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
Udito l’avv. Giuseppe Zanalda per il Commissario straordinario
della Pianelli & Traversa s.a.s. in amministrazione straordinaria.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 2 dicembre 1999, il
Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 del d.-l. 30 gennaio 1979, n. 26 (Provvedimenti urgenti
per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi),
convertito, con modificazioni, in legge 3 aprile 1979, n. 95, e
dell’art. 203 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), “per omessa
menzione”, nella seconda delle norme impugnate, “anche dell’art. 222
della legge fallimentare, con riferimento alla posizione, e
conseguente responsabilità penale, dei soci illimitatamente
responsabili di società ammessa alla procedura di amministrazione
straordinaria che abbiano disposto di propri beni personali”;
che il giudice a quo premette di essere investito del
processo a carico di persona imputata del reato di bancarotta
fraudolenta patrimoniale aggravata, di cui agli artt. 1 della legge
n. 95 del 1979, 203, primo comma, 222, 216, primo comma, numero 1 e
secondo comma, 219, primo comma, della legge fallimentare, per avere,
nella qualità di socio accomandatario di una società in accomandita
semplice, distratto beni personali dopo l’ammissione della società
alla procedura di amministrazione straordinaria di cui alla legge
n. 95 del 1979;
che, nel ritenere l’ipotesi accusatoria avvalorata, in linea
di fatto, dall’istruttoria dibattimentale, il giudice a quo esclude,
tuttavia, che la condotta sopra descritta possa venire inquadrata,
alla luce del dato normativo, nella fattispecie criminosa contestata;
che – ricordate le contrastanti opinioni espresse dalla
dottrina, in assenza di specifiche pronunce della giurisprudenza di
legittimità, circa l’applicabilità delle norme penali fallimentari
ai soci illimitatamente responsabili di società sottoposte ad
amministrazione straordinaria (ovvero a liquidazione coatta
amministrativa, la cui disciplina è richiamata dall’art. 1 della
legge n. 95 del 1979) – il rimettente assume, infatti, che l’unica
interpretazione condivisibile del combinato disposto dell’art. 1, ora
citato, e dell’art. 203 della legge fallimentare sia quella che
circoscrive la responsabilità per bancarotta dei predetti soci ai
fatti commessi sul patrimonio della società, con conseguente
irrilevanza penale delle condotte distrattive di beni personali;
che tale lettura – la quale muove dal rilievo che i soci a
responsabilità illimitata (a differenza di quanto si verifica nel
fallimento, in forza dell’art. 147 della legge fallimentare) non
vengono direttamente assoggettati ad amministrazione straordinaria, e
dunque non perdono, in costanza di essa, la disponibilità del
proprio patrimonio – si imporrebbe segnatamente a fronte della
mancata inclusione, fra le norme penali fallimentari richiamate
dall’art. 203 della legge fallimentare, dell’art. 222 della stessa
legge, e, cioè, proprio della disposizione che vale a fondare la
responsabilità per bancarotta dei soci illimitatamente responsabili
che abbiano disposto di beni personali in pendenza di procedure
concorsuali diverse dalla liquidazione coatta amministrativa e
dall’amministrazione straordinaria: onde una interpretazione di segno
opposto a quella prospettata si scontrerebbe – ad avviso del
rimettente – con il divieto di analogia in malam partem in materia
penale;
che, in simile prospettiva, le norme denunciate si porrebbero
peraltro in contrasto con il principio di uguaglianza, in quanto il
diverso trattamento penalistico della medesima condotta – nel
fallimento e nell’amministrazione straordinaria – risulterebbe del
tutto irragionevole: i presupposti di ammissione delle società di
persone all’amministrazione straordinaria sono, infatti, indipendenti
dalla condotta dei soci illimitatamente responsabili, i cui atti
distrattivi di beni personali avrebbero, anzi, in tale procedura,
effetti negativi quasi sempre più gravi che non in caso di
fallimento;
che la denunciata lesione del principio di uguaglianza si
apprezzerebbe anche nei riguardi dei creditori, i quali, in mancanza
di un deterrente penale per le condotte considerate, troverebbero
nell’amministrazione straordinaria una tutela ridotta e “degradata”,
rispetto a quella offerta dal fallimento: soluzione normativa,
questa, non giustificabile neppure facendo leva sulla diversa
finalità delle due procedure (conservativa la prima, liquidatoria
l’altra), essendo l’obiettivo del soddisfacimento dei creditori
comune anche alla procedura speciale;
che l’assetto normativo costituzionalmente corretto –
sottolinea, da ultimo, il giudice a quo – sarebbe stato in effetti
adottato dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, recante la nuova
disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
stato di insolvenza, il quale ha, per un verso, esteso ai soci
illimitatamente responsabili gli effetti della dichiarazione dello
stato di insolvenza della società (art. 23), e, per l’altro,
equiparato la dichiarazione stessa a quella di fallimento ai fini
dell’applicazione delle norme penali, ivi compreso l’art. 222 della
legge fallimentare (art. 95 del d.lgs. n. 270 del 1999);
che tale nuova disciplina risulterebbe peraltro inapplicabile
nel giudizio a quo al lume dei principi regolatori della successione
di leggi penali nel tempo;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la
declaratoria di inammissibilità o, comunque, di infondatezza della
questione, rilevando come il rimettente invochi una pronuncia
additiva in malam partem che esorbita dai poteri di questa Corte;
che si è costituito in giudizio il Commissario della
società in amministrazione straordinaria, parte civile nel processo
a quo il quale ha chiesto, in via principale, che la questione sia
accolta e, in subordine, che essa sia rigettata per erroneo
presupposto interpretativo, dovendosi ritenere che l’art. 203 della
legge fallimentare già consenta, in realtà, di punire i soci
illimitatamente responsabili di società in amministrazione
straordinaria per fatti di distrazione di beni personali;
che si è costituito, altresì, l’imputato nel processo a quo
il quale ha concluso, in via principale, per la declaratoria di
inammissibilità della questione, in quanto finalizzata a colmare un
“vuoto” di tutela penale, con intervento precluso a questa Corte
dalla riserva di legge sancita dall’art. 25, secondo comma, della
Costituzione; e, in via subordinata, per la dichiarazione della sua
infondatezza, in quanto il vizio di costituzionalità denunciato dal
giudice a quo deriverebbe, non tanto dalle norme penali che escludono
la configurabilità del delitto di bancarotta, quanto piuttosto – ed
“a monte” – dalle disposizioni che non assoggettano alla procedura di
amministrazione straordinaria, di cui alla legge n. 95 del 1979, i
beni dei soci illimitatamente responsabili.
Considerato che il Tribunale rimettente – muovendo dal
presupposto interpretativo (frutto di una selezione tra diverse
ipotesi di lettura) per cui l’art. 203 della legge fallimentare, nel
richiamo fattone dall’art. 1 della legge n. 95 del 1979, punirebbe, a
titolo di bancarotta, i soci illimitatamente responsabili di società
in amministrazione straordinaria con riferimento ai soli fatti
commessi sul patrimonio sociale, e non anche per quelli aventi ad
oggetto beni personali; ed assumendo, altresì, che tale regime violi
il principio di uguaglianza, nel confronto con la disciplina valevole
in caso di fallimento – sollecita l’estensione della previsione
punitiva a condotte che, secondo la sua stessa prospettazione, non vi
sarebbero comprese (quelle incidenti, per l’appunto, sul patrimonio
personale del socio);
che all’adozione dell’invocata pronuncia osta in radice,
tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 della Costituzione, il quale
– per costante giurisprudenza di questa Corte – “nell’affermare il
principio che nessuno può essere punito se non in forza di una legge
entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte
costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che
l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o
aggravare figure di reato già esistenti” (v. sentenza n. 411 del
1995 e ordinanza n. 392 del 1998; in generale, sulla inammissibilità
di interventi additivi in malam partem in materia penale, cfr.
ordinanze nn. 317 del 2000; 51, 245 e 337 del 1999; 106 e 413 del
1998; 297 del 1997);
che, pertanto, la questione – tesa evidentemente a provocare
una pronuncia di questa Corte in malam partem con effetti di
ampliamento di una fattispecie criminosa rispetto al campo
applicativo che il giudice rimettente, in via d’interpretazione, le
ritiene proprio – deve essere dichiarata manifestamente
inammissibile.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. 30 gennaio 1979,
n. 26 (Provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, in
legge 3 aprile 1979, n. 95, e dell’art. 203 del regio decreto 16
marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione
coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo
comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza in
epigrafe.
Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 2000.
Il Presidente: Santosuosso
Il redattore: Flick
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 29 dicembre 2000.
Il cancelliere: Fruscella