Sentenza N. 108 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
12/07/1967
Data deposito/pubblicazione
12/07/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/06/1967
NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Dott. ANTONIO MANCA – Prof.
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ- Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI, Giudici,
legge 30 marzo 1965, n. 340, recante “Norme concernenenti taluni
servizi di competenza dell’Amministrazione statale delle antichità e
delle arti”, promosso con ordinanza emessa il 18 gennaio 1966 dalla
Corte dei conti – Sezione seconda giurisdizionale – nel giudizio
promosso dal Procuratore Generale contro Bartoccini Fiorella,
Bartoccini Franco e Bartoccini Maria, nella loro qualità di eredi di
Bartoccini Renato, e contro Giusto Giuseppe, iscritta al n. 54 del
Registro ordinanze 1966 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 105 del 30 aprile 1966.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione dei Bartoccini e di Giusto Giuseppe;
udita nell’udienza pubblica del 18 maggio 1967 la relazione del
Giudice Giovanni Battista Benedetti;
uditi gli avvocati Stefano Giagheddu e Mario Barra Caracciolo, per
i Bartoccini e per il Giusto, e il sostituto avvocato generale dello
Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Procuratore Generale della Corte dei conti, con atto in data 21
luglio 1961, conveniva in giudizio il Prof. Renato Bartoccini e il
dott. Giuseppe Giusto, rispettivamente titolare ed economo della
Sopraintendenza alle antichità dell’Etruria meridionale, per sentire
dichiarare il loro obbligo alla resa del conto giudiziale in ordine
alla gestione extra- bilancio della somma di lire 4.164.000, avvenuta
negli anni 1955-56, e, in caso di mancata dichiarazione, per sentirli
condannare al pagamento di detta somma in favore del Ministero della
pubblica istruzione.
Deceduto il Prof. Bartoccini nelle more del giudizio, questo veniva
riassunto, con atto 26 aprile 1965, nei confronti degli eredi.
Sostenevano i convenuti in punto di diritto che la pretesa di
credito dell’erario dovesse ritenersi cessata per effetto della
sopravvenuta legge 30 marzo 1965, n. 340, la quale stabilisce che non
vi è obbligo di dare giustificazione mediante la presentazione dei
conti giudiziali (art. 11) di cespiti affluiti alla gestione delle
Sovraintendenze in data anteriore di più di un quinquennio all’entrata
in vigore (11 maggio 1965) della suddetta legge. Precisavano, inoltre,
che da un conto a suo tempo reso, e dal quale comunque non potevano
trarsi elementi a loro carico, la spesa della somma in questione
risultava documentata (lire 1.500.000 erogate in conformità della
volontà del donante e le restanti lire 2.664.000 per fronteggiare
inderogabili necessità di servizio), e soggiungevano che, in ogni
caso, data la insussistenza di dolo, essi convenuti non potevano essere
chiamati a rispondere patrimonialmente ai sensi del citato art. 11
della legge n. 340 del 1965.
Con ordinanza emessa il 18 gennaio 1966 la Corte dei conti, in
accoglimento della eccezione del Pubblico Ministero, il quale aveva
però prospettato la questione solo in riferimento agli artt. 3 e 103,
secondo comma, della costituzione, ha sollevato la questione di
illegittimità costituzionale della citata norma anche in relazione
agli artt. 81, primo comma, 97, primo e secondo comma, e 100, secondo
comma, della costituzione.
Per quanto riguarda l’art. 3 della costituzione la Corte dei conti
osserva che il legislatore del 1965, sia nel limitare all’ultimo
quinquennio l’obbligo di dare giustificazione, mediante la
presentazione dei conti giudiziali, delle somme gestite fuori bilancio,
sia nel circoscrivere la responsabilità patrimoniale alla sola ipotesi
di dolo, avrebbe creato, per gli agenti contabili ed ordinatori di
spese delle gestioni in parola, una particolare situazione di favore
non solo nei confronti dei contabili di fatto e di diritto e degli
ordinatori di spese delle altre amministrazioni statali, ma anche nei
riguardi dei funzionari della stessa Amministrazione delle antichità e
belle arti che ebbero ad operare – nel medesimo periodo di tempo – in
normali gestioni di bilancio. Tale disparità di trattamento, secondo
l’ordinanza, non sarebbe sorretta da una diversità di situazioni posto
che la legge n. 340 del 1965, intesa a riportare nell’alveo della
legalità le gestioni fuori bilancio, non solo non ha riconosciuto
l’esistenza di ragioni tali da giustificarle, ma, al contrario, ne ha
disposto la soppressione.
Circa la violazione dell’art. 103, secondo comma, della
costituzione che riserva alla Corte dei conti la giurisdizione nella
materia di contabilità pubblica, nonché degli artt. 81, primo comma,
97, primo e secondo comma, e 100, secondo comma, della costituzione i
cui precetti assicurano il controllo sulla gestione del pubblico denaro
da parte del Parlamento e della Corte dei conti e la buona
organizzazione degli uffici pubblici e la responsabilità dei
funzionari, l’ordinanza afferma che l’avere esonerato taluni funzionari
delle antichità e belle arti dall’obbligo della presentazione dei
conti e l’avere per di più limitato il giudizio di responsabilità
alle sole ipotesi di dolo, importa come conseguenza la sottrazione
delle relative gestioni finanziarie al controllo e alla giurisdizione
della Corte e quindi anche al controllo successivo del Parlamento. Né
varrebbe, per contro, il rilievo che il controllo previsto dall’art.
100, comma secondo, della costituzione si riferisce alle gestioni del
bilancio dello Stato e non anche a quelle fuori bilancio perché – a
parte ogni considerazione circa la legittimità costituzionale di
siffatte gestioni (questione questa che non ha rilevanza nel presente
giudizio in cui si discute su gestioni non previste da leggi o da norme
aventi valore di legge) – è fuori di dubbio che il rendiconto
consuntivo di cui all’art. 81 della costituzione debba comprendere
tutte le somme comunque riscosse ed erogate dalle amministrazioni dello
Stato e che, conseguentemente, il controllo e la giurisdizione della
Corte dei conti concerne ogni riscossione ed ogni spesa delle
amministrazioni stesse.
L’ordinanza è stata ritualmente comunicata, notificata e
pubblicata.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituite le parti
private, rappresentate e difese dagli avvocati Stefano Giagheddu e
Mario Barra Caracciolo, mediante deposito di deduzioni in cancelleria
in data 18 maggio 1966. È pure intervenuto il Presidente del Consiglio
dei Ministri col patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato che ha
depositato atto di intervento e deduzioni in data 29 aprile 1966.
La difesa delle parti private contesta anzitutto che la norma
impugnata violi l’art. 3 della costituzione e, dopo aver richiamato la
costante giurisprudenza della Corte in ordine all’interpretazione del
principio di eguaglianza, afferma che nella legge in esame il
legislatore ha, con chiara evidenza, voluto disciplinare in modo
particolare un complesso di situazioni soggettivamente ed
oggettivamente diverse.
Si sostiene al riguardo che le attività dell’Amministrazione delle
antichità e belle arti hanno un carattere del tutto particolare per le
esigenze alle quali hanno fatto fronte, per il processo storico che le
hanno determinate, per le fonti dei cespiti gestiti, nella maggiore
parte non di pertinenza statale, ed infine per le ragioni psicologiche
e soggettive che hanno indotto i funzionari in parola a soddisfare con
questi mezzi esigenze imprescindibili, cui non sarebbe stato possibile
far fronte con i fondi di bilancio, cronicamente e gravemente
inadeguati.
Infondate – secondo la difesa – sarebbero anche le altre censure
di incostituzionalità. Insussistente quella dell’art. 103, comma
secondo, perché la Corte costituzionale ha già disatteso l’assunto
(sent. n. 17 del 1965) che la giurisdizione della Corte dei conti sia
assoluta ed esclusiva; in ogni caso, a parte questo insegnamento pur
decisivo, non si vede quale incidenza possa avere nella “giurisdizione”
un precetto legislativo che, come quello in esame, riduca il termine di
prescrizione e limiti le ipotesi di responsabilità patrimoniale.
Ininfluenti sarebbero altresì i riferimenti agli artt. 81, comma
primo, 97, comma primo e secondo, e 100, comma secondo della
costituzione.
Rileva la difesa che non può condividersi la tesi sostenuta
nell’ordinanza che “il rendiconto consuntivo debba comprendere tutte le
somme comunque riscosse ed erogate dalle Amministrazioni dello Stato”
osservando in contrario che le gestioni fuori bilancio, proprio perché
tali, sono estranee al bilancio e non vengono comprese né nello stato
di previsione, né nel rendiconto consuntivo;
che le fonti di entrare dello Stato sono tassativamente determinate
con legge mentre praeter legem sono, invece, le somme affluenti alle
gestioni fuori bilancio.
Conclude, pertanto, chiedendo che la Corte voglia dichiarare
l’infondatezza della denunciata questione.
Anche per l’Avvocatura dello Stato la questione di illegittitimità
costituzionale deve ritenersi infondata.
Sul contrasto con il principio di eguaglianza l’Avvocatura osserva
che dal testo della norma impugnata e dalla relazione sul disegno di
legge si desumono con sufficiente chiarezza le peculiarità e i motivi
speciali della situazione alla quale la norma ha inteso provvedere.
Diversità che si sostanziano: a) nella particolare condizione nella
quale sono venuti a trovarsi gli agenti contabili, interessati alle
gestioni fuori bilancio, in relazione all’obbligo di presentazione dei
conti relativi alle gestioni passate, per le quali i conti stessi non
si presentavano, e quindi non sarebbe stato possibile reperire i
documenti giustificativi; b) nella necessità di attenuare la
responsabilità di funzionari che hanno agito quasi sempre in buona
fede per salvare tesori dello Stato di immenso valore culturale ed
economico. Orbene, ad avviso dell’Avvocatura, si tratta nella specie di
valutazione di situazioni speciali con conseguente speciale normazione,
ispirata all’intento di accordare una sanatoria a pregresse obbiettive
irregolarità formali verificatesi per riconosciute esigenze di
servizio.
Per quanto riguarda la pretesa violazione dell’art. 81, primo
comma, della costituzione, l’Avvocatura sostiene che per il nostro
ordinamento il bilancio di previsione dello Stato non contiene “poste”
di entrata e “stanziamenti di spesa” relativi a gestioni fuori bilancio
ed il rendiconto consuntivo non contiene parimenti le somme riscosse ed
erogate dalle Amministrazioni dello Stato al di fuori del bilancio
dello Stato. Se questa è la situazione amministrativa-contabile delle
gestioni fuori bilancio, ne deriva altresì che nella espressione
“gestione del bilancio dello Stato” contenuta nell’art. 100, secondo
comma, della costituzione, con riferimento alla funzione di controllo
successivo della Corte dei conti, non possono comprendersi le gestioni
fuori bilancio che, in effetti, non sono state soggette a quel
controllo.
Sotto il profilo dell’asserita violazione dell’art. 103, secondo
comma, della Costituzione, l’Avvocatura rileva che la concreta
disciplina del controllo giurisdizionale da parte della Corte dei conti
nelle materie di contabilità pubblica ed eventualmente in altre
materie è demandata al legislatore ordinario.
Non essendo le gestioni fuori bilancio in questione – prima della
legge n. 340 del 1965 – previste e disciplinate da norme legislative,
appare chiaro che, per il passato, erano sottratte al controllo della
Corte dei conti. Sotto questo aspetto, l’art. 11 non appare in
contrasto con i precetti costituzionali richiamati nell’ordinanza,
giacché esso estende al passato il controllo della Corte, altrimenti
non esercitabile, in base alla legge stessa, se non per il futuro, in
conseguenza della attrazione di tali gestioni nell’orbita del bilancio
dello Stato, secondo il principio stabilito nell’art. 1 della legge,
mentre il controllo, per il passato, non era stato, comunque,
esercitato dalla Corte stessa. Può quindi affermarsi che l’art. 11 ha
operato una concreta determinazione dei limiti dell’esercizio del
controllo e della giurisdizione della Corte dei conti nella sfera di
discrezionalità spettante al legislatore ordinario, né può imputarsi
alla legge n. 340 del 1965 la precedente assenza di disposizione
legislative circa la disciplina delle gestioni fuori bilancio.
L’Avvocatura pone inoltre in rilievo il carattere transitorio della
norma impugnata osservando che essa non vale per il futuro mentre
numerose sono le norme limitatrici delle responsabilità dei dipendenti
pubblici che valgono, nel nostro ordinamento, in via normale, e cioè
anche per l’avvenire.
Del pari inesistente sarebbe il preteso contrasto con l’art. 97,
primo e secondo comma, della Costituzione perché l’art. 11
costituisce, se mai, un valido mezzo per la normalizzazione, sul piano
della legalità, di una situazione anomala, assicurando il buon
andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. La limitazione della
responsabilità contabile al quinquennio, osserva infine l’Avvocatura,
è conforme anche alle norme ed ai principi di diritto comune circa la
normale conservazione dei documenti giustificativi delle spese:
conclude pertanto per la non fondatezza della questione di legittimità
costituzionale.
1. – La prima censura di incostituzionalità mossa dall’ordinanza
di rinvio all’art. 11 della legge 30 marzo 1965, n. 340, riguarda la
violazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della
Costituzione.
La censura non è fondata.
Dalla relazione al disegno di legge, presentato al Senato nella
seduta del 16 giugno 1964 e dalle successive discussioni parlamentari
(sedute del 15 e 22 ottobre 1964 della VI Commissione del Senato in
sede deliberante), è dato dedurre quale sia lo spirito informatore
della legge in esame e quali siano in particolare le ragioni
giustificatrici delle limitazioni disposte dalla norma denunciata. Si
desume anzitutto da tali atti che i motivi del provvedimento si
riassumono nella urgente necessità di risolvere una situazione
irregolare in cui era venuta a trovarsi l’Amministrazione delle
antichità e belle arti, costretta, nella mancanza di norme e strutture
adeguate e nella persistente scarsezza di fondi di bilancio, a
ricorrere a forme anomale di gestione fuori bilancio per poter
adempiere i suoi compiti istituzionali e soddisfare le complesse e
crescenti esigenze della propria azione in difesa del patrimonio
artistico e paesistico. Il legislatore, peraltro, legittimamente
preoccupato del pregiudizio e dei gravi danni che sul piano scientifico
e culturale sarebbero derivati dalla soppressione pura e semplice delle
predette gestioni, ritenne necessario dettare una disciplina che ne
assicurasse la continuità e pertanto stabilì di ricondurle
nell’ambito del bilancio dello Stato, con la conseguente concreta
applicabilità, per il futuro, degli ordinari controlli previsti dalle
norme sulla contabilità generale dello Stato. L’art. 1 della legge ha
perciò disposto la soppressione di tutte le gestioni non previste da
norme legislative e regolamentari esistenti presso l’Amministrazione
delle antichità e belle arti nonché il versamento in Tesoreria sia
delle somme pertinenti alle predette gestioni, non erogate alla data di
pubblicazione della legge, sia di quelle conseguite dopo tale data.
Per regolare poi tali gestioni per il periodo anteriore all’entrata
in vigore della legge è stato dettato l’art. 11 che limita ad un
quinquennio l’obbligo degli agenti contabili di dare giustificazione
delle loro gestioni mediante la presentazione dei conti giudiziali e
limita inoltre la loro responsabilità e quella degli ordinatori di
spese ai danni arrecati all’Erario imputabili a dolo.
I motivi di questo differenziato trattamento emergono con tutta
evidenza dai citati lavori preparatori nei quali può leggersi che la
norma risponde ad evidenti ragioni di equità vuoi per circostanze di
carattere obbiettivo, quali le particolari ed effettive esigenze di
servizio che dettero vita alle gestioni fuori bilancio e gli indubbi
notevoli vantaggi che esse hanno procurato allo Stato, vuoi di
carattere soggettivo, perché – si afferma – “sarebbe non solo disumano
ma controproducente nell’interesse della collettività se si
continuasse a mantenere nello stato di disagio e apprensione
moltissimi, ottimi funzionari che hanno solo la colpa di avere
anteposto al regolamento di contabilità generale la necessità di
salvare tesori di immenso valore culturale ed economico”.
Il legislatore ha altresì chiarito lo scopo della disposizione
precisando che esso consiste nella sanatoria di irregolarità formali
la quale – lungi dal voler tradurre in norma una situazione
antigiuridica – mira solo a riconoscere le esigenze particolari che
l’hanno provocata e che ne costituiscono la base. Contrariamente a
quanto sostenuto nell’ordinanza può quindi affermarsi che il
legislatore, nella specie, ha voluto dettare, dopo meditate e ponderate
discussioni, una disciplina diversa, implicante un differenziato
trattamento, per regolare situazioni particolari di una speciale
categoria di ordinatori di spese e di contabili. La valutazione di
tali situazioni, per come risulta dall’indagine compiuta, non è
arbitraria ma appare per contro sorretta da criteri logici e razionali,
e ciò è sufficiente per escludere che la norma impugnata urti col
principio di eguaglianza enunciato nell’art. 3 della Costituzione.
2. – Del pari infondate sono le censure di incostituzionalità
sollevate in riferimento agli artt. 81, comma primo, 100, comma
secondo, e 103, comma secondo, della Costituzione.
Per quanto riguarda la pretesa violazione dei primi due precetti
costituzionali la Corte osserva che essi sono indubbiamente ispirati al
principio del controllo del Parlamento e della Corte dei conti su tutta
la gestione finanziaria dello Stato e che per conseguenza nel bilancio
di previsione e nel rendiconto consuntivo dovrebbe essere compresa ogni
entrata ed ogni spesa a qualsiasi titolo introitata ed erogata. Ora,
la legge nella quale è contenuta la norma impugnata, proprio perché
ha ricondotto nell’ambito del bilancio dello Stato le gestioni fuori
bilancio dell’Amministrazione delle antichità e belle arti non
autorizzate da leggi e regolamenti, è da considerarsi conforme al
principio sopra ricordato.
Va peraltro rilevato che la questione di legittimità
costituzionale proposta investe le disposizioni dell’art. 11 che
riguardano i giudizi di conto e di responsabilità amministrativa
relativi alle gestioni fuori bilancio onde più pertinente va ritenuto
il riferimento all’art. 103, comma secondo, della Costituzione che
tratta appunto della giurisdizione della Corte nelle materie di
contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
La norma denunciata ha per di più carattere transitorio giacché
la limitazione al quinquennio dell’obbligo della presentazione dei
conti giudiziali e la limitazione della responsabilità ai danni
imputabili a dolo è stata disposta solo per il periodo precedente
all’entrata in vigore della legge.
Naturalmente la responsabilità per dolo sia degli ordinatori di
spese che degli agenti contabili può essere accertata anche per il
periodo anteriore al quinquennio dato che il diritto al risarcimento si
estingue solo con il decorso del termine ordinario di prescrizione
previsto dal codice civile.
Non è quindi esatta l’affermazione che la norma abbia
completamente sottratto le gestioni fuori bilancio al sindacato
giurisdizionale, ma è vero, per contro, che essa – in via transitoria
e per situazioni meritevoli di un differenziato trattamento – ha
soltanto limitato l’estensione e le modalità di esercizio del potere
giurisdizionale che la Corte dei conti ha nella materia in base alle
comuni norme sulla contabilità generale dello Stato e sull’ordinamento
della Corte. Ed è fuor di dubbio che ciò il legislatore potesse
fare, posto che la disciplina concreta della funzione giurisdizionale
contabile è demandata proprio al legislatore ordinario.
3. – Ha infine rilevato l’ordinanza che la disposizione di cui
trattasi, dispensando i funzionari dello Stato dal dare giustificazione
di somme gestite ed esonerandoli da qualsiasi responsabilità, anche
nella ipotesi di colpa grave, è in contrasto col primo e secondo comma
dell’art. 97 della Costituzione.
Questa Corte ritiene che nessun pregiudizio derivi dalla norma
impugnata ai principi del buon andamento e imparzialità
dell’Amministrazione e della responsabilità dei funzionari. La norma
è, se mai, in armonia con tali principi perché con essa è stata
determinata la responsabilità patrimoniale di una data categoria di
funzionari sia pure nei limiti in cui la responsabilità stessa poteva
essere ammessa in relazione alle obbiettive particolarità della
situazione che il legislatore ha inteso normalizzare.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 11 della legge 30 marzo 1965, n. 340, recante “Norme
concernenti taluni servizi di competenza dell’Amministrazione statale
delle antichità e delle arti”, sollevata con ordinanza 18 gennaio 1966
della Corte dei conti, in riferimento agli artt. 3, comma primo, 81,
comma primo, 97, comma primo e secondo, 100, comma secondo, e 103,
comma secondo, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.
GASPARE AMBROSINI – NICOLA JAEGER –
GIOVANNI CASSANDRO – ANTONIO MANCA –
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.