Sentenza N. 100 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
11/03/1971
Data deposito/pubblicazione
11/03/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/05/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
– Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 27 maggio
1969 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di
Gonella Gian Franco, iscritta al n. 377 del registro ordinanze 1969 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 280 del 5
novembre 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 aprile 1971 il Giudice relatore
Paolo Rossi;
ud ito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso di un procedimento penale a carico di tale G.F. Gonella,
imputato di furto pluriaggravato, il tribunale di Torino sollevava
questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 255 del
codice di procedura penale, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, non escludendosi la recidiva dal novero delle circostanze
aggravanti delle quali si deve tener conto ai fini del computo della
pena per l’emissione del mandato di cattura, nella specie,
obbligatorio.
Si osserva, nell’ordinanza di remissione, che non appare conforme
al principio di eguaglianza far discendere l’obbligatorietà del
mandato di cattura da una “condizione o qualità personale”, giacché
dovrebbe considerarsi illegittima la grave limitazione alla libertà
personale stabilita dalla norma impugnata per una condizione soggettiva
che sembra estranea al fatto oggetto dell’imputazione.
Si è costituita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei
ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato,
mediante atto di intervento depositato il 28 ottobre 1969 chiedendo
dichiararsi l’infondatezza della questione proposta.
Rileva l’Avvocatura che il giudice a quo dà per scontata una
premessa assai discutibile, ed inoltre appare fuorviato da un equivoco
di natura sostanzialmente terminologica.
Invero non è pacifico in dottrina che la recidiva costituisca una
mera condizione o qualità personale, estranea al fatto reato: vari
autori pongono infatti in luce che la recidiva sorge da una precedente
condotta, caratterizzata spesso dall’essere stata manifestazione di una
azione criminosa della stessa indole, compiuta in epoca ravvicinata al
fatto per il quale successivamente si procede.
In secondo luogo la condizione di recidivo, essendo indubbiamente
ricollegata ad una preesistente qualificata condotta e condanna
dell’individuo, non può certamente essere posta sullo stesso piano
delle vere “condizioni personali” che per l’art. 3 della Costituzione
non possono rappresentare elemento di discriminazione tra soggetti.
Tale conclusione potrebbe essere confortata dalle argomentazioni svolte
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 110 del 1968.
La norma per cui nel computo della pena agli effetti del mandato di
cattura (artt. 253, 254, 255 c.p.p.) si deve tener conto anche della
recidiva non contrasta col principio di uguaglianza fra i cittadini
sancito nell’art. 3 della Costituzione
L’ordinanza del tribunale di Torino ritiene “non con forme al
principio di uguaglianza il far discendere l’obbligatorietà in ordine
al mandato di cattura da quella che dottrina e giurisprudenza
considerano come una condizione, o qualità personale dell’individuo,
l’essere cioè recidivo”.
A prescindere dal rilievo che la recidiva è secondo molti autori
non una condizione o qualità personale dell’imputato, ma piuttosto una
circostanza aggravante dell’imputabilità e della pena, è fuori dubbio
che la recidiva costituisca un fatto oggettivo giudiziariamente
accertato.
Le “condizioni personali e sociali”, collocate dall’art 3 della
Costituzione sullo stesso piano del sesso, della razza, della lingua,
della religione, delle opinioni politiche, per escludere ogni
discriminazione fra cittadini, non sono certamente quelle che derivano
da un’attività illegale, o addirittura criminosa, posta in essere dal
soggetto.
Il principio di uguaglianza è invocabile in situazioni
obiettivamente uguali, o giuridicamente comparabili. È assurdo pensare
che chi ha riportato precedenti condanne penali ed è indiziato di un
nuovo delitto non possa, e non debba, venir considerato più pericoloso
del cittadino incensurato, in virtù di una astratta uguaglianza.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 255 del codice di procedura penale sollevata dal tribunale di
Torino, con l’ordinanza in epigrafe indicata, in riferimento all’art. 3
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 maggio 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.