Sentenza N. 10 del 1993
Corte Costituzionale
Data generale
19/01/1993
Data deposito/pubblicazione
19/01/1993
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/01/1993
Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;
Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,
prof. Cesare MIRABELLI;
comma, 456, secondo comma, e 458, primo comma, del codice di
procedura penale, promosso con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 2 marzo 1992 dal Pretore di Torino,
sezione distaccata di Moncalieri, nel procedimento penale a carico di
Mujanovic Kasim, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 1992 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima
serie speciale, dell’anno 1992;
2) ordinanza emessa il 27 febbraio 1992 dal Tribunale di Milano
nel procedimento penale a carico di Hakimi Noureddin, iscritta al n.
233 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 1992;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella Camera di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice
relatore Antonio Baldassarre;
condotto in udienza in stato di detenzione, dichiarava, avvalendosi
dell’assistenza dell’interprete nominatogli durante gli atti
introduttivi del dibattimento, di non conoscere la lingua italiana e,
pertanto, di ignorare il contenuto dell’imputazione contestatagli
mediante notifica in carcere del decreto di citazione. Di fronte a
questa circostanza, la quale risultava dagli atti di causa per esser
stata rilevata al momento della convalida dell’arresto, il Pretore di
Torino, sezione distaccata di Moncalieri, con la prima delle due
ordinanze riportate in epigrafe, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 24, secondo comma, e 76 della Costituzione, nei confronti
dell’art. 555, terzo comma, c.p.p., nella parte in cui tale norma non
prevede che il decreto di citazione a giudizio debba essere
notificato all’imputato straniero, che non conosce la lingua
italiana, accompagnato da una traduzione nella lingua a lui nota.
Con riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, la
norma impugnata è ritenuta di dubbia costituzionalità dal Pretore
rimettente, in quanto essa determinerebbe una ingiustificata
disparità di trattamento fra l’imputato straniero che ignora la
lingua italiana e gli imputati che non versano in tale particolare
condizione. Lo straniero, infatti, vedrebbe leso il suo diritto a
conoscere il contenuto del decreto di citazione, in tutti i suoi
elementi costitutivi, sin dal momento della notifica, con la
conseguente vanificazione, nei suoi riguardi, dello scopo tipico
della notificazione del decreto di citazione, irrimediabilmente
pregiudicato anche quando, come nel caso di specie, il decreto di
citazione venga tradotto all’imputato dall’interprete nominatogli in
udienza.
A quest’ultima osservazione si collega la censura mossa all’art.
555, terzo comma, c.p.p., anche in riferimento al parametro
rappresentato dell’art. 24, secondo comma, della Costituzione.
Infatti, in conseguenza della suesposta ingiustificata
discriminazione in ordine alla concreta realizzazione dell’effetto
funzionale della notifica del decreto di citazione, l’imputato
straniero che non conosce la lingua italiana non sarebbe posto in
condizione di apprestare adeguatamente la propria difesa, sia in
ordine al contenuto dell’accusa che gli viene mossa, sia in ordine
alle facoltà processuali che gli sono riconosciute (da quelle, più
elementari, derivanti dalla conoscenza del tempo e del luogo della
celebrazione del giudizio a suo carico, a quelle, di più complessa
azionabilità, come la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato
ed essere ammesso allo sconto di pena previsto da quel particolare
rito).
Infine, il Pretore di Torino assume la violazione dell’art. 76
della Costituzione, argomentando che la norma impugnata non
rispetterebbe la direttiva espressa dall’art. 2, prima parte, della
legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della
Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale),
che prescrive il rispetto delle norme e delle convenzioni
internazionali ratificate dall’Italia relative ai diritti della
persona e al processo penale.
In particolare, il giudice a quo richiama, innanzitutto, l’art. 6,
terzo comma, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata
dall’Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, il quale stabilisce
che “ogni accusato ha diritto (..) a essere informato (..) in una
lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato della natura e dei
motivi dell’accusa elevata a suo carico”. In secondo luogo, richiama
l’art. 14, terzo comma, lett. a), del Patto internazionale relativo
ai diritti civili e politici, ratificato con legge 25 ottobre 1977,
n. 881, il quale stabilisce che “ogni individuo accusato di un reato
ha il diritto ( ..) ad essere informato sollecitamente e in modo
circostanziato in una lingua a lui comprensibile della natura e dei
motivi dell’accusa a lui rivolta”. Secondo il giudice rimettente,
tali principi non possono dirsi attuati da una norma, come quella
dell’art. 555, terzo comma, c.p.p., la quale non prevede che il
decreto di citazione venga notificato all’imputato straniero, che non
conosce la lingua italiana, tradotto in una lingua a lui nota.
2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri per chiedere una pronuncia di infondatezza della questione
di legittimità costituzionale in oggetto.
In via di premessa, l’Avvocatura dello Stato ri corda che il
rispetto del principio di uguaglianza non impone una assoluta
identità di trattamento normativo per situazioni oggettivamente
diversificate. A tale proposito la stessa difesa rinvia, più in
particolare, al consolidato orientamento della giurisprudenza della
Corte costituzionale, secondo il quale la diversità della posizione
del cittadino rispetto a quella dello straniero, seppure non precluda
il riconoscimento all’uno e all’altro dei diritti fondamentali,
consente al legislatore, nell’ambito del suo ragionevole
apprezzamento, di stabilire modalità normativamente diversificate
nel godimento di tali situazioni soggettive costituzionalmente
garantite.
Pertanto, la norma impugnata, considerata sistematicamente con la
disciplina del processo penale – disciplina che, sebbene imponga
l’uso della lingua italiana per il compimento degli atti del processo
penale (art. 109 c.p.p.), riconosce all’imputato (art. 143 c.p.p.) e
all’indagato (art. 61 c.p.p.), che non conoscono la lingua italiana,
il diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete – non
appare in contrasto con i principi costituzionali. Al contrario,
continua l’Avvocatura dello Stato, sicuramente irrazionale sarebbe
una norma, come quella che il giudice a quo mira a introdurre
nell’ordinamento con la pronunzia additiva richiesta con riguardo
all’art. 555, terzo comma, c.p.p., dal momento che la preventiva
traduzione del decreto di citazione nella lingua nota all’imputato
straniero sarebbe operativamente pregiudicata dalla difficoltà di
individuare anticipatamente quale sia la lingua da questi
effettivamente conosciuta, non potendo considerarsi decisiva in tal
senso la sua nazionalità.
L’Avvocatura dello Stato osserva, inoltre, che una considerazione
complessiva della disciplina del processo penale relativa alla figura
dell’interprete induce a ritenere infondate anche le censure mosse
alla norma impugnata in riferimento all’art. 24 della Costituzione.
Posto che il contenuto essenziale del diritto di difesa riposa sulla
garanzia di un effettivo e reale contraddittorio, assicurato anche
attraverso un’adeguata assistenza tecnico-professionale, il diritto
all’assistenza gratuita di un interprete rappresenta il mezzo con cui
si consente all’imputato straniero, mediante la presa di cognizione
dello sviluppo processuale, di partecipare effettivamente al
processo, con la possibilità di utilizzare tutte le opportunità di
strategia processuale (ivi compresa la richiesta di rito abbreviato)
che il codice mette a sua disposizione.
Infine, conclude l’Avvocatura dello Stato, anche i principi delle
convenzioni internazionali richiamate nell’ordinanza di rimessione
sarebbero adeguatamente rispettati dal riconoscimento di un diritto
dell’imputato straniero all’assistenza gratuita di un interprete, dal
momento che le convenzioni richiamate impongono soltanto una
informativa dettagliata e comprensibile dell’imputazione, senza che
sia in proposito fissata alcuna specifica scadenza temporale o alcun
termine iniziale.
3. – Con la seconda delle ordinanze riportate in epigrafe, il
Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della
Costituzione, nei confronti degli artt. 456, secondo comma, c.p.p. e
458, primo comma, c.p.p., nella parte in cui il combinato disposto
formato da queste due norme non impone che l’avviso previsto
dall’art. 456, secondo comma, c.p.p., sia tradotto nella lingua
dell’imputato straniero che non conosce la lingua italiana con
l’indicazione del termine entro cui richiedere il giudizio
abbreviato. Lo stesso giudice a quo, subordinatamente al caso di
pronuncia di inammissibilità o di infondatezza sulla precedente
questione di legittimità costituzionale, dubita della
costituzionalità dell’art. 458, primo comma, c.p.p., in riferimento
all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui
quella norma prevede che il termine di decadenza di sette giorni,
prescritto per la richiesta del giudizio abbreviato, decorra dalla
data della notificazione del decreto di citazione all’imputato
anziché, per l’imputato straniero che non conosce la lingua
italiana, dalla data della notifica dell’avviso al difensore, quando
questa si perfezioni successivamente.
Le due questioni di costituzionalità ora illustrate sono state
sollevate nel corso dell’udienza di un giudizio immediato instaurato
a carico di un cittadino tunisino, in stato di custodia cautelare in
carcere per detenzione di stupefacenti, dopo che il Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Milano aveva rigettato la sua
richiesta di giudizio abbreviato, con la motivazione che quest’ultima
era stata intempestivamente prodotta il 31 gennaio 1992 (ossia oltre
sette giorni dopo la notifica all’imputato del decreto di citazione a
giudizio immediato, avvenuta il 23 gennaio 1992, ancorché proposta
entro il termine fissato dall’art. 458, primo comma, c.p.p.,
considerando come dies a quo la successiva notifica al difensore,
avvenuta il 24 gennaio 1992) e dopo che il Tribunale di Milano,
competente per il giudizio immediato, aveva respinto l’istanza di
rimessione in termini presentata (al fine di rinnovare la richiesta
di giudizio abbreviato) dal difensore dell’imputato, ai sensi
dell’art. 175 c.p.p., prima dell’apertura del dibattimento, basandosi
sul fatto che lo straniero, non conoscendo la lingua italiana, non
aveva compreso il contenuto dell’avviso che gli era stato notificato.
Secondo il giudice a quo, sulla base dello svolgimento del processo
appena ricordato, entrambe le questioni di costituzionalità
sarebbero rilevanti, dal momento che sarebbero indirizzate, ancorché
in via subordinata l’una rispetto all’altra, all’eliminazione delle
norme dalla cui applicazione deriverebbe all’imputato straniero, con
riferimento al caso di specie, il pregiudizio consistente nella
impraticabilità del giudizio abbreviato e nell’impossibilità del
conseguimento del connesso effetto sostanziale di riduzione della
pena.
Quanto alla non manifesta infondatezza delle due questioni di
costituzionalità sollevate, il Tribunale di Milano, riguardo a
quella principale, osserva che dall’insieme delle disposizioni del
codice di procedura penale in materia di lingua degli atti del
processo penale e di assistenza dell’interprete all’imputato
straniero (artt. 109, 143, 169, terzo comma, c.p.p. e 63 disp. att.
c.p.p.) si dovrebbe escludere l’obbligo di traduzione dell’avviso di
cui all’art. 456, secondo comma, c.p.p. nella lingua conosciuta
dall’imputato straniero che ignora l’italiano e che, pertanto,
l’omissione di tale previsione comporterebbe una lesione sostanziale
del diritto di difesa, in quanto comprometterebbe il diritto
dell’imputato straniero di beneficiare della diminuente di pena
prevista in conseguenza dell’adozione del rito abbreviato.
In relazione alla questione di legittimità costituzionale
sollevata in via subordinata, il giudice a quo osserva che, nel caso
di imputato straniero che non conosce la lingua italiana e al quale
l’avviso previsto dall’art. 456, secondo comma, c.p.p. non sia stato
notificato nella traduzione in una lingua a lui conosciuta, la
decorrenza del breve termine di decadenza fissato dall’art. 458,
primo comma, c.p.p., a partire dalla data di notifica del predetto
avviso all’imputato, risulterebbe lesiva del diritto di difesa
dell’imputato, dal momento che non sussiste il presupposto (ossia la
piena comprensione dell’avviso) sulla base del quale l’accusato è
posto in grado di attivarsi e di informare il difensore, presupposto
che, in base alla giurisprudenza costituzionale, deve ritenersi
essenziale al fine di affermare la non irragionevolezza del termine
di cui all’art. 458, primo comma, c.p.p. Pertanto, poiché nel caso
in esame non possono essere riferite all’imputato straniero le
considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n.
588 del 1990 in relazione all’imputato che conosce la lingua
italiana, è opinione del giudice a quo che, qualora la questione
principale dovesse ritenersi infondata o inammissibile, dovrebbe
dichiararsi, entro questi limiti, l’illegittimità costituzionale
della norma contestata in via subordinata.
4. – Anche in questo giudizio si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, che ha richiesto, per entrambe le questioni
di costituzionalità sollevate, una pronuncia di inammissibilità o
una di infondatezza.
Preliminarmente, l’Avvocatura dello Stato esprime l’avviso che la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 456, secondo
comma, e 458, primo comma, c.p.p., sollevata dal Tribunale di Milano
in via principale, sarebbe inammissibile per irrilevanza. Secondo la
difesa erariale, il giudice a quo ignora che, nel caso di specie,
avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 175 c.p.p., poiché la
violazione del termine di decadenza per la presentazione della
richiesta di giudizio abbreviato trarrebbe motivo da un comportamento
incolpevole dell’imputato (ossia la non comprensione dell’avviso
notificatogli in lingua italiana), che, come tale, configurerebbe
sicuramente un’ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore,
richiesti dalla disposizione generale dell’art. 175 c.p.p. come
presupposto per la concessione di un provvedimento di restituzione in
termini.
Nel merito, la difesa erariale ritiene entrambe le questioni
infondate, in quanto non si evidenzierebbero nella disciplina
legislativa vigente motivi di contrasto con l’art. 24 della
Costituzione sotto il profilo della garanzia del diritto di difesa
ivi previsto. Inoltre, sempre secondo la stessa difesa, non potrebbe
ritenersi sussistente, neppure con riferimento a un imputato
straniero, l’irrazionalità o l’incongruenza di un termine di sette
giorni decorrente dalla notifica di un atto all’interessato.
corso di un giudizio penale nel quale un imputato straniero aveva
dichiarato in udienza, attraverso l’interprete nominato dal giudice
all’inizio del dibattimento, di aver ignorato fino ad allora il
contenuto dell’imputazione mossagli a causa della sua assoluta non
conoscenza della lingua italiana, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 24, secondo comma, e 76 della Costituzione – nei confronti
dell’art. 555, terzo comma, c.p.p., nella parte in cui non prevede
che il decreto di citazione a giudizio debba esser notificato
all’imputato straniero, che non conosce la lingua italiana, anche
nella traduzione nella lingua a lui nota.
Il Tribunale di Milano, nel corso dell’udienza di un giudizio
immediato instaurato, a carico di un imputato straniero che non
conosceva la lingua italiana, dopo che il Giudice per le indagini
preliminari aveva rigettato la richiesta di giudizio abbreviato
perché intempestivamente prodotta e dopo che lo stesso Tribunale di
Milano aveva respinto l’istanza di rimessione in termini presentata
dal difensore dell’imputato, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della
Costituzione, nei confronti del combinato disposto formato dall’art.
456, secondo comma, c.p.p. e dall’art. 458, primo comma, c.p.p.,
nella parte in cui non prevede che l’avviso contemplato dall’art.
456, secondo comma, c.p.p., contenente l’indicazione del termine
entro cui richiedere il giudizio abbreviato, debba essere tradotto
nella lingua conosciuta dall’imputato straniero che ignora la lingua
italiana. In via subordinata, lo stesso giudice a quo ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, sempre in riferimento
all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, nei confronti
dell’art. 458, primo comma, c.p.p., nella parte in cui prevede che il
termine di decadenza di sette giorni, prescritto per la richiesta del
giudizio abbreviato, decorra dalla data della notificazione del
decreto di citazione all’imputato anziché, per l’imputato straniero
che non conosce la lingua italiana, dalla data della notifica
dell’avviso al difensore, quando questa si perfezioni
successivamente.
Sebbene la questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Pretore di Torino e quella proposta in via principale dal Tribunale
di Milano abbiano ad oggetto disposizioni diverse e sebbene i
parametri invocati nell’uno e nell’altro caso siano solo parzialmente
coincidenti, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con
un’unica sentenza in considerazione del fatto che in ambedue le
ipotesi i giudici a quibus chiedono pronunzie additive aventi un
contenuto analogo. Più precisamente, tali giudici, affinché siano
salvaguardati i principi costituzionali invocati e, in particolare,
il diritto di difesa, prospettano l’esigenza che nell’ordinamento
processuale penale sia introdotta una norma diretta a prescrivere che
all’imputato straniero che ignora la lingua italiana siano
notificati, anche nella traduzione nella lingua a lui nota, atti del
processo penale, dai quali dipendono la conoscenza tempestiva e
dettagliata dell’imputazione (decreto di citazione a giudizio
dinnanzi al pretore) ovvero l’esercizio di significativi diritti
garantiti all’imputato dalle norme di procedura penale (avviso,
contenuto nel decreto di citazione a giudizio immediato, concernente
la facoltà dell’imputato di richiedere il giudizio abbreviato entro
sette giorni dalla notifica del decreto stesso).
2. – Ambedue le questioni sono non fondate nei sensi indicati in
motivazione.
Premesso che l’eccezione d’inammissibilità per irrilevanza,
formulata dall’Avvocatura dello Stato, va respinta dal momento che,
una volta che il giudice rimettente abbia non irragionevolmente
individuato la norma applicabile alla controversia pendente di fronte
a se stesso, esula dai poteri intestati a questa Corte in sede di
riesame della rilevanza sostituirsi al giudice a quo attraverso
l’indicazione di norme diverse che, secondo il suo avviso, sarebbero
risolutive del caso dedotto o, comunque, influenti sulla decisione
dello stesso (v., ad esempio, sentt. nn. 89 del 1984 e 189 del 1986,
nonché ord. n. 125 del 1987), occorre osservare che i giudici a
quibus richiedono a questa Corte addizioni normative il cui contenuto
sostanziale è già presente nell’ordinamento vigente.
Il presupposto interpretativo da cui muovono i giudici a quibus
consiste nella convinzione che la regola predisposta dall’art. 143,
primo comma, c.p.p., relativa al diritto dell’imputato di farsi
assistere gratuitamente da un interprete, sia rigorosamente
circoscritta agli atti orali e possa, quindi, essere estesa alla
notificazione di atti scritti soltanto in riferimento ai casi
espressamente previsti come eccezioni a quella regola: vale a dire,
la richiesta del cittadino italiano appartenente a una minoranza
linguistica riconosciuta di avere la traduzione nella madrelingua
degli atti del procedimento a lui indirizzati (art. 109, secondo
comma, c.p.p.) e l’invito a dichiarare o a eleggere domicilio nel
territorio dello Stato rivolto all’imputato straniero, invito che
dev’essere redatto nella lingua dell’accusato quando dagli atti
risulti che quest’ultimo non conosce la lingua italiana (art. 169,
terzo comma, c.p.p.). Tuttavia, a una considerazione complessiva
dell’ordinamento normativo, il presupposto interpretativo appena
ricordato non può essere condiviso.
La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa
esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce
all’art. 6, terzo comma, lettera a), che “ogni accusato ha diritto (
..) a essere informato, nel più breve spazio di tempo, nella lingua
che egli comprende e in maniera dettagliata, della natura e dei
motivi dell’accusa a lui rivolta”. Una disposizione del tutto
identica è, altresì, contenuta nell’art. 14, terzo comma, lettera
a), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
patto che è stato firmato il 19 dicembre 1966 a New York ed è stato
reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881. Le
norme internazionali appena ricordate sono state introdotte
nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti
contenenti i relativi ordini di esecuzione (v. sentt. nn. 188 del
1980, 153 del 1987 e 323 del 1989) e sono tuttora vigenti, non
potendo, certo, esser considerate abrogate dalle successive
disposizioni del codice di procedura penale, non tanto perché queste
ultime sono vincolate alla direttiva contenuta nell’art. 2 della
legge delega del 16 febbraio 1987, n. 81 (“il codice di procedura
penale deve ( ..) adeguarsi alle norme delle convenzioni
internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della
persona e al processo penale”), quanto, piuttosto, perché si tratta
di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza
atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di
modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria.
Grazie al collegamento delle norme ora richiamate con l’art. 143
c.p.p., che ad esse assicura la garanzia dell’effettività e
dell’applicabilità in concreto, il diritto dell’imputato ad essere
immediatamente e dettagliatamente informato nella lingua da lui
conosciuta della natura e dei motivi dell’imputazione contestatagli
dev’esser considerato un diritto soggettivo perfetto, direttamente
azionabile (v. analogamente sent. n. 62 del 1992). E, poiché si
tratta di un diritto la cui garanzia, ancorché esplicitata da atti
aventi il rango della legge ordinaria, esprime un contenuto di valore
implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di ogni uomo
(cittadino o straniero), del diritto inviolabile alla difesa (art.
24, secondo comma, della Costituzione), ne consegue che, in ragione
della natura di quest’ultimo quale principio fondamentale, ai sensi
dell’art. 2 della Costituzione, il giudice è sottoposto al vincolo
interpretativo di conferire alle norme, che contengono le garanzie
dei diritti di difesa in ordine alla esatta comprensione dell’accusa,
un significato espansivo, diretto a render concreto ed effettivo, nei
limiti del possibile, il sopra indicato diritto dell’imputato.
3. – Nel disciplinare con una norma di carattere generale il
diritto dell’imputato di farsi assistere gratuitamente da un
interprete, l’art. 143 c.p.p. ha prodotto nel sistema processuale
penale una significativa innovazione rispetto alla disciplina dello
stesso processo contenuta nel codice precedente. Infatti, mentre in
quest’ultimo l’art. 326 regolava la figura dell’interprete in modo
tale da collocarla senza residui nella categoria degli ausiliari del
giudice – tanto che individuava la funzione caratterizzante di questo
istituto nell’esigenza di assicurare l’intellegibilità obiettiva di
tutti gli atti del processo, attraverso l’omogeneità della lingua
adoperata e senza distinguere, fra le dichiarazioni o le deposizioni,
quelle provenienti dall’imputato -, l’art. 143 del nuovo codice,
invece, pur mantenendo all’interprete le funzioni tipiche del
collaboratore dell’autorità giudiziaria (secondo comma), marca
nettamente la differenza con la precedente disciplina assegnando
primariamente allo stesso una connotazione e un ruolo propri di
istituti preordinati alla tutela della difesa, tanto da configurare
il ricorso all’interprete come oggetto di un preciso diritto
dell’imputato e da qualificare la relativa funzione in termini di
“assistenza” (primo comma).
Tale innovazione, che sottolinea il valore del diritto alla difesa
come strumento di reale partecipazione dell’imputato al processo
attraverso l’effettiva comprensione dei distinti atti e dei singoli
momenti di svolgimento dello stesso, pone il nuovo sistema
processuale penale in sintonia con i principi contenuti nelle
convenzioni internazionali ratificate dall’Italia in materia di
diritti della persona (v., oltre agli articoli di dette convenzioni
sopra indicati, l’art. 3, terzo comma, lettera a, e l’art. 14, terzo
comma, lettera f, del Patto internazionale dei diritti civili e
politici, di cui l’art. 143, primo comma, c.p.p. costituisce una
riproduzione pressoché letterale). È da siffatto rapporto con i
suddetti principi, alimentato dal necessario collegamento con i
valori costituzionali attinenti ai diritti della difesa (art. 24,
secondo comma, della Costituzione), che deriva, nei termini
precedentemente precisati, una particolare forza espansiva dell’art.
143, primo comma, c.p.p., che il giudice penale, in sede di
interpretazione, non può ignorare.
In conseguenza di queste considerazioni risulta evidente che non
può essere condiviso il presupposto interpretativo da cui muovono i
giudici a quibus, vale a dire l’assunto che l’art. 143, primo comma,
c.p.p. vada configurato come norma di stretta interpretazione, che
tollera come uniche eccezioni alla regola dell’utilizzazione
dell’interprete per gli atti orali soltanto quelle espressamente
previste nello stesso codice di procedura penale (v. artt. 109,
secondo comma, e 169, terzo comma, c.p.p.). Al contrario, trattandosi
di una norma che assicura una garanzia essenziale al godimento di un
diritto fondamentale di difesa, riconosciuto altresì dalla comunità
internazionale come principio derivante da un trattato multilaterale
(essendosi verificata la condizione – sottoscrizione di almeno
trentacinque membri della comunità mondiale – cui l’art. 49 del
Patto di New York subordinava l’entrata in vigore del Patto stesso),
l’art. 143, primo comma, c.p.p. va interpretato come una clausola
generale, di ampia applicazione, destinata ad espandersi e a
specificarsi, nell’ambito dei fini normativamente riconosciuti, di
fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo
richiedano, quali il tipo di atto cui la persona sottoposta al
procedimento deve partecipare ovvero il genere di ausilio di cui la
stessa abbisogna.
4. – Del resto, la ricordata configurazione del diritto
all’assistenza di un interprete è, per un verso, permessa dalle
stesse disposizioni stabilite dall’art. 143, primo comma, c.p.p. e,
per altro verso, non è ostacolata, né, tantomeno, contraddetta
dalle altre disposizioni del codice che prescrivono specificamente la
traduzione di atti del processo nella lingua nota all’imputato.
Sotto il primo profilo, infatti, occorre osservare che l’art. 143,
primo comma, c.p.p., definisce significativamente il contenuto
dell’attività dell’interprete in dipendenza della finalità generale
di garantire all’imputato che non intende o non parla la lingua
italiana di “comprendere l’accusa contro di lui formulata e di
seguire il compimento degli atti cui partecipa”. Questa ampia
finalizzazione induce a ritenere che l’art. 143 sia suscettibile di
un’applicazione estensibile a tutte le ipotesi in cui l’imputato, ove
non potesse giovarsi dell’ausilio dell’interprete, sarebbe
pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo
svolgimento del processo penale. Inoltre, il fatto che la disciplina
dell’istituto in questione sia contenuta nel titolo dedicato alla
“traduzione degli atti” e il fatto che il processo penale, a
differenza di quello civile, non distingue la figura del traduttore
da quella dell’interprete, inducono a ritenere che, in via generale,
il diritto all’interprete possa essere fatto valere e possa essere
fruito, stando al tenore letterale dello stesso art. 143 c.p.p., ogni
volta che l’imputato abbia bisogno della traduzione nella lingua da
lui conosciuta in ordine a tutti gli atti a lui indirizzati, sia
scritti che orali.
Sotto il profilo del rapporto con le altre disposizioni del codice
di procedura penale che prescrivono la traduzione di atti processuali
nella lingua compresa dall’imputato, occorre sottolineare che il
significato normativo da attribuire all’art. 143 c.p.p. è più ampio
e non coincidente sia rispetto a quello proprio dell’art. 109,
secondo comma, c.p.p., sia rispetto a quello proprio dell’art. 169,
terzo comma, c.p.p. Infatti, mentre la garanzia apprestata dall’art.
143 c.p.p. ha carattere generale e si estende a qualsiasi persona, di
qualunque nazionalità, che, essendo sottoposta a procedimento penale
nel territorio dello Stato, risulta essere non in grado di
comprendere la lingua italiana, al contrario le garanzie offerte
dagli altri articoli sopra indicati prescindono dal presupposto della
effettiva comprensione della lingua propria degli atti processuali.
Più in particolare, l’art. 109, secondo comma, c.p.p. attribuisce
al cittadino italiano appartenente a un minoranza linguistica
riconosciuta il diritto di richiedere la traduzione nella madrelingua
degli atti a lui indirizzati, a prescindere dal fatto che egli parli
o comprenda la lingua italiana: quella ora indicata è, infatti, una
garanzia che, come ha affermato questa Corte (v. sent. n. 62 del
1992), non è finalizzata “alla adeguata comprensione degli aspetti
processuali”, né implica, più in generale, una “coincidenza o
sovrapposizione con la tutela comportata dal riconoscimento dei
diritti della difesa”, ma è, in ogni caso, “la conseguenza di una
speciale protezione costituzionale accordata al patrimonio culturale
di un particolare gruppo etnico”. Diversamente, l’art. 169, terzo
comma, c.p.p., che prescrive l’obbligo di notificare all’estero,
tradotto nella lingua dell’imputato straniero, l’invito a dichiarare
o a eleggere domicilio nel territorio dello Stato, impone la
redazione dell’atto in una lingua diversa da quella ufficiale in
presenza del mero ricorrere della nazionalità straniera
dell’imputato, salvo che dagli atti del processo non risulti la
conoscenza da parte dell’imputato stesso della lingua italiana.
5. – Le considerazioni fin qui svolte – e, in particolare, quelle
relative al principio della effettiva partecipazione dell’imputato
allo sviluppo della sequenza procedimentale, partecipazione che è
imposta all’accertamento della fondatezza dell’accusa e che trova il
proprio presupposto indefettibile nella piena comprensione degli atti
processuali che quella sequenza compongono, – inducono a concludere
che la mancanza di un espresso obbligo di traduzione nella lingua
nota all’imputato straniero sia del decreto di citazione a giudizio
davanti al pretore (art. 555 c.p.p.), sia dell’avviso, contenuto nel
decreto di giudizio immediato, concernente la facoltà di richiedere
il giudizio abbreviato (artt. 456, secondo comma, e 458, primo comma,
c.p.p.), non può impedire la piena espansione della garanzia
assicurata dall’art. 143, primo comma, c.p.p., in conformità ai
diritti dell’imputato riconosciuti dalle convenzioni internazionali
ratificate in Italia e dall’art. 24, secondo comma, della
Costituzione.
In altri termini, interpretato alla luce dei principi appena
ricordati, l’art. 143, primo comma, c.p.p. impone che si proceda alla
nomina dell’interprete o del traduttore immediatamente al verificarsi
della circostanza della mancata conoscenza della lingua italiana da
parte della persona nei cui confronti si procede, tanto se tale
circostanza sia evidenziata dallo stesso interessato, quanto se, in
difetto di ciò, sia accertata dall’autorità procedente.
Quest’ultima evenienza, anzi, va riferita anche alla fase delle
indagini preliminari, sia per effetto dell’estensione all’indagato di
tutte le garanzie assicurate all’imputato (art. 61 c.p.p.), sia per
effetto del riferimento esplicito, contenuto nello stesso art. 143,
terzo comma, c.p.p., alla nomina dell’interprete in relazione alle
attività processuali del giudice così come alle attività del
pubblico ministero o dell’ufficiale di polizia giudiziaria. Pertanto,
il diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete comporta,
ad una corretta interpretazione dell’art. 143 c.p.p., che l’attività
di assistenza svolta da quest’ultimo a favore dell’indagato
ricomprenda, fra l’altro, la traduzione, in tutti i suoi elementi
costitutivi – incluso l’avviso relativo alla facoltà di richiedere
il giudizio abbreviato – del decreto di citazione a giudizio, sia se
emesso dal Giudice per le indagini preliminari (nel procedimento
innanzi al tribunale), sia se adottato dal Pubblico ministero (nel
rito pretorile).
Questa conclusione, oltre a essere indotta da un preciso
collegamento ermeneutico con i principi costituzionali stabiliti
dall’art. 24 e con i diritti dell’imputato garantiti dalle sopra
menzionate convenzioni internazionali sui diritti della persona,
costituisce uno svolgimento coerente della stessa funzione che l’art.
143 c.p.p. assegna all’interprete. Questi, infatti, proprio perché
assiste l’imputato (o l’indagato) al fine di fargli comprendere
l’esatto significato dell’accusa formulata contro di lui e di fargli
seguire il compimento degli atti cui partecipa, non può non
estendere la sua opera di collaborazione anche all’atto con il quale
l’imputato è messo a conoscenza della natura e dei motivi
dell’imputazione, oltreché delle facoltà riconosciutegli al fine di
contrapporsi all’accusa, qual è essenzialmente il decreto di
citazione a giudizio, considerato in tutti i suoi elementi
costitutivi.
6. – L’interpretazione nei termini appena riferiti del diritto
all’assistenza gratuita di un interprete, basato sull’art. 143
c.p.p., fa venir meno i dubbi di legittimità costituzionale
manifestati dal Pretore di Torino e dal Tribunale di Milano con le
ordinanze indicate in epigrafe e risponde ai limiti di rilevanza
propri delle questioni sottoposte a questa Corte dai giudici a
quibus. Sotto quest’ultimo profilo, va precisato, infatti, che in
ambedue i casi la non conoscenza della lingua italiana da parte
dell’imputato straniero è stata accertata sin dalle indagini
preliminari, al momento dei rispettivi arresti e delle relative
udienze di convalida. Sicché è di evidente rilevanza una pronunzia
comportante l’attuazione del diritto dell’imputato a vedersi
notificato, tradotto nella lingua a lui nota, il decreto di citazione
a giudizio innanzi al pretore, in un caso, e il decreto di citazione
a giudizio immediato innanzi al tribunale competente, nell’altro
caso.
In conseguenza della decisione resa, perde ogni ragion d’essere la
questione di legittimità costituzionale avverso l’art. 458, primo
comma, c.p.p., sollevata in via subordinata dal Tribunale di Milano
con la seconda delle ordinanze indicate in epigrafe.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Pretore di
Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento agli
artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 76 della Costituzione, nei
confronti dell’art. 555, terzo comma, c.p.p., nella parte in cui non
prevede che il decreto di citazione a giudizio debba essere
notificato all’imputato straniero, che non conosce la lingua
italiana, anche nella traduzione nella lingua da lui compresa;
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di
Milano, con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento all’art.
24, secondo comma, della Costituzione, nei confronti del combinato
disposto formato dall’art. 456, secondo comma, c.p.p. e dall’art.
458, primo comma, c.p.p., nella parte in cui non prevede che l’avviso
contemplato dall’art. 456, secondo comma, c.p.p., comprensivo
dell’indicazione del termine entro cui richiedere il giudizio
abbreviato, debba essere tradotto nella lingua conosciuta
dall’imputato straniero che ignora la lingua italiana.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 gennaio 1993.
Il presidente: CASAVOLA
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 19 gennaio 1993.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA