Sentenza N. 1087 del 1988
Corte Costituzionale
Data generale
13/12/1988
Data deposito/pubblicazione
13/12/1988
Data dell'udienza in cui è stato assunto
30/11/1988
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
promosso con ordinanza emessa il 20 ottobre 1986 dal Pretore di Roma
nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Andreani Norma ed altri
e il Ministero di Grazia e Giustizia, iscritta al n. 73 del registro
ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 11, prima serie speciale, dell’anno 1988;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 12 ottobre 1988 il Giudice
relatore Francesco Greco;
possano ravvisarsi ragionevoli motivi giustificativi del possibile
deteriore trattamento dei lavoratori detenuti (soprattutto per il
lavoro eseguito in semilibertà e per imprese pubbliche o private)
rispetto agli ordinari lavoratori subordinati, attesa la natura non
afflittiva (ex art. 20 l. cit.) del lavoro obbligatoriamente (ma solo
per i condannati ed i sottoposti alle misure di sicurezza della
colonia agricola e della casa di lavoro, e solo “sulla carta”,
poiché risulterebbe che meno della metà dei detenuti abbia la
effettiva possibilità di lavorare e lavori) svolto e considerato che
i detenuti, più ancora degli altri lavoratori, hanno bisogno di
guadagnare per mantenere, oltre che se stessi, la propria famiglia.
In ordine all’art. 23 (in parte de qua abrogato dall’art. 29 della
l. 10 ottobre 1986, n. 663) il Pretore di Roma osserva che la
riduzione della remunerazione ai 7/10 dei 2/3 per detenuti imputati e
condannati, comporta per costoro un compenso pari al 46,67% di quello
corrisposto ai lavoratori esterni con ancora più accentuati effetti
deteriori sotto i già illustrati profili. Ove poi si consideri –
continua l’ordinanza – che la “cassa per il Soccorso e l’Assistenza
alle vittime del delitto” (cui gli altri 3/10 erano destinati) è
stata soppressa con l. n. 641 del 1978, che ha attribuito alle
regioni ed agli enti locali le relative entrate (delle quali solo il
16% è destinato a soddisfare gli stessi fini cui attendeva la Cassa:
v. artt. 119 e 132 d.P.R. n. 616 del 1977), risulta evidente la
natura impositiva della trattenuta, con ulteriore violazione del
parametro di cui all’art. 53, primo comma, Cost.
2. – L’Avvocatura dello Stato, intervenuta per il Presidente del
Consiglio dei ministri, preliminarmente prospetta l’inammissibilità
della questione per non avere il giudice a quo chiarito se i
ricorrenti fossero imputati o condannati e se avessero prestato il
proprio lavoro in favore di altri soggetti ovvero
dell’amministrazione penitenziaria, nel qual ultimo caso soltanto la
retribuzione può essere ridotta.
Nel merito osserva, quanto ai condannati, che l’attività
lavorativa è obbligatoria, onde l’amministrazione deve affrontare
oneri ulteriori rispetto a quelli propri dell’imprenditore, essendo
tenuta ad assicurare il lavoro al di là di ogni valutazione di
convenienza economica; e, inoltre, che il lavoro è elemento
essenziale del trattamento carcerario, da riguardarsi dunque anche
alla luce delle finalità rieducative di cui all’art. 27 Cost. In
ordine ai detenuti in genere, che in tanto l’apposita commissione
può legittimamente fissare una retribuzione inferiore alle tariffe
sindacali in quanto la produttività del lavoro penitenziario sia
inferiore a quella dell’analogo lavoro libero (clima psicologico,
assenze per motivi processuali, scarsa attitudine al lavoro, etc.) e
che l’intento perseguito dal legislatore non è certo volto allo
sfruttamento del lavoro, bensì alla creazione del maggior possibile
numero di posti di lavoro, nell’ambito delle risorse disponibili. Di
tutto ciò costituirebbe sicuro sintomo la previsione di cui all’art.
5 della legge n. 663 del 1986, che autorizza le direzioni degli
istituti penitenziari a vendere sotto costo i prodotti delle
lavorazioni.
Quanto alle censure mosse alla disposizione di cui all’art. 23 l.
n. 354 del 1975, l’Avvocatura preliminarmente riconosce la rilevanza
della questione per la non retroattività della sua intervenuta
abrogazione, sostenendo la legittimità della detrazione per i
condannati (per gli imputati l’accantonamento è provvisorio) secondo
quanto riconosciuto anche dal Consiglio di Stato nel parere n. 1315
del 1984, e la totale destinazione dei proventi al perseguimento
delle funzioni già prima espletate dalla Cassa (art. 119, d.P.R. n.
616 del 1977).
Per quanto concerne le censure mosse all’art. 22 della legge n.
354/75, può sostenersi la infondatezza della questione.
Va, anzitutto, rilevato, al riguardo, che il lavoro dei detenuti
ha una specifica finalità, quella della rieducazione di cui all’art.
27 Cost., che lo colloca fuori della logica economica dell’ordinario
lavoro subordinato.
Del resto, premesso che una corretta interpretazione della norma
in questione induce ad escludere che essa possa applicarsi al lavoro
prestato in favore di datori di lavoro privati o pubblici diversi
dall’amministrazione penitenziaria, va considerato che la stessa
amministrazione ha l’obbligo di assicurare il lavoro ai condannati, e
deve, comunque, favorire la destinazione al lavoro di tutti i
detenuti, anche, quindi, ove essi abbiano scarsa capacità
lavorativa.
A ciò si aggiunga che non sempre i detenuti garantiscono la
continuità nella prestazione di lavoro, a causa, ad esempio, delle
esigenze di allontanamento collegate a motivi processuali, dei
colloqui con i familiari ed altro.
La disposizione censurata, pertanto, non determina una disparità
di trattamento irragionevole tra situazioni obiettivamente uguali ma
si limita ad autorizzare la fissazione, da parte dell’apposita
commissione, di una remunerazione inferiore – peraltro entro un
limite predeterminato, sì da escludere anche la fondatezza del
riferimento al parametro costituzionale dell’art. 36 Cost., tenuto
anche conto delle esigenze di vita del detenuto – alle tariffe
sindacali.
Quanto alle censure mosse all’art. 23 della legge n. 354, la
questione potrebbe essere fondata.
Infatti, in seguito alla soppressione della Cassa per il soccorso
alle vittime del delitto, disposta con legge n. 641 del 1978, la
ritenuta di cui all’art. 23 della legge n. 354 del 1975 è andata a
far parte delle entrate dei Comuni destinate in generale alla
beneficenza pubblica, di cui solo uno degli aspetti è costituito
dall’assistenza alle vittime dei reati.
In tal modo si è realizzata una forma di prelievo coattivo nei
confronti dei detenuti lavoratori per le esigenze della spesa
pubblica, posta a carico dei soli detenuti (e, fra costoro, solo di
quelli che prestano attività lavorativa) e non anche di tutti gli
altri cittadini, con duplice violazione del disposto dell’art. 53
Cost., in riferimento sia al principio dell’uguale trattamento
impositivo, sia a quello secondo cui l’imposta deve essere
proporzionata alla capacità contributiva di ciascuno, mentre nel
caso di specie si prescinde dalla considerazione delle effettive
disponibilità economiche del detenuto lavoratore.
dell’art. 22, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà):
A) nella parte in cui prevede che la mercede dei lavoratori
detenuti possa essere inferiore, anche se entro il limite minimo dei
due terzi, rispetto al trattamento economico previsto dai contratti
collettivi di lavoro;
B) dell’art. 23 della stessa legge n. 354 del 1975 nella parte
in cui prevede che la remunerazione corrisposta per il lavoro è
determinata nella misura di sette decimi della mercede per gli
imputati e condannati, mentre gli altri tre decimi sono versati alle
Regioni e agli enti locali, a seguito della soppressione della Cassa
per il soccorso e l’assistenza alle vittime del delitto (legge 21
ottobre 1978, n. 641) alla quale precedentemente erano erogati.
Il giudice a quo ritiene che risulterebbero violati gli artt. 3 e
36 Costit. in quanto, non essendovi alcuna differenza tra il lavoro
svolto dai detenuti e il lavoro subordinato ordinario, e sopratutto
tra il lavoro eseguito in semilibertà e quello svolto in favore di
imprese pubbliche e private, non è né ragionevole né giustificata
la sussistente disparità di trattamento dei primi rispetto agli
altri lavoratori, tanto più che il detenuto che lavora deve
soddisfare i bisogni suoi e della sua famiglia con i proventi del suo
lavoro.
Inoltre, l’art. 23 in esame contrasterebbe non solo con l’art. 36
Cost., per la riduzione operata alla remunerazione del detenuto
lavoratore, ma anche con gli artt. 53, primo comma, e 3 Cost. in
quanto, a seguito della soppressione della Cassa per il soccorso e
l’assistenza alle vittime del delitto, le somme trattenute
finanzierebbero in gran parte funzioni ammimistrative proprie delle
Regioni e degli Enti locali e solo in minima parte i medesimi fini
cui attendeva la soppressa Cassa, sicché la trattenuta, divenuta di
natura impositiva, non risulterebbe adeguata alla capacità
contributiva degli obbligati e per giunta colpirebbe solo i detenuti
lavoratori e non tutti i cittadini onde la sussistenza di una
ingiustificata disparità di trattamento.
2. – La questione sub A non è fondata.
Si considera, anzitutto, che il lavoro prestato dai detenuti è
uno strumento per la loro redenzione ed il loro riadattamento alla
vita sociale; non è un elemento di espiazione della pena ma è un
metodo di trattamento.
È infatti testualmente stabilito che il lavoro penitenziario non
ha carattere afflittivo ed è remunerato (art. 20 L. 26 luglio 1975
n.354), pur essendo obbligatorio per i condannati ed i sottoposti
alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di
lavoro.
Negli istituti penitenziari deve essere favorita in ogni modo la
destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati.
Tuttavia, le condizioni attuali della organizzazione penitenziaria
e degli stabilimenti non danno a tutti i detenuti la possibilità di
svolgere un lavoro secondo le loro capacità e attitudini.
Quelli che lavorano sono solo una minima parte di essi.
Comunque, si verificano almeno tre situazioni:
a) quella del detenuto che si trova in semilibertà e lavora
fuori dello stabilimento;
b) quella del detenuto che lavora alle dipendenze di imprese
private sotto il diretto controllo della direzione dell’istituto a
cui il detenuto o l’internato è assegnato;
c) quella del detenuto che lavora all’interno dello stabilimento
carcerario, alla diretta dipendenza dell’amministrazione
penitenziaria.
La questione sollevata riguarda solo quest’ultima situazione. Né
vi è omogeneità tra essa e le altre due situazioni, non potendosi
dubitare che il rapporto che ivi si instaura è disciplinato dal
diritto comune negli elementi essenziali tra cui la retribuzione, pur
ritenendosi che, in ogni caso, il lavoro del detenuto è un diritto.
In particolare, per quanto riguarda il lavoro svolto nello
stabilimento alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, la
fattispecie ha delle proprie peculiarità che incidono profondamente
sulla struttura del rapporto e sui suoi elementi essenziali.
Il rapporto trae origine da un obbligo legale e non da un libero
contratto; ha una propria particolare regolamentazione tra cui
assumono rilievo le qualità delle parti: quella del lavoratore che
è un detenuto e quella del datore di lavoro che è l’amministrazione
penitenziaria. Ma sopratutto rilevano le finalità da raggiungere: la
redenzione ed il riadattamento del detenuto alla vita sociale;
l’acquisto o lo sviluppo dell’abitudine al lavoro e della
qualificazione professionale che valgono ad agevolare il
reinserimento nella vita sociale.
Dette finalità sono assolutamente prevalenti.
L’amministrazione non si prefigge né utili né guadagni; si
avvale di una mano d’opera disorganica, a volte non qualificata,
disomogenea, variabile per le punizioni ed i trasferimenti da
stabilimento a stabilimento; i prodotti non sono sempre curati e
sempre rifiniti; essi, il più delle volte, si vendono sottocosto.
Il compenso previsto per le prestazioni non si denomina
retribuzione ma o remunerazione o mercede, determinata con una
procedura particolare.
È infatti stabilita con atto amministrativo da parte di una
apposita commissione, variamente composita, della quale però fanno
parte anche delegati di ciascuna delle organizzazioni sindacali più
rappresentative sul piano nazionale.
Tuttavia, per quanto non possa ritenersi che tale genere di lavoro
sia del tutto identico, specie per la sua origine, per le condizioni
in cui si svolge, per le finalità cui è diretto e che deve
raggiungere, non può assolutamente affermarsi che esso non debba
essere protetto specie alla stregua dei precetti costituzionali
(artt. 35 e 36 Cost.).
Peraltro, una remunerazione di gran lunga inferiore alla normale
retribuzione sarebbe certamente diseducativa e controproducente; il
detenuto non troverebbe alcun incentivo ed interesse a lavorare e, se
lavorasse egualmente, non avrebbe alcun interesse ad una migliore
qualificazione professionale.
Gran parte delle finalità attribuite al lavoro carcerario
sarebbero frustrate e vanificate.
Il che in concreto non è alla stregua della legislazione in
esame.
Infatti, la norma censurata stabilisce anzitutto il principio
della equa remunerazione. Essa sancisce che la mercede per ciascuna
categoria di lavoratori è equitativamente stabilita. Inoltre, sono
specificamente richiamati i contenuti del precetto costituzionale
(art. 36 cost.). Si prevede, infatti, che la mercede debba essere
determinata in relazione alla quantità ed alla qualità del lavoro
effettivamente prestato, alla organizzazione ed al tipo di lavoro del
detenuto. Infine, si prende in considerazione il trattamento previsto
dai contratti collettivi.
Vero è che è stabilito un trattamento minimo non inferiore ai
due terzi del salario previsto da quest’ultimi, ma trattasi solo di
una determinzione nel minimo, mentre non può escludersi l’osservanza
del criterio della relazione con la quantità e la qualità del
lavoro prestato e nemmeno possono trascurarsi, secondo il precetto
costituzionale, i bisogni della famiglia di chi lavora.
Infine, non può del tutto escludersi che, trattandosi di un
diritto soggettivo, il lavoratore possa adire, come nella specie, il
giudice del lavoro il quale può disapplicare l’atto determinativo
della mercede se importi violazione dei surrichiamati precetti
costituzionali.
Per la questione sub B, si rileva che l’art. 23 della legge n. 354
del 1975, dopo una prima modificazione da parte della legge 21
ottobre 1978, n. 641, che ha soppresso la Cassa per il soccorso e
l’assistenza alle vittime del delitto, è stato abrogato dall’art. 29
della legge 10 ottobre 1986, n. 663.
Pertanto, gli atti vanno restituiti al giudice a quo per una nuova
valutazione della questione alla stregua dell’attuale stato della
legislazione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 22 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà) sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 36 Cost., dal Pretore di Roma con la ordinanza in epigrafe;
Ordina la restituzione degli atti al Pretore di Roma per la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 23 della stessa
legge n. 354 del 1975, sollevata, in relazione agli artt. 3 e 36,
primo comma, e 53 Cost., con la stessa ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 1988.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: GRECO
Il cancelliere: MINELLI
Depositato in cancelleria il 13 dicembre 1988.
Il direttore della cancelleria: MINELLI