Sentenza N. 1 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
30/01/2002
Data deposito/pubblicazione
30/01/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/01/2002
Presidente: Cesare RUPERTO;
Giudici: Massimo VARI giudice, Riccardo CHIEPPA, Gustavo
ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido
NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Franco BILE, Giovanni Maria
FLICK;
degli artt. 739, secondo comma, e 136 e del combinato disposto degli
artt. 739, secondo comma, e 741 del codice di procedura civile;
dell’art. 336, secondo e terzo comma, del codice civile; degli artt.
737, 738 e 739 del codice di procedura civile e dell’art. 336 del
codice civile, promossi con ordinanze emesse il 18 dicembre 2000
dalla Corte di appello di Torino, sezione per i minorenni, sul
reclamo proposto da M. D., iscritta al n. 163 del registro ordinanze
2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11 –
1a serie speciale – dell’anno 2001 e il 20 dicembre 2000 dalla Corte
di appello di Genova, sezione per i minorenni, sul reclamo proposto
da C. G., iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2001 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14 – 1ª serie speciale –
dell’anno 2001;
Visto l’atto di costituzione di C. G;
Udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2001 il giudice
relatore Franco Bile;
pronunciata il 18 dicembre 2000 e pervenuta alla Corte il 19 febbraio
2001, la Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni – nel
corso del procedimento di reclamo introdotto dalla madre di un minore
avverso il decreto con cui il tribunale per i minorenni di Torino
aveva dichiarato, ai sensi degli artt. 330, 333 e 336 del codice
civile, la decadenza del padre dalla potestà parentale, e disposto,
previo allontanamento dalla madre affidataria ex art. 317-bis del
codice civile, l’affidamento familiare del minore a cura del servizio
sociale – ha sollevato una serie di questioni di legittimità
costituzionale nei termini di seguito indicati.
Il rimettente riferisce che il tribunale per i minorenni aveva
nel contempo, su richiesta del P.M., aperto un procedimento per la
declaratoria della decadenza del padre dalla potestà genitoriale, e
che il giudice delegato aveva convocato il solo padre del minore e
non anche la madre, ed acquisito informazioni dai servizi sociali ed
il parere del P.M., ed aveva poi emesso il decreto reclamato,
comunicato per esteso al P.M. ed al giudice tutelare, notificato per
esteso al servizio sociale e notificato nel solo dispositivo alla
madre.
Con il reclamo la madre ha chiesto la dichiarazione di
inefficacia o inesistenza del decreto comunicatole senza motivazione,
la sospensione dell’applicazione del provvedimento, la dichiarazione
di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 133, 136 e 739 del codice di procedura
civile in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 24 e 111 della
Costituzione, nella parte in cui prevederebbero che i provvedimenti
pronunciati in camera di consiglio dal tribunale per i minorenni e
reclamabili nel termine perentorio di dieci giorni siano comunicati
alle parti private limitatamente al dispositivo e non per esteso, ed
in ogni caso la riforma del provvedimento.
2. – La Corte rimettente ritiene fra l’altro che la previsione
del secondo comma dell’art. 739 cod. proc. civ. (secondo cui il
provvedimento emesso in camera di consiglio è comunicato se dato in
confronto di una sola parte, o notificato se dato in confronto di
più parti) deve essere coordinata con il rilievo che i procedimenti
relativi alla potestà genitoriale sono considerati dalla dottrina
“bilaterali o plurilaterali” onde il provvedimento che li conclude
dovrebbe essere interamente notificato alle parti ed al P.M. ex art.
137 cod. proc. civ. Tuttavia i tribunali per i minorenni ed anche
quello di Torino “comunicano non l’intero decreto ma solo il suo
dispositivo, a mente dell’art. 136 cod. proc. civ., consegnando il
biglietto di cancelleria al destinatario o disponendone la notifica
da parte dell’ufficiale giudiziario, e dalla data di questa
comunicazione del dispositivo fanno decorrere il termine perentorio
di dieci giorni decorso il quale, in assenza di reclamo, il decreto
acquista efficacia ex art. 741, comma 1, cod. proc. civ.”.
Questa interpretazione – che la rimettente considera “diritto
vivente” – contrasterebbe:
a) con l’art. 3, primo comma, Cost.: a1) in quanto non
rispetterebbe “il principio di ragionevolezza” perché, mentre con
riferimento alla sentenza la comunicazione del solo dispositivo
avrebbe una sua ragione, in quanto servirebbe soltanto a mettere le
parti nella condizione di poter notificare la sentenza al fine della
decorrenza del termine breve di trenta giorni per l’impugnazione, nel
caso dei provvedimenti in discorso la comunicazione farebbe decorrere
essa stessa il termine di dieci giorni per il reclamo onde sarebbe
necessario conoscere il provvedimento nella sua interezza; a2) in
quanto realizzerebbe – arbitrariamente e senza una razionale
giustificazione – un trattamento differenziato rispetto alla
disciplina della notificazione d’ufficio integrale del decreto o
della sentenza di adottabilità, ex artt. 15, terzo comma, 16,
secondo comma, e 17, terzo comma, della legge n. 184 del 1983;
b) con l’art. 97, primo comma, Cost., perché risulterebbe
leso il principio del buon andamento dell’amministrazione;
c) con l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto il termine
di dieci giorni per il reclamo, per la sua brevità, pur congruo a
consentire all’interessato l’attività di impugnazione, sarebbe
invece insufficiente, tenuto conto che l’interessato non potrebbe
utilizzarlo integralmente, dovendosi rivolgere alla cancelleria per
ottenere la copia del provvedimento: l’insufficienza sarebbe
particolarmente evidente nel caso in cui l’interessato dimori in una
regione diversa da quella della sede dell’ufficio giudiziario o
all’estero;
d) con l’art. 111, secondo comma, Cost., per la violazione
del principio della parità delle parti, derivante dal fatto che il
P.M. riceverebbe comunicazione integrale del provvedimento e, quindi,
potrebbe esercitare il diritto di impugnazione conoscendone il
contenuto per l’intera durata del termine di reclamo, mentre la parte
privata avrebbe conoscenza di quel contenuto solo dal momento in cui
ne ottenga copia dalla cancelleria;
e) con l’art. 111, sesto comma, Cost., in quanto la
motivazione non costituirebbe un fatto interno e dovrebbe essere
portata a conoscenza delle parti subito, mentre la conoscenza del
solo dispositivo si giustificherebbe esclusivamente ove sia previsto
– come per le sentenze – un meccanismo successivo di notifiche a cura
della parte più diligente.
f) ed infine con l’art. 2 Cost.: questo parametro viene,
peraltro, evocato solo in dispositivo.
2.1. – Sulla base di tali motivazioni la rimettente solleva la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 739, secondo
comma, cod. proc. civ., “in relazione all’art. 136 cod. proc. civ.,
nella parte in cui nel diritto vivente tali norme prevedono” “la
comunicazione del decreto assunto dal tribunale per i minorenni nei
procedimenti camerali ablativi o modificativi della potestà
genitoriale con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria,
anziché la notificazione mediante consegna al destinatario di copia
per esteso conforme all’originale del decreto nelle forme dell’art.
137 del codice di procedura civile”.
La medesima questione viene prospettata anche con riferimento “al
combinato disposto degli artt. 739, comma 2, e 741 cod. proc. civ.,
nella parte in cui dispongono che nei procedimenti camerali del
tribunale per i minorenni ablativi e modificativi della potestà
genitoriale il termine di dieci giorni per proporre reclamo e il
termine di efficacia del decreto decorrano dalla comunicazione del
decreto con la forma abbreviata del biglietto di cancelleria,
anziché della notificazione mediante consegna al destinatario di
copia per esteso conforme all’originale del decreto nelle forme
dell’art. 137 cod. proc. civ.”.
Quanto alla rilevanza della questione, la rimettente osserva che
la reclamante, avendo ricevuto soltanto la comunicazione del
dispositivo del provvedimento e non avendo potuto apprendere da tale
comunicazione le ragioni del medesimo, non avrebbe potuto preparare
nel brevissimo termine di dieci giorni previsto per il reclamo un
ricorso che tenesse conto dei motivi per i quali il figlio veniva da
lei allontanato e si sarebbe limitata a proporre la questione di
costituzionalità, senza poter sviluppare le difese di merito. Dopo
di che osserva di avere autorizzato “in passato” in situazioni
simili, il rilascio alla parte reclamante di copia integrale del
decreto reclamato, e concesso alla stessa un termine per completare
con memoria le proprie difese. Ma alla rimettente “pare però giusto
che, attesa la rilevanza della questione e la frequenza con cui viene
proposta dai difensori con i motivi di impugnazione, sia la Corte
costituzionale a valutare se le attuate modalità di comunicazione
del solo dispositivo del decreto negli accennati procedimenti siano
addirittura costituzionalmente illegittime”.
3. – La rimettente, inoltre, solleva d’ufficio una serie di altre
questioni, che investono il secondo e il terzo comma dell’art. 336
cod. civ.
La prima questione investe l’art. 336, secondo comma, nella parte
in cui non prevederebbe che nei procedimenti camerali ablativi o
modificativi della potestà genitoriale sia sentito anche il genitore
contro cui il provvedimento non è richiesto. Ad avviso della
rimettente, questa mancata previsione aveva un significato
anteriormente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, quando
un solo genitore (di norma il padre) era titolare della potestà, ma
non si giustificherebbe più in un regime di potestà congiunta e
paritaria, in cui alla decadenza o alla limitazione della potestà di
un genitore corrisponde una maggiore pienezza della potestà
dell’altro genitore.
La limitazione dell’audizione ad un solo genitore, violerebbe:
a) l’art. 3, primo comma, Cost., per lesione del principio di
eguaglianza fra i genitori, e per irragionevolezza della diversità
rispetto alla disciplina di cui all’art. 10, quinto comma, della
legge 4 maggio 1983, n. 184, che, per i procedimenti limitativi o
sospensivi della potestà nel corso del procedimento di
adottabilità, impone l’audizione preventiva di entrambi i genitori
e, se c’è, del tutore;
b) l’art. 24, secondo comma, Cost., per lesione del “diritto
di autodifesa, con facoltà di farsi assistere da un difensore, del
genitore non sentito e, quindi, neppure informato della procedura”;
c) l’art. 30, primo comma, Cost., per l’esclusione di un
genitore dalla possibilità di intervenire in un procedimento
relativo ai doveri e diritti dell’altro genitore di mantenere,
istruire ed educare i figli;
d) l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., per l’esclusione
di “un contraddittorio tra le parti, i due genitori in proprio e
quali legali rappresentanti del figlio, in condizioni di parità,
davanti ad un giudice terzo ed imparziale”;
e) l’art. 18, comma 1, della Convenzione sui diritti del
fanciullo stipulata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata e
resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176
(Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo,
fatta a New York il 20 novembre 1989), che impegna lo Stato al
riconoscimento nella propria legislazione del principio per cui
entrambi i genitori hanno una comune responsabilità per l’educazione
del fanciullo e per provvedere al suo sviluppo, e comporta che
entrambi debbano essere sentiti nel procedimento limitativo della
potestà di uno di essi.
La questione così prospettata sarebbe rilevante, in quanto la
madre non sarebbe stata informata e convocata, né in proprio né
quale legale rappresentante del figlio, esercente la potestà ex art.
317-bis cod. civ., pur avendo richiesto di essere sentita, ed
altresì in quanto il suo reclamo contro il provvedimento nella sua
interezza comprenderebbe la disposizione di decadenza dell’altro
coniuge dalla potestà, che, dunque, apparterrebbe al thema
decidendum.
4. – Altra questione viene poi proposta – sempre con riguardo
all’art. 336, secondo comma, cod. civ. – con riferimento alla mancata
previsione (nei procedimenti camerali ablativi o limitativi della
potestà genitoriale) dell’audizione del figlio minore, direttamente
da parte del giudice se “già grandicello” e tramite un
rappresentante se si tratti di un “bambino più piccolo”.
Tale mancata previsione violerebbe:
a) “il principio di protezione della gioventù contenuto
negli artt. 2 e 31” secondo comma, Cost., di cui sarebbe espressione
l’ascolto del minore previsto dall’art. 12, comma 2, della già
citata Convenzione sui diritti del fanciullo, che dispone appunto
l’ascolto del minore in ogni procedura giudiziaria e amministrativa;
b) “il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, commi 1
e 2, Cost.” per la disparità di trattamento rispetto alla procedura
di adottabilità, per la quale l’art. 10, secondo e quarto comma,
della legge n. 184 del 1983 prevede che ogni provvedimento temporaneo
nell’interesse del minore, salvo il caso di urgente necessità, debba
essere preceduto dall’audizione, da parte del tribunale per i
minorenni, del minore che ha compiuto dodici anni e, se ritenuto
opportuno, del minore di età inferiore. La disparità di trattamento
emergerebbe perché per l’adozione di provvedimenti con lo stesso
contenuto (prescrizioni, allontanamento, rimozione dalla potesta) non
sarebbe prevista l’audizione del minore in ogni caso;
c) l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., “non essendovi
un giusto processo” laddove il minore non venga sentito, direttamente
se abbia un’età appropriata, come quella di dodici anni stabilita
dall’art. 10, quarto comma, cit. della legge n. 184 del 1983, ed
altrimenti tramite un rappresentante, in modo da attuare un
contraddittorio sostanziale, e ciò indipendentemente dal fatto che
egli non possa essere ritenuto “parte formale”.
5. – La rimettente prospetta poi la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., in
riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 24, secondo comma, 30,
primo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui
non prevederebbe “a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i
genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano
sentiti” in quanto se il principio del contraddittorio ex art. 111
vale anche per i procedimenti camerali ablativi o limitativi della
potestà, il solo modo per assicurarne l’attuazione sarebbe questa
previsione di nullità per il caso di inosservanza.
6. – La rimettente solleva poi tre ulteriori questioni di
legittimità costituzionale, che investono la disciplina prevista
dall’art. 336, terzo comma, cod. civ., per i provvedimenti ablativi o
modificativi della potestà genitoriale in situazione di “urgente
necessità”.
La rimettente afferma, in primo luogo, che il provvedimento
reclamato è stato adottato con implicita valutazione di sussistenza
di un caso di urgente necessità (peraltro inesistente, in quanto il
procedimento sarebbe durato vari mesi e vi sarebbe stato ritardo
nella deliberazione e nel deposito del provvedimento), senza che
fossero sentiti i genitori, senza che ne fosse stabilita la durata
(essendosi riservato ad un seguito non precisato la valutazione della
durata dell’affidamento familiare) e fissandosi la convocazione della
sola madre a distanza di quasi cinque mesi.
In secondo luogo, rileva che non può dubitarsi
dell’ammissibilità di provvedimenti cautelari temporanei a tutela
del minore, “purché prevedano e non procrastinino nel tempo la
successiva possibilità di contraddittorio e di difesa”.
Su queste premesse fonda la motivazione delle tre questioni di
costituzionalità.
6.1. – La prima questione viene prospettata denunciandosi l’art.
336, terzo comma, nella parte in cui non prevederebbe a pena di
nullità che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente
necessità nell’interesse del minore, senza l’audizione dei genitori
e del minore che abbia compiuto gli anni dodici, debba avere una
durata massima stabilita dalla legge. Sottolinea la Corte torinese
come la prassi applicativa consentita dalla norma, incline ad
ammettere provvedimenti temporanei a durata illimitata (come sarebbe
accaduto nella fattispecie) o notevolmente lunga (per esempio un
allontanamento urgente disposto per il periodo di quattro anni), si
risolve nella sostanziale vanificazione del principio di
temporaneità.
Secondo la rimettente tale norma violerebbe:
a) l’art. 3, primo comma, Cost., per disparità di
trattamento – lesiva del principio di uguaglianza – rispetto
all’ipotesi, prevista dal terzo comma dell’art. 10 della legge n. 184
del 1983, di assunzione di provvedimenti temporanei di limitazione o
sospensione della potestà in caso di urgente necessità nel corso
del procedimento di adottabilità, in relazione alla quale la
temporaneità sarebbe implicitamente stabilita attraverso la
previsione che entro un mese debba intervenire il decreto di
conferma, modifica o revoca. La disparità emergerebbe per il fatto
che si trattano diversamente provvedimenti urgenti assunti in
situazioni simili per il sol fatto dell’assunzione in procedure
diverse ed il modello di cui alla procedura di adottabilità potrebbe
costituire “un riferimento” per conchiudere la temporaneità del
provvedimento ex art. 336, terzo comma, cod. civ., in un periodo non
superiore ad un mese, così specificandosi il petitum inerente la
questione in discorso;
b) l’art. 24, secondo comma, Cost., nonché l’art. 111, primo
e secondo comma, Cost., in quanto un provvedimento di urgenza con
temporaneità illimitata o di lunga durata finirebbe per vanificare
il diritto di difesa ed il contraddittorio nella successiva fase
processuale “perché – tenuto conto che la gestione dei tempi in un
processo profondamente inquisitorio come quello di volontaria
giurisdizione appartiene all’esclusiva disponibilità del giudice –
procrastina la necessità di un altro provvedimento di conferma,
modifica o revoca, determinando un consolidamento nel tempo della
situazione”.
La questione sarebbe rilevante in quanto, nell’ipotesi di
accoglimento, il provvedimento reclamato dovrebbe essere modificato,
con la fissazione del momento finale dell’affidamento eterofamiliare.
6.2. – La seconda questione è prospettata con riferimento alla
mancata previsione da parte dell’art. 336, terzo comma, che il
tribunale dei minorenni, dopo avere adottato il provvedimento in caso
di urgente necessità, senza audizione dei genitori e del minore che
abbia compiuto gli anni dodici, debba a pena di decadenza entro
trenta giorni, sentiti il pubblico ministero, i genitori, il tutore,
il rappresentante dell’istituto di ricovero del minore e lo stesso
minore ultradodicenne, confermare, modificare o revocare il
provvedimento temporaneo assunto. La mancata previsione della
promozione di un procedimento camerale in contraddittorio in funzione
dell’adozione di “un provvedimento definitivo di conferma, modifica o
revoca” avrebbe determinato una prassi diffusa per cui i
provvedimenti urgenti di breve durata perderebbero efficacia
automaticamente alla scadenza “senza che intervenga una conferma (o
con dichiarazione di non luogo a provvedere perché la situazione si
è esaurita)” mentre quelli di lunga durata verrebbero frattanto
sostituiti da altri in relazione all’evoluzione del caso, senza che
“si realizzi il diritto delle parti ad essere ascoltate e a
partecipare attivamente al procedimento con riferimento alla conferma
o modifica del provvedimento di urgenza”.
La rimettente prospetta un contrasto:
a) con l’art. 3, primo comma, Cost., per irragionevole
differenziazione di trattamento rispetto ancora una volta alla
disciplina del procedimento di adottabilità, e precisamente rispetto
all’art. 10, quarto e quinto comma, della legge n. 184 del 1983;
b) con gli artt. 24, secondo comma, e 111, primo e secondo
comma, Cost., per lesione del diritto alla difesa e al
contraddittorio.
La questione sarebbe rilevante perché alla data dell’ordinanza
di rimessione il tribunale per i minorenni non avrebbe confermato,
modificato o revocato il provvedimento reclamato.
6.3. – La terza questione relativa all’art. 336, terzo comma, è
prospettata con riferimento alla mancata previsione che il
provvedimento temporaneo emanato in mancanza dell’effettiva
ricorrenza del caso di urgente necessità sia affetto da nullità
rilevabile d’ufficio. Tale mancata previsione, in quanto
consentirebbe che il tribunale per i minorenni adotti il
provvedimento temporaneo senza sentire i genitori ed il minorenne
ultradodicenne, anche in difetto di urgente necessità, sarebbe
lesiva:
a) dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto
consentirebbe il sacrificio del diritto di difesa dei soggetti che
dovevano essere sentiti;
b) dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost., in quanto
sacrificherebbe il loro diritto al giusto processo;
c) del diritto di ascolto del minore, garantito dall’art. 9,
comma 2, della già citata Convenzione sui diritti del fanciullo.
La questione sarebbe rilevante in quanto il provvedimento
reclamato sarebbe stato adottato in mancanza di urgente necessità,
desumibile dal notevole lasso di tempo impiegato per l’assunzione
delle informazioni e dal lungo periodo decorso fra la deliberazione
ed il deposito del provvedimento reclamato.
7. – Con l’ordinanza iscritta al n. di ruolo 240, pronunciata il
20 dicembre 2000 e pervenuta alla Corte il 12 marzo 2001, la Corte
d’appello di Genova, sezione per i minorenni – nel corso del
procedimento di reclamo proposto dalla madre di un minore contro il
provvedimento con cui il tribunale per i minorenni di Genova aveva
respinto la sua richiesta di affidamento del minore, confermando
invece l’affidamento al padre – ha sollevato questione di
legittimità costituzionale “degli art. 737, 738, 739 cod. proc. civ.
e 336 cod. civ.” nella parte in cui prevedono l’applicabilità del
rito camerale, “in caso di conflitto tra genitori non uniti in
matrimonio sull’affidamento dei figli o più in generale nei
procedimenti di limitazione o ablazione della potestà dei genitori”
ravvisando in tale previsione un contrasto con l’art. 111 Cost., per
non essere ispirati i relativi procedimenti al principio del giusto
processo.
Circa l’oggetto del giudizio a quo la rimettente riferisce che,
avendo il tribunale fondato la sua decisione sulla relazione del
servizio sociale, nella quale si precisava che, a differenza di
quanto aveva affermato la madre, il minore si trovava bene con il
padre, era ben inserito a scuola ed era curato e pulito, la
reclamante, oltre a sostenere l’infondatezza del provvedimento, nel
chiederne la riforma ha eccepito l’incostituzionalità degli artt. da
333 a 336 cod. civ., adducendo che la relazione non era stata portata
a conoscenza delle parti, “nell’ambito di una procedura che tollera
la presenza del difensore, ma non la reputa necessaria”. Nel
procedimento di reclamo, il padre, nonostante la regolarità della
notifica, non si sarebbe costituito. All’udienza, sulle conclusioni
della reclamante e del Procuratore generale della Repubblica, la
Corte d’appello si è riservata ed a scioglimento della riserva ha
pronunciato l’ordinanza di rimessione.
7.1. – La rimettente, dopo avere rilevato che la procedura
applicabile nel caso di specie è quella di cui all’art. 336 cod.
civ. e che il riferimento in esso contenuto richiama e rende
applicabili le norme degli artt. 737 e ss. cod. proc. civ., e dopo
avere descritto le modalità della procedura ivi disciplinata,
nonché rammentato che lo stesso tipo di procedimento è applicabile
anche nel caso in cui si debba provvedere ai sensi dell’art. 317-bis
cod. civ., osserva preliminarmente che la previsione dell’art. 111
della Costituzione deve considerarsi applicabile anche al
procedimento ex art. 336 cod. civ. (in relazione agli artt. 330 e
333).
7.2. – Nel giudizio a quo verrebbe d’altro canto in
considerazione una contesa fra soggetti che discutono fra loro
sull’affidamento del figlio, nel presupposto di vantare ciascuno una
maggiore idoneità, non diversamente da quanto accade per i genitori
uniti in matrimonio in caso di separazione o di divorzio, in caso di
contrasto sull’affidamento dei figli. Onde, ancora più palese
sarebbe l’esigenza che il giudice appaia terzo ed imparziale.
Viceversa, il giudice minorile si sarebbe trasformato in procuratore
e difensore dei diritti del minore, riducendo drasticamente le
garanzie, assumendo un ruolo di governo di interessi sottratti
all’autonomia privata. Di fronte alla latitudine della norma
sostanziale che individua come regola di giudizio l’apprezzamento
dell’interesse del minore e della sua lesione, “il principio di
legalità [evidentemente inteso come regolamentazione per legge del
procedimento] deve essere reso particolarmente intenso, se si vuole
mantenere il carattere giurisdizionale del procedimento, attraverso
la garanzia del rito”. La rimettente richiama al riguardo la sentenza
della Corte europea per i diritti dell’uomo del 15 luglio 2000
(Scozzari e Giunta/Italia) rimarcando che essa, nell’affermare che il
diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli è un
diritto fondamentale ed ha natura di diritto soggettivo pieno,
destinato, tuttavia, a cedere sul piano sostanziale, di fronte
all’incapacità dei genitori, ha sottolineato l’esigenza che
l’affievolimento avvenga in un procedimento giudiziale che veda
regolati i poteri processuali delle parti e del giudice e consenta
alle parti un controllo pieno sulla legalità degli atti del
procedimento.
7.3. – La rimettente ricorda come la Corte costituzionale abbia
talora giudicato che anche nella procedura camerale ex artt. 737 e
ss. cod. proc. civ. il diritto di difesa potrebbe essere assicurato,
nonostante la lacunosità della disciplina.
Ma a diversa valutazione dovrebbe indurre l’esigenza del giusto
processo regolato dalla legge, nel contraddittorio delle parti, in
condizioni di parità e davanti ad un giudice terzo ed imparziale,
posta dal nuovo art. 111 Cost.: le parti dovrebbero essere titolari
di precise facoltà e poteri processuali e lo svolgimento del
procedimento dovrebbe essere sempre controllabile sulla base di
precise indicazioni normative e non rimesso alla discrezionalità del
giudice, cui le parti non dovrebbero soggiacere.
La procedura ex artt. 737 e ss. cod. proc. civ. e 336 cod. civ. –
in quanto sommaria e semplificata, non regolata dalla legge nelle
forme, nei tempi e nelle modalità di svolgimento, ma affidata al
contrario alla pura discrezionalità del giudice, tanto che gli unici
tratti regolati sono la proposizione “della domanda” con ricorso, la
nomina di un relatore, l’assunzione di informazioni (non
necessariamente nel contraddittorio delle parti), e la decisione con
decreto motivato, reclamabile davanti alla corte d’appello, ma sempre
modificabile e revocabile – sarebbe ben lontana dalla relativa
previsione costituzionale. In sede di pronuncia sull’affidamento dei
figli ai sensi dell’art. 317-bis cod. civ., la discrezionalità del
giudice riguarderebbe anche lo stesso contenuto del provvedimento,
potendo il giudice disporre l’affidamento all’uno o all’altro dei
genitori, ma anche escludere entrambi, nell’interesse del minore,
dalla potestà, nominando un tutore (mentre nel caso di genitori
uniti in matrimonio, l’affidamento ad un terzo richiederebbe gravi
motivi). L’attuazione di un embrionale contraddittorio, le cui forme,
modi e tempi non sono disciplinati dalla legge, avverrebbe con la
mera convocazione dell’interessato e senza necessità di un difensore
tecnico.
D’altro canto, l’assenza di regole poste dalla legge, ma soltanto
dedotte in via di interpretazione adeguatrice all’art. 24 Cost.,
lascerebbe aperta la via a prassi applicative difformi per ogni
giudice o ufficio giudiziario e ciò escluderebbe la possibilità “di
sanzionare con la rimessione al primo giudice la violazione, in primo
grado, di regole di garanzia per la difesa” e “di stabilire con
certezza gli effetti della nullità di singoli atti”.
Poiché a seguito della novellazione dell’art. 111 della
Costituzione il “giusto processo” non può che essere quello
“regolato dalla legge” dovrebbe dubitarsi della legittimità
costituzionale di un modello processuale, nel quale la decisione sui
diritti, in un settore fondamentale dell’ordinamento, è emessa a
seguito di un processo le cui cadenze sono affidate esclusivamente al
giudice “tenuto bensì a garantire i fondamentali diritti delle
parti, ma secondo modalità non predeterminate, e rimesse al suo
apprezzamento”: la previsione di una riserva di legge “in un contesto
tanto delicato e rilevante” implicherebbe “la necessità che sia il
legislatore a disciplinare le regole del procedimento”.
Queste complessive considerazioni vengono ritenute dal rimettente
idonee a giustificare la prospettata questione di costituzionalità.
7.4. – In punto di rilevanza della questione, la rimettente, dopo
avere assunto che a giustificarla potrebbe bastare il fatto che essa
deve applicare la procedura ex artt. 336 cod. civ. e 737 e ss. cod.
proc. civ., ritiene di fornire indicazioni più specifiche con
riferimento al caso concreto e rileva che il primo giudice ha fondato
il suo provvedimento esclusivamente sulla relazione del servizio
sociale, senza che “le parti” fossero informate della richiesta
rivolta all’uopo al servizio sociale e senza che abbiano potuto
prenderne visione e formulare rilievi e contestazioni. Tale
secretazione dei documenti, peraltro, secondo il rimettente non
sarebbe giustificata dalla procedura ex art. 737 e ss. ed avrebbe
“errato sicuramente il [primo] giudice al riguardo” in quanto avrebbe
violato “l’art. 76 disp. att. c.c.” [rectius 76, delle disposizioni
di attuazione del codice di procedura civile], che consentirebbe il
rilascio di copie di tutti gli atti contenuti nel fascicolo.
Tuttavia, in un procedimento regolato nei tempi e nei modi dalla
legge potrebbe essere previsto, “ad esempio” uno scambio di memorie
prima della decisione, che nella specie “avrebbe potuto indirizzare
il primo giudice ad un ripensamento e magari allo svolgimento di
ulteriore attività istruttoria”.
Soggiunge, quindi, la rimettente: “Certo in questo grado, le
parti, e in particolare la reclamante hanno potuto esaminare ogni
documento in atti, ma in tutta la fase precedente non hanno potuto
svolgere la loro difesa. E tuttavia non si potrebbe superare il vizio
di una prima fase in cui non si è compiutamente realizzato il
principio del contraddittorio (anche perché questa Corte non
potrebbe per questo annullare la decisione e rimettere le parti
stesse davanti al primo giudice) e comunque l’ampia discrezionalità
caratterizza pure questo grado”.
Manifesta, quindi, sia la consapevolezza che il procedimento
ordinario, anche dopo la riforma del 1990, non sarebbe idoneo a
regolare controversie come quella al suo esame (ma, a ben vedere,
anche quelle di separazione e di divorzio) e che, de iure condendo il
legislatore potrebbe opportunamente coniugare l’esigenza di regole
precise e predeterminate con quella di agilità e snellezza,
funzionali ad un’efficace tutela del minore, sia la consapevolezza
che l’eventuale accoglimento della questione comporterebbe un vuoto
normativo. Ciononostante, ritiene che non possa non essere rimessa
alla Corte la questione della permanenza di una procedura
contrastante con l’art. 111 novellato.
Genova riguardano entrambi questioni di legittimità costituzionale
di norme sul procedimento camerale, in esito al quale il tribunale
per i minorenni pronunzia provvedimenti ablativi o modificativi della
potestà genitoriale; essi possono pertanto essere riuniti.
2. – La Corte d’appello di Torino propone varie questioni di
legittimità costituzionale, divisibili in tre gruppi.
3. – Al primo gruppo appartiene anzitutto la questione
concernente il combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e
136 del codice di procedura civile, nella parte in cui – secondo un
asserito diritto vivente risultante dall’interpretazione accolta dal
tribunale che ha deciso in primo grado – prevederebbe la
comunicazione del decreto del tribunale con la forma abbreviata del
biglietto di cancelleria, anziché la notificazione mediante consegna
al destinatario di copia conforme all’originale nelle forme dell’art.
137 cod. proc. civ.
Secondo il giudice rimettente, tale normativa viola l’art. 2
della Costituzione (il parametro è indicato solo in dispositivo,
senza alcuna motivazione), l’art. 3, primo comma, della Costituzione
(per irragionevolezza, in quanto dalla comunicazione del solo
dispositivo decorre il termine di dieci giorni per proporre reclamo,
in vista del quale il provvedimento dovrebbe essere conosciuto nella
sua interezza; e per ingiustificata disparità di trattamento
rispetto a situazioni sostanzialmente simili, come la notificazione
integrale del decreto o della sentenza di adottabilità ex artt. 15,
terzo comma, 16, secondo comma, e 17, terzo comma, della legge 4
maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei
minori), l’art. 97, primo comma, della Costituzione (per lesione del
principio del buon andamento dell’amministrazione), l’art. 24,
secondo comma, della Costituzione (essendo il termine di dieci giorni
per il reclamo tanto breve da ledere il diritto di difesa), l’art.
111, secondo comma, della Costituzione (per violazione del principio
della parità delle parti, in quanto al P.M., a differenza che alla
parte privata, il provvedimento è comunicato integralmente), l’art.
111, sesto comma, della Costituzione (in quanto la conoscenza del
solo dispositivo, e non anche della motivazione, si spiega unicamente
ove sia prevista, come per le sentenze, una successiva notifica a
cura della parte più diligente).
Anche la seconda questione del primo gruppo è prospettata – in
riferimento agli stessi parametri – nei confronti del combinato
disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741 cod. proc. civ.,
considerato nella parte in cui prevede che nei procedimenti camerali
in esame il termine di dieci giorni per proporre reclamo decorra
dalla comunicazione del decreto con la forma abbreviata del biglietto
di cancelleria, anziché dalla notificazione nelle forme dell’art.
137 cod. proc. civ.
4. – Le due questioni – delle quali la seconda si pone rispetto
alla prima in rapporto di dipendenza – possono essere esaminate
congiuntamente.
Esse sono inammissibili.
La Corte di appello – pur dichiarando di considerare i
procedimenti ablativi o modificativi della potestà genitoriale come
“bilaterali o plurilaterali” e quindi soggetti all’art. 739, secondo
comma, cod. proc. civ., che per il provvedimento camerale “dato nei
confronti di più parti” prevede la notifica (e non la comunicazione
con biglietto di cancelleria), e pur riconoscendo di avere sovente
applicato tali principi – ritiene di non poter decidere in questo
senso il caso di specie, per il contrario “diritto vivente”
identificato nella prassi seguita dai tribunali per i minorenni ed in
specie da quello che ha pronunciato il provvedimento reclamato.
La rimettente, pertanto, non propone una questione di
legittimità costituzionale, ma un mero dubbio interpretativo; e per
di più rinunzia a ricercare la possibilità di interpretare la norma
impugnata nel senso utile ad evitare quello che, secondo la sua
prospettazione, è il contrasto con la Costituzione, pur mostrando di
conoscere le argomentazioni letterali e sistematiche che tale
interpretazione potrebbero sorreggere.
5. – Il secondo gruppo di questioni prospetta tre profili di
incostituzionalità dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., che
disciplina la forma ordinaria del procedimento ablativo o
modificativo della potestà genitoriale.
La norma è anzitutto impugnata nella parte in cui – disponendo
che “nei casi in cui il provvedimento è chiesto contro il genitore,
questi deve essere sentito” – non prevede che sia sentito anche
l’altro genitore, così violando l’art. 3, primo comma, della
Costituzione (per lesione del principio di eguaglianza fra i genitori
e per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla
disciplina dell’art. 10, quinto comma, della legge n. 184 del 1983,
che, per i procedimenti limitativi o sospensivi della potestà nel
corso del procedimento di adottabilità, prevede l’audizione di
entrambi i genitori e del tutore), l’art. 24, secondo comma, della
Costituzione (per lesione del diritto di difesa del genitore non
sentito, e quindi “neppure informato della procedura”), l’art. 30,
primo comma, della Costituzione (in quanto ad un genitore è preclusa
la possibilità di intervenire nel procedimento relativo ai doveri e
ai diritti dell’altro in tema di mantenimento, istruzione ed
educazione dei figli), l’art. 111, primo e secondo comma, della
Costituzione (perché è escluso il contraddittorio tra genitori in
condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale),
l’art. 18, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo
stipulata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva
in Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176 (Ratifica ed esecuzione
della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20
novembre 1989), che impegna lo Stato a sancire la comune
responsabilità dei genitori per l’educazione e lo sviluppo del
fanciullo, onde entrambi devono essere sentiti nel procedimento
limitativo della potestà di uno di essi.
6. – La questione non è fondata, in quanto muove da un
presupposto interpretativo erroneo.
Il mancato rispetto del contraddittorio nei confronti del
genitore diverso da quello contro cui il provvedimento è richiesto
viene denunciato essenzialmente in relazione al suo diritto a
partecipare al procedimento già instaurato, ma – come emerge
dall’accenno al genitore “non informato” – non manca un riferimento
alla fase dell’instaurazione.
Sotto quest’ultimo aspetto, la prospettazione contraddice la
stessa qualificazione del procedimento in esame come “bilaterale o
plurilaterale” che il rimettente afferma di condividere e che
comporta necessariamente la garanzia del contraddittorio, inteso come
diritto di ciascuna delle parti ad essere tempestivamente informata
del procedimento.
Del resto l’impugnato art. 336, secondo comma – secondo cui il
tribunale provvede in camera di consiglio – va letto alla luce del
principio generale per cui anche il procedimento camerale è ispirato
al rispetto del contraddittorio (sentenza n. 103 del 1985), nei sensi
indicati.
Per quanto poi specificamente concerne il contraddittorio come
diritto di partecipare allo svolgersi del procedimento, ed in
particolare a quella specifica attività istruttoria che è
l’audizione ad opera del giudice, il rimettente – pur richiamandosi
alla Convenzione sui diritti del fanciullo resa esecutiva con legge
n. 176 del 1991, e quindi dotata di efficacia imperativa
nell’ordinamento interno – non considera che l’art. 9, comma 2, di
essa (ai sensi del quale tutte le parti interessate devono avere la
possibilità di partecipare alle deliberazioni e far conoscere le
proprie opinioni) pone una disciplina complementare rispetto alla
previsione della norma impugnata (che prevede solo l’audizione del
genitore contro cui il provvedimento è richiesto), onde dal
coordinamento fra le due norme deriva, allo stato dell’evoluzione
legislativa, che nel procedimento in esame devono essere sentiti
entrambi i genitori.
Della fondatezza di queste conclusioni fornisce recente conferma
l’art. 37, comma 3, della legge 26 aprile 2001, n. 149 (Modifiche
alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e
dell’affidamento dei minori, nonché al titolo VIII del libro primo
del codice civile”), sopravvenuta all’ordinanza di rimessione, anche
se non ancora efficace. La norma ha aggiunto nell’art. 336 cod. civ.
un quarto comma, ai sensi del quale “Per i provvedimenti di cui ai
commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un
difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge”:
ed è evidente come essa presupponga che entrambi i genitori (ed il
minore) siano “parti” del procedimento di cui all’art. 336 cod. civ.,
e in quanto “parti” abbiano diritto di avere notizia del procedimento
e di parteciparvi.
7. – L’art. 336, secondo comma, cod. civ., è poi impugnato per
la mancata previsione che, nei procedimenti camerali in esame, siano
sentiti il minore ultradodicenne e, se opportuno, anche quello di
età inferiore, o altrimenti i suoi genitori o il tutore.
Ne risulterebbero violati gli artt. 2 e 31, secondo comma, della
Costituzione (di cui è espressione l’art. 12, comma 2, della citata
Convenzione, sull’ascolto del minore in ogni procedura giudiziaria e
amministrativa), gli artt. 3, primo e secondo comma, della
Costituzione (sotto il profilo sia dell’irragionevolezza, sia della
disparità di trattamento rispetto alla procedura di adottabilità,
per la quale l’art. 10, secondo e quarto comma, della legge n. 184
del 1983 dispone che il tribunale per i minorenni, prima di assumere
provvedimenti temporanei nell’interesse del minore, deve, salvo il
caso di urgente necessità, sentire il minore dodicenne e, se
opportuno, quello di età inferiore), e l’art. 111, primo e secondo
comma, della Costituzione (“non essendovi un giusto processo” se il
minore non venga sentito, direttamente o tramite un rappresentante).
8. – La questione non è fondata, in quanto muove ancora una
volta da una premessa interpretativa erronea.
L’art. 12 della citata Convenzione – disposto al comma 1 che il
fanciullo capace di discernimento ha diritto di esprimere liberamente
la sua opinione su ogni questione che lo interessa – soggiunge al
comma 2 che “A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la
possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o
amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un
rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le
regole di procedura della legislazione nazionale”.
Tale prescrizione, ormai entrata nell’ordinamento, è idonea ad
integrare – ove necessario – la disciplina dell’art. 336, secondo
comma, cod. civ., nel senso di configurare il minore come parte del
procedimento, con la necessità del contraddittorio nei suoi
confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi
dell’art. 78 cod. proc. civ. (cfr. ordinanza n. 528 del 2000).
Ed è ancora una volta rilevante il richiamo alla recente legge
n. 149 del 2001, dalla quale – come già notato al n. 7 – chiaramente
si evince l’attribuzione al minore (nonché ai genitori) della
qualità di parte, con tutte le conseguenti implicazioni.
9. – Infine l’art. 336, secondo comma, cod. civ. è impugnato in
quanto non prevede “a pena di nullità rilevabile d’ufficio che i
genitori e il minore che abbia compiuto gli anni dodici siano
sentiti”.
Tale mancata previsione violerebbe gli artt. 2, 3, secondo comma,
24, secondo comma, 30, primo comma e 111, primo e secondo comma,
Cost., poiché il principio del contraddittorio ex art. 111 della
Costituzione vale anche per i procedimenti camerali ablativi o
limitativi della potestà e la sua inosservanza impone la previsione
di nullità.
La questione, in quanto dipendente dalle precedenti, resta
assorbita, pur dovendosi rilevare che compete al rimettente
stabilire, applicando le norme generali sulle nullità processuali
civili, quali conseguenze esplichi sul provvedimento reclamato
l’inosservanza dell’art. 336, secondo comma, interpretato nel senso
sopra precisato.
10. – Il terzo gruppo di questioni proposte dalla Corte d’appello
di Torino concerne – sotto tre distinti profili – l’art. 336, terzo
comma, cod. civ., secondo cui “In caso di urgente necessità il
tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei
nell’interesse del figlio”.
11. – La norma è anzitutto impugnata per la parte in cui non
prevede che il provvedimento temporaneo assunto in caso di urgente
necessità nell’interesse del minore (senza l’audizione dei genitori
e del minore che abbia compiuto dodici anni) abbia, a pena di
nullità, una durata massima, individuabile in trenta giorni.
Secondo il giudice rimettente, questa mancata previsione viola
l’art. 3, primo comma, della Costituzione (per ingiustificata
disparità di trattamento rispetto ai provvedimenti urgenti di
limitazione o sospensione della potestà nel corso del procedimento
di adottabilità, che l’art. 10, terzo comma, della legge n. 184 del
1983 considera implicitamente temporanei, prevedendo l’intervento
entro un mese del decreto di conferma, modifica o revoca), e gli
artt. 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della
Costituzione (perché un provvedimento urgente di durata illimitata
vanifica il diritto di difesa ed il contraddittorio nella fase
processuale successiva).
In secondo luogo, la norma è impugnata in quanto non prevede che
il tribunale per i minorenni, dopo avere provveduto in via di urgenza
senza sentire genitori e minore ultradodicenne, debba entro trenta
giorni, a pena di decadenza, provvedere in contraddittorio per
confermare, modificare o revocare il provvedimento.
Ad avviso della Corte rimettente, tale mancata previsione viola
l’art. 3, primo comma, della Costituzione (per irragionevole
disparità di trattamento rispetto alla disciplina del procedimento
di adottabilità di cui al citato art. 10 della legge n. 184 del
1983), e gli artt. 24, secondo comma, e 111, primo e secondo comma,
della Costituzione (per lesione dei diritti di difesa e del
contraddittorio).
12. – Le due questioni sono inammissibili.
Il giudice a quo – pur dubitando che la disciplina del
procedimento urgente in materia di potestà genitoriale, di cui al
terzo comma dell’art. 336 cod. civ., sia conforme ai parametri
evocati – non ha valutato la possibilità di dare della norma
impugnata un’interpretazione idonea a porla al riparo dai dubbi di
legittimità costituzionale sottoposti al giudizio di questa Corte.
In particolare, non ha verificato se – come pure si è sostenuto in
giurisprudenza e in dottrina – il procedimento in esame, attesa la
sua natura cautelare rispetto a quello ordinario di cui al secondo
comma del medesimo art. 336 cod. civ., non possa ritenersi
assoggettato alla disciplina del procedimento cautelare uniforme
dettata dagli artt. 669-bis e ss. cod. proc. civ. (applicabile, in
quanto compatibile, a tutti i provvedimenti cautelari previsti dal
codice civile: art. 669-quaterdecies), con la conseguenza che anche
il provvedimento urgente previsto dalla norma impugnata dovrebbe
ritenersi regolato dal secondo e dal terzo comma dell’art.
669-sexies.
Il silenzio sul punto dà luogo ad un difetto di motivazione
dell’ordinanza.
13. – Sotto un terzo profilo l’art. 336, terzo comma, cod. civ.
è impugnato in quanto – non prevedendo la nullità rilevabile
d’ufficio del provvedimento temporaneo emanato in difetto del
presupposto dell’urgente necessità – consentirebbe al tribunale per
i minorenni di adottare provvedimenti temporanei senza sentire i
genitori ed il minorenne ultradodicenne, così violando l’art. 24,
secondo comma, della Costituzione (per il sacrificio del diritto di
difesa dei soggetti che dovevano essere sentiti), l’art. 111, primo e
secondo comma, della Costituzione (per la lesione del diritto di
questi soggetti al giusto processo), e infine il diritto di ascolto
del minore, garantito dall’art. 9, comma 2, della citata Convenzione
sui diritti del fanciullo.
14. – La questione – indipendentemente dalle implicazioni
desumibili dai rilievi di cui al n. 12 – è inammissibile, non
ponendo un problema di legittimità costituzionale, ma di mera
interpretazione.
Infatti – poiché l’art. 336, terzo comma, cod. civ. prevede la
possibilità di adottare provvedimenti temporanei solo in caso di
“urgente necessità” – la questione se il difetto di tale requisito
comporti o meno nullità attiene all’interpretazione della norma
impugnata, alla luce dell’art. 156 cod. proc. civ., che spetta al
giudice a quo.
15. – La Corte di appello di Genova impugna gli artt. 737, 738 e
739 cod. proc. civ., e l’art. 336 cod. civ., in quanto rendono
applicabile il rito camerale ai procedimenti aventi ad oggetto
l’affidamento dei minori nel caso di conflitto fra genitori non uniti
in matrimonio e, più in generale, ai procedimenti limitativi od
ablativi della potestà genitoriale.
Il giudice rimettente – premesso che tali procedimenti mirano
alla risoluzione di conflitti fra genitori esercenti la potestà e
quindi incidono sulle loro posizioni soggettive, aventi rango di veri
e propri diritti, meritevoli di tutela al pari di quelli del minore –
ritiene che l’applicabilità del rito camerale violi l’art. 111
Cost., in relazione al principio per cui il “giusto processo” deve
essere regolato dalla legge, per l’assenza in quel rito di una
precisa e puntuale disciplina dei poteri del giudice e delle parti,
cui non potrebbe ovviare un’interpretazione adeguatrice ex art. 24
Cost., che lascerebbe aperta la via a prassi applicative difformi per
ogni ufficio giudiziario, onde il giudice del reclamo non potrebbe
né sanzionare con la rimessione al primo giudice la violazione in
primo grado “di regole di garanzia per la difesa” né “stabilire con
certezza gli effetti della nullità di singoli atti”.
16. – La questione è inammissibile.
Il giudice rimettente – il quale afferma esplicitamente che la
normativa impugnata non è suscettibile di essere interpretata in
senso conforme a Costituzione – non motiva adeguatamente le ragioni
di tale suo convincimento.
Quanto alle eventuali prassi distorsive, esse si risolverebbero
in errori cui rimedierebbe in sede di reclamo il controllo dei
provvedimenti emessi in prima istanza (come del resto fa la stessa
ordinanza per la prassi della secretazione delle relazioni dei
servizi sociali, riguardo alla quale esplicitamente individua la
norma che la vieta).
D’altro canto, la tesi dell’impossibilità, per il giudice del
reclamo, di sanzionare con la rimessione del procedimento al primo
giudice la violazione di regole poste a garanzia del diritto di
difesa verificatesi in primo grado, non considera che,
nell’ordinamento processuale civile, la rimessione al primo giudice
è fenomeno limitato ai casi previsti dagli artt. 353 e 354 cod.
proc. civ., onde corrisponde ai principi che il giudice del reclamo,
constatata una violazione in prima istanza delle regole del
contraddittorio o del diritto di difesa non riconducibile ai casi di
rimessione espressamente previsti, adotti una nuova decisione
rispettosa di quelle regole.
Infine, la tesi dell’impossibilità per il giudice del reclamo di
stabilire con certezza la nullità di singoli atti postula un sistema
di nullità degli atti del processo civile necessariamente correlato
a specifiche previsioni normative, e perciò diverso da quello in
vigore, così come risulta dal secondo e terzo comma dell’art. 156
cod. proc. civ.
Dalla rilevata insufficienza di motivazione discende
l’inammissibilità della questione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi,
Dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma,
e 136 e del combinato disposto degli artt. 739, secondo comma, e 741
del codice di procedura civile, sollevate dalla Corte d’appello di
Torino, sezione per i minori, in riferimento agli artt. 2, 3, primo
comma, 24, secondo comma, 97, primo comma, e 111, secondo e sesto
comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
Dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 336, secondo comma, del codice civile,
sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni,
in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, secondo
comma, 30, primo comma, 31, secondo comma, e 111, primo e secondo
comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
Dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 336, terzo comma, del codice civile,
sollevate dalla Corte d’appello di Torino, sezione per i minorenni,
in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 111,
primo e secondo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata
in epigrafe;
Dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 737, 738 e 739 del codice di procedura
civile e 336 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di
Genova, sezione per i minorenni, in riferimento all’art. 111 della
Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Bile
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 30 gennaio 2002.
Il direttore della cancelleria: Di Paola