Sentenza N. 107 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
25/06/1981
Data deposito/pubblicazione
25/06/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
07/05/1981
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof.
LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA –
Prof. VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
747, 750 e 751 del codice civile (successione – obbligo di collazione)
promossi con le seguenti ordinanze:
1 ) ordinanza emessa il 26 giugno 1975 dal Tribunale di Sciacca
nel procedimento civile vertente tra Pedalino Vincenza e Pedalino
Serafina ed altri, iscritta al n. 450 del registro ordinanze 1975 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 306 del 19
novembre 1975;
2) ordinanza emessa il 4 maggio 1976 dal Tribunale di Salerno nel
procedimento civile vertente tra Barlotti Pasqualina e Barlotti
Raffaele ed altri, iscritta al n. 498 del registro ordinanze 1976 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 246 del 15
settembre 1976.
Visti l’atto di costituzione di Barlotti Pasqualina e gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 dicembre 1980 il Giudice
relatore Leopoldo Elia;
udito l’avvocato dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
1. – Il Tribunale di Sciacca, con ordinanza emessa il 26 giugno
1975, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 751
del codice civile per contrasto con gli artt. 3 e 42, secondo comma,
della Costituzione in quanto stabilisce che la collazione di donazione
avente ad oggetto danaro deve effettuarsi al valore nominale, senza
tener conto, dunque, della eventuale svalutazione verificatasi dal
momento della donazione al momento dell’apertura della successione.
La valutazione dell’id quod relictum e dell’id quod donatum
obbedirebbe a criteri uniformi ed omogenei, volti ad assicurare la
proporzionalità di trattamento in tutte le operazioni che si
concludono con l’attribuzione delle quote agli eredi, con la
conseguenza di risolvere “nel senso dell’irrilevanza il problema delle
variazioni di valore dei beni donati”. Essenziale a questo scopo
sarebbe il considerare tutti gli elementi che entrano a far parte
della massa ereditaria al valore che hanno al tempo dell’apertura
della successione: regola questa sempre seguita, anche ai fini della
riduzione (art. 556, cod. civ.), della collazione di beni immobili e
mobili (artt. 747 e 750, cod. civ.), solo trascurata nel caso di
collazione di danaro anche quando la somma sia stata donata “senza
vincoli di indisponibilità”; con l’effetto di dare luogo
ingiustificatamente ad una diversa disciplina nei confronti dei
beneficiari di donazioni di beni di diversa qualità, di poter ledere
anche la effettiva quota di legittima e di alterare comunque i valori
del patrimonio cui si riferiscono i diritti dell’erede.
Nella specie l’attrice nel processo a quo, Pedalino Vincenza,
chiedeva la riduzione delle donazioni effettuate dal de cuius e la
reintegra della quota di legittima. Uno dei convenuti, rilevato che
l’attrice medesima aveva ricevuto una donazione di lire 5.000
(cinquemila) nel 1922, eccepiva l’illegittimità costituzionale della
norma che impone di valutare in termini nominali la somma donata ai
fini della formazione della massa ereditaria.
L’ordinanza del giudice a quo, adottata in sostanziale accoglimento
di tale eccezione, regolarmente comunicata e notificata, veniva
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 19 novembre 1975, n. 306.
2. – Interveniva nel giudizio innanzi a questa Corte l’Avvocatura
dello Stato deducendo l’infondatezza della questione. Il principio
nominalistico avrebbe, come illustrato anche nella relazione al codice
civile, una insostituibile funzione nella vita economica: esso solo
infatti consentirebbe di raffigurare i debiti pecuniari come entità
costanti e di conoscere quindi con certezza la somma dovuta. Tale
funzione renderebbe giustificato il diverso trattamento delle
donazioni di danaro; una eccezione alla regola del nominalismo,
limitata al campo successorio, creerebbe invece a sua volta
un’ingiustificata differenza normativa.
3. – Questione analoga era sollevata dal Tribunale di Salerno con
ordinanza emessa il 4 maggio 1976, in riferimento agli artt. 747, 750
e 751 del codice civile e con riguardo all’art. 3 della Costituzione.
Anche in questo caso il giudizio aveva ad oggetto azione di
riduzione per lesa legittima; anche in questo caso l’attrice e le
sorelle intervenute erano state beneficiarie di donazioni di somme di
danaro; si eccepiva da parte convenuta l’incostituzionalità della
normativa che impone di conferire le donazioni in danaro al solo
valore nominale.
L’ordinanza, adottata in seguito a tale eccezione, veniva
regolarmente comunicata e notificata; era successivamente pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale del 15 settembre 1976, n. 246.
L’Avvocatura dello Stato si costituiva nel giudizio innanzi a
questa Corte chiedendo pronunzia di rigetto con argomenti in tutto
simili a quelli svolti nella precedente analoga occasione.
Si costituiva anche Barlotti Pasqualina, attrice nel processo a
quo, rilevando che gli artt. 747 e 750 del codice civile impugnati con
l’atto introduttivo del giudizio di costituzionalità, sono estranei
alla questione proposta, che atterrebbe invece al solo art. 751 del
codice civile.
Osservava inoltre che non si può configurare una violazione del
principio di eguaglianza nel caso in esame, non traducendosi la
differenza normativa in privilegio (odioso o favorevole) a carattere
soggettivo. Sosteneva poi la ragionevolezza anche in questo caso del
principio nominalistico e l’irrazionalità di una deroga ad esso,
limitata al diritto successorio, con argomenti simili a quelli svolti
dall’Avvocatura dello Stato.
Le ordinanze del Tribunale di Sciacca e del Tribunale di Salerno
sollevano questione di legittimità costituzionale in ordine all’art.
751 del codice civile. Secondo il Tribunale di Sciacca questa
disposizione contrasterebbe con gli artt. 3 e 42, secondo comma, della
Costituzione; a parere del Tribunale di Salerno, invece, anche gli
artt. 747 e 750 del codice civile si porrebbero in contrasto con
l’art. 3 della Costituzione (unico parametro qui evocato). Ad avviso
dei giudici remittenti la disciplina della collazione del danaro, che
si riferisce nel quantum al valore legale della specie donata,
comporterebbe un trattamento arbitrariamente differenziato tra coeredi
donatari soggetti a collazione, secondo che essi siano donatari di
beni immobili, di beni mobili o di somme di danaro. Inoltre la
disciplina del codice sarebbe su questo punto in contrasto con il
canone della razionalità.
La questione non è fondata.
Va rilevato, in primo luogo, che le ordinanze non contestano la
legittimità costituzionale del principio nominalistico; non
contestano, cioè, che una somma di danaro, considerata nel valore che
viene attribuito alla moneta in cui essa è espressa alla data della
emissione, costituisce sempre e costantemente il medesimo bene, quale
che sia, nel momento storico che si considera, il potere di acquisto
della moneta stessa.
Va ricordato, in secondo luogo, che il principio che regge
l’istituto della collazione consiste nel computare nella determinazione
della porzione spettante al condividente il bene che egli ha
precedentemente ricevuto dal de cuius.
Il bene che va conferito è quello che è stato ricevuto. Se,
invero, è stato ricevuto un immobile, è questo che viene conferito
(art. 747, cod. civ.). Parimenti è da conferire la somma di danaro,
che non è mutata nella sua identità, per il principio di cui si è
detto.
Il problema della valutazione del bene al tempo dell’apertura
della successione si pone nei casi in cui il bene non venga conferito
in natura, o per scelta del conferente (art. 746, primo comma, cod.
civ.) o per impossibilità, materiale o giuridica (art. 746, secondo
comma), o per disposizione di legge (art. 750). L’imputazione viene
fatta con riferimento non soltanto al valore, ma anche alla
consistenza del bene al tempo dell’apertura della successione, in
quanto tale valore sostituisce il bene, quale avrebbe dovuto essere
conferito, appunto, in tale momento.
Per le somme di danaro non viene in considerazione un problema di
imputazione, in quanto, per il principio innanzi ricordato, non si ha
imputazione per equivalente, ma si ha collazione in natura della
somma, che viene detratta nel valore suo proprio, rimasto immutato.
Ed infatti, la circostanza che il danaro che viene conferito non
è costituito dalla stessa species che è stata ricevuta non modifica
l’essenza del conferimento, che resta conferimento in natura e non
conferimento per equivalente, per il particolare carattere di
fungibilità della moneta, che rimane sempre il medesimo bene, quale
che sia la specie in cui viene corrisposta.
Tra l’ipotesi, dunque, di collazione per imputazione di beni nel
loro equivalente e l’ipotesi di collazione di danaro, che è
collazione in natura e non per equivalente, non sussistono né una
identità né una affinità, che possano richiedere un pari
trattamento ed anzi si ravvisa quella sostanziale diversità che
giustifica ognora un trattamento differenziato.
Poiché, anzi, la collazione di somma di danaro è collazione in
natura, questa si pone accanto al conferimento in natura di bene
immobile, che è conferimento dello stesso bene e non di altro bene,
di guisa che, ove si imponesse il conferimento di un bene diverso,
quale sarebbe una somma di danaro di valore nominale più elevato, si
verrebbe ad instaurare una diversità di disciplina tra pari
situazioni.
In effetti le ordinanze di rimessione tendono a configurare una
irrazionalità nel sistema legislativo, in riferimento alle ipotesi di
sopravvenuta grave svalutazione monetaria, in quanto, considerando la
situazione dei condividenti nel momento dell’apertura della
successione, si viene a verificare una grave disparità di valori
effettivi tra chi conferisce per imputazione l’equivalente in moneta
del bene ricevuto e chi conferisce la somma di danaro, quale gli fu
attribuita, giacché il primo vede diminuita la sua porzione di un
valore in moneta corrente notevolmente superiore alla diminuzione
patrimoniale che subisce il secondo.
La tesi della irrazionalità muove, però, da un presupposto che
è del tutto estraneo all’istituto della collazione; dal presupposto,
cioè, che chi abbia ricevuto una somma di danaro “senza vincoli di
imponibilità” l’abbia investita nell’acquisto di beni o, quanto meno,
che costui debba essere comunque trattato come se a tale acquisto sia
addivenuto.
Orbene, tale presupposto è privo di fondamento, in quanto non
può configurarsi a carico del beneficiario di una attribuzione in
danaro né l’obbligo né l’onere di impiegarla in acquisti; ed invero
la giurisprudenza della Corte di cassazione è giustamente costante
nell’affermare che si ha attribuzione in danaro, come tale da
considerare ai fini della collazione, anche quando il danaro ricevuto
sia stato impiegato nell’acquisto di altri beni, in quanto è stato il
danaro, e non il bene acquistato, l’oggetto dell’attribuzione, ed è
il danaro, e non tale bene, l’oggetto del conferimento.
Il sospetto di irrazionalità potrebbe essere avanzato, peraltro,
con riferimento a diverse ipotesi, in relazione alle quali recenti
pronunce giurisprudenziali hanno dato rilevanza al fenomeno della
svalutazione monetaria, ipotesi che tuttavia concernono situazioni
irriducibili a quella qui considerata.
La svalutazione monetaria può, in realtà, venire in
considerazione quando, a seguito del ritardo nella prestazione di una
somma di danaro, il creditore riceva un pregiudizio, ottenendo un
valore, stimato con riguardo al potere di acquisto della moneta,
inferiore a quello che egli legittimamente attendeva; in relazione a
queste ipotesi è stato ritenuto, infatti, che nella determinazione
del danno da risarcire possa tenersi conto dell’incidenza della
sopravvenuta svalutazione nel patrimonio del creditore.
Ma la medesima giurisprudenza ha pur sempre tenuto fermo il
principio dell’immutabilità del bene – moneta nel considerare la
situazione propria dei rapporti obbligatori che è la più vicina a
quella qui considerata; è rimasto fermo, dunque, che chi ha ricevuto
in mutuo una somma di danaro per un certo tempo è tenuto a dare la
stessa somma, nel suo valore nominale, quale che ne sia stato il
mutamento del valore di scambio nel tempo intercorso tra la nascita
dell’obbligazione e la scadenza.
Né, quindi, sotto l’aspetto del trattamento difforme di pari
situazioni, né sotto l’aspetto della irrazionalità del sistema
normativo può ritenersi che la disciplina contenuta nell’art. 751 del
codice civile, con riferimento agli artt. 747 e 750 dello stesso
codice, sia in contrasto con i precetti dell’art. 3 della
Costituzione.
Infine, quanto si è già detto vale a maggior ragione per
escludere che risulti in qualche modo violato l’art. 42 della stessa
Carta.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 751, 747 e 750 del codice civile sollevate in riferimento
agli artt. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione con le ordinanze
in epigrafe dai Tribunali di Sciacca e di Salerno.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1981.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
MICHELE ROSSANO – ANTONINO DE STEFANO
– LEOPOLDO ELIA – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE
FERRARI.
GIOVANNI VTTALE – Cancelliere