Ordinanza N. 59 del 1999
Corte Costituzionale
Data generale
04/03/1999
Data deposito/pubblicazione
04/03/1999
Data dell'udienza in cui è stato assunto
24/02/1999
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA,
prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
commi 1 e 2, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza
emessa il 15 giugno 1998 dal giudice di pace di Firenze nel
procedimento civile vertente tra Migliori Monica e Perrotta Domenico,
iscritta al n. 598 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale,
dell’anno 1998.
Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1999 il giudice
relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto che – nel corso di un giudizio avente ad oggetto il
pagamento di somme dovute per il mantenimento della prole, in cui il
convenuto, dichiarato contumace, era tuttavia comparso personalmente
dimostrando l’avvenuto, seppur tardivo, pagamento – il giudice di
pace di Firenze, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di condanna
alle spese, ha sollevato, con ordinanza emessa il 15 giugno 1998,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 91 e 92, comma
1, “fino a “superflue””, e comma 2, cod. proc. civ., in riferimento
agli artt. 3 e 24 Cost.;
che, secondo il rimettente, “gli articoli 91 e 92 cod. proc.
civ. non assicurano la effettiva possibilità di pagare le proprie
spese di lite con quelle poste a carico della controparte in base
alla sentenza di condanna”, per cui “la parte attrice, benché
vincente, se non è abbiente, pur non trovandosi nelle condizioni
molto restrittive di aver diritto al gratuito patrocinio, può essere
nella situazione di non poter far fronte alle spese processuali”, con
conseguente impedimento dell’esercizio del suo diritto alla difesa
tecnica, e può comunque “essere indotta a rinunciare a far valere i
propri diritti in giudizio per non correre il rischio di dover
rifondere, in caso di soccombenza, le spese processuali alla
controparte, spesso di importo molto consistente rispetto alle
possibilità economiche di chi ha mezzi limitati”, quand’invece “la
parte attrice abbiente non ha questi problemi”;
che inoltre – sempre secondo il rimettente – “gli articoli 91 e
92 cod. proc. civ. mettono nelle stesse condizioni di obbligati al
pagamento delle spese processuali di soccombenza sia il convenuto che
ha la possibilità di effettuarlo e sia il convenuto che non ha tale
possibilità, per cui quest’ultimo può trovarsi nella situazione di
non essersi costituito in giudizio per non poter pagare un difensore
e di essere poi condannato a rifondere le spese processuali della
parte attrice, pur non avendo potuto pagare neppure un proprio
difensore con il quale costituirsi in giudizio, mentre totalmente
diversa è la condizione del convenuto abbiente”.
Considerato che il giudice a quo, omettendo una puntuale
motivazione sulla rilevanza della sollevata questione, si limita a
notare che “il processo (pendente davanti a lui) ha come residuo
oggetto di controversia solamente le spese processuali, in relazione
alle quali la decisione va presa in base agli artt. 91 e 92 cod.
proc. civ.”;
che già da tale notazione appare evidente, in riferimento ad
entrambi i parametri evocati, l’irrilevanza della questione stessa
per quanto concerne chi agisce in giudizio, proprio perché nella
specie l’attrice, non solo ha già fatto valere, ma ha anche
realizzato la sua pretesa creditoria;
che altrettanto va detto per quanto concerne il diritto di difesa
di chi è chiamato in giudizio, poiché nella specie il convenuto ha
avuto modo di paralizzare in concreto l’azione della controparte
dimostrando il proprio adempimento;
che, relativamente poi alla prospettata violazione dell’art. 3
della Costituzione per ingiustificata parità di trattamento fra
convenuti abbienti e convenuti non abbienti, risulta palese
l’estraneità della censura alle denunciate disposizioni, le quali si
limitano infatti a regolare l’onere delle spese processuali fra
attore e convenuto in base al principio di soccombenza, egualmente
valido per entrambi e comunque derogabile dal giudice ove sussistano
“giusti motivi”, mentre invece le condizioni economiche di ciascuno
di essi potrebbero semmai assumere rilievo (unicamente) in diversa
sede, come può essere quella del gratuito patrocinio, alla cui
attuale estensione andrebbe eventualmente rivolta detta censura;
che pertanto la questione è manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale degli artt. 91 e 92, comma 1 e comma 2,
del codice di procedura civile, sollevata in riferimento agli artt. 3
e 24 della Costituzione, dal giudice di pace di Firenze, con
l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Ruperto
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 4 marzo 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola