Sentenza N. 109 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
12/07/1967
Data deposito/pubblicazione
12/07/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/06/1967
NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Dott. ANTONIO MANCA – Prof.
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ- Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI, Giudici,
primo, secondo e terzo comma, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270,
“Legge tributaria sulle successioni”, promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 22 febbraio 1966 dalla Corte d’appello di
Milano nel procedimento civile vertente tra Russo Mario e
l’Amministrazione delle finanze dello Stato, iscritta al n. 60 del
Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966;
2) ordinanza emessa il 17 maggio 1966 dalla Commissione provinciale
delle imposte dirette ed indirette di Napoli su ricorso di Schiano
Giuseppe contro l’Ufficio del registro di Ischia, iscritta al n. 211
del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 299 del 26 novembre 1966.
Visti gli atti di costituzione di Russo Mario e
dell’Amministrazione delle finanze dello Stato e l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 18 maggio 1967 la relazione del
Giudice Giuseppe Verzì;
uditi l’avv. Bruno Positano de Vincentiis, per il Russo, e il
sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il
Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Amministrazione delle finanze
dello Stato.
Nella causa civile vertente fra Russo Mario e la Amministrazione
delle finanze dello Stato in merito, tra l’altro, alla validità o meno
dell’inventario notarile dei beni appartenenti alla defunta Angela
Maino in Negri, ai fini dell’applicabilità del terzo comma dell’art.
31 della legge tributaria sulle successioni approvata con R.D. 30
dicembre 1923, n. 3270, la Corte d’appello di Milano, con ordinanza del
22 febbraio 1966, ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale del primo comma dell’anzidetto art. 31, in relazione
all’art. 53 della Costituzione.
Secondo l’ordinanza, la norma – che impone una presunzione assoluta
di esistenza, nel patrimonio ereditario, di gioielli, denaro e mobili
per un valore fisso e predeterminato in percentuale dell’intero asse
ereditario – sarebbe incompatibile col principio costituzionale dettato
dall’art. 53, per il quale ogni cittadino è tenuto a contribuire alle
spese dello Stato non secondo astratte, e perciò arbitrarie
presunzioni imposte da disposizioni sottordinate, ma secondo la sua
reale e concreta capacità contributiva.
L’ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14
maggio 1966.
Nel presente giudizio si sono costituiti il sig. Russo Mario
assistito e difeso dagli avvocati Bernardo Pocherra e Bruno Positano de
Vincentiis, e l’Amministrazione delle finanze dello Stato rappresentata
e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato.
La difesa del Russo sostiene che il criterio presuntivo della
esistenza di una quantità di beni che contribuiscono alla formazione
di una ricchezza colpita da imposta, non aderisce al concetto di
rapporto fra capacità contributiva ed obbligazione di imposta, quale
è stato chiarito dalle sentenze di questa Corte.
C’è contrasto fra la sussistenza di un indice effettivo di
capacità contributiva e la presunzione valutativa di una ricchezza,
che di fatto potrebbe non esservi. In sostanza, l’effetto della
presunzione sarebbe quello di fare aumentare il patrimonio accertato di
un valore pari al 7,10 per cento e di creare perciò fittiziamente una
capacità contributiva diversa da quella che nell’erede si determina in
forza della successione.
La medesima questione è stata proposta d’ufficio dalla
Commissione provinciale delle imposte dirette ed indirette di Napoli,
la quale con ordinanza del 17 maggio 1966, ha eccepito la
illegittimità costituzionale del primo, del secondo e del terzo comma
dell’art. 31 della legge tributaria sulle successioni, in riferimento
agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Secondo l’ordinanza la norma impugnata opera una ingiustificata
discriminazione fra i cittadini che ricevono per successione ereditaria
una azienda industriale, commerciale od agricola – dovendosi in tal
caso calcolare la percentuale relativa alla esistenza di gioielli,
denaro e mobilia sul valore dell’azienda al netto delle passività – ed
i cittadini che ereditano altri beni, dei quali si tiene conto del
valore lordo per il calcolo di detta percentuale.
In riferimento all’art. 53, la stessa ordinanza osserva che –
secondo la giurisprudenza di questa Corte – per determinare l’imposta
che si può esigere da ciascun obbligato deve farsi capo ad un indice
effettivo, costituito dalla capacità contributiva reale del soggetto,
e non da quella fittizia, derivante da una presunzione di legge.
L’ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 26
novembre 1966.
Nel presente giudizio non vi è stata costituzione delle parti, ma
è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
In riferimento all’art. 53 della Costituzione, l’Avvocatura osserva
che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la capacità
contributiva, intesa come idoneità a corrispondere la prestazione
coattivamente imposta, deve porsi in relazione non già con la concreta
capacità di ciascun contribuente, ma piuttosto con il presupposto al
quale la prestazione stessa è collegata e con gli elementi essenziali
dell’obbligazione tributaria. Il riferimento del presupposto alla sfera
dell’obbligato deve risultare da un collegamento effettivo, mentre ad
un indice effettivo deve farsi capo, per determinare la quantità di
imposta che da ciascun obbligato si può esigere. Tutti questi
requisiti ricorrono nella disposizione del primo comma dell’art. 31, la
quale ancora la prova legale – qual’è la presunzione legale juris
tantum in contestazione – a ragionevoli e predeterminate percentuali
del valore dei beni ereditati.
Né è esatto che si finisce col dare una base fittizia alla
imposizione, quando la determinazione dell’esistenza del ripetuto
presupposto sia vincolata in tutto in parte ad un sistema di prove
legali.
In riferimento poi al principio di eguaglianza, non sussiste –
sempre a parere dell’Avvocatura dello Stato – alcuna differenza di
trattamento nella valutazione delle aziende e degli altri beni caduti
in successione. Ed invero, il valore di qualunque bene, diverso
dall’azienda, è quello suo proprio, come stabilito, nel modo di
determinazione, dal legislatore ai fini dell’imposta di successione
(valore venale in comune commercio), essendo irrilevante, nei suoi
confronti, il passivo ereditario, che si ricollega ad unità soltanto
sotto il profilo subiettivo. Al contrario, il valore di una azienda non
può essere costituito che dalla differenza fra attivo e passivo. Di
conseguenza, il sistema adottato dalla legge tributaria sulle
successioni, lungi dal violare il principio di uguaglianza, lo attua.
1. – Le due ordinanze prospettano le medesime questioni di
legittimità costituzionale, e pertanto i due procedimenti possono
essere riuniti e definiti con unica sentenza.
2. – Dopo che la sentenza di questa Corte n. 69 del 1965 ha
dichiarato l’illegittimità del primo e del secondo comma dell’art. 31
del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, limitatamente alla esclusione delle
aziende agricole dal trattamento disposto per quelle industriali e
commerciali, ed ha pertanto lasciato in vigore la restante disciplina
dettata da tale articolo, e dopo che la legge 31 ottobre 1966, n. 948,
eliminando ogni disparità, ha disposto che tanto per le aziende
agricole quanto per quelle industriali o commerciali il computo della
percentuale relativa alla presunta esistenza di mobili, gioielli e
denaro sia effettuato in base al valore della azienda al netto delle
passività, l’ordinanza della Commissione delle imposte dirette ed
indirette di Napoli prospetta sotto altro profilo la violazione del
principio di eguaglianza, assumendo che sussiste una ingiustificata
disparità di trattamento tra i cittadini, i quali ricevono per
successione una azienda e quelli che ereditano beni di altra natura,
dal momento che, ai fini del cennato computo, le aziende vengono
valutate al netto delle passività e gli altri beni al lordo.
3. – Sotto questo profilo, la questione non è fondata. L’imposta
che colpisce il trasferimento della ricchezza in occasione di morte
deve essere – per principio generale e per espressa disposizione
dell’art. 34 della legge tributaria sulle successioni – commisurata al
valore venale in comune commercio dei beni ereditati. Ed il diverso
modo di calcolare il valore venale giustifica pienamente la differenza
nel trattamento tributario, essendo certo – come esattamente rileva
l’Avvocatura generale dello Stato – che il valore dell’azienda non
potrebbe essere calcolato in modo diverso da quello disposto dalla
norma impugnata. Ed invero l’azienda, nel suo carattere unitario, è
costituita da un complesso di attività (beni, avviamento, crediti,
ecc.) alle quali fa riscontro un complesso di passività (spese,
perdite, debiti, ecc.) non separabili dal movimento degli affari di
cui essa è costituita, sicché il valore si riduce alla differenza fra
attivo e passivo. Del tutto differente appare la situazione nel
trasferimento di beni di diversa natura, nei quali le passività,
ricollegate al patrimonio soltanto sotto l’aspetto soggettivo, non
hanno vera rilevanza nella stima del valore intrinseco del bene.
4. – Parimenti infondata appare anche l’altra questione sollevata
tanto dall’ordinanza della Corte d’appello di Milano quanto dalla
suindicata Commissione provinciale delle imposte, in riferimento al
principio costituzionale della capacità contributiva dei soggetti
obbligati al tributo: secondo le ordinanze la presunzione della
esistenza di beni, che di fatto potrebbero non trovarsi nel patrimonio
del de cuius, darebbe una base fittizia alla imposizione tributaria e
prescinderebbe da un indice sicuro ed effettivo di ricchezza.
La Corte rileva che la disposizione impugnata è fondata sulla
comune esperienza e risponde a principi di logica tanto rilevanti da
legittimare la certezza giuridica della esistenza dei beni; e che,
altresì, data la natura di essi facilmente occultabili, sfuggenti a
qualsiasi accertamento fiscale e di valore difficilmente valutabile,
sussisteva per il legislatore la necessità di rendere precisa la
pretesa tributaria, sollecita la riscossione del tributo e vano ogni
tentativo di evasione.
Della presunzione suindicata si è avvalso il legislatore, con un
precetto impositivo, avente lo scopo di eliminare contrasti e di dare
certezza e semplicità al rapporto tributario. Senza indagare in questa
sede se trattasi di presunzione assoluta oppur no, il che è
inconferente ai fini che qui interessano, importa invece affermare che
essa rappresenta una verità giuridica avente come substrato fatti
reali di difficile accertamento.
Né si può ritenere violato il principio della capacità
contributiva allorquando la legge pone a presupposto della obbligazione
tributaria il trasferimento della ricchezza a causa di morte, e fa
riferimento ad un indice effettivo e concreto quale è quello del
patrimonio ereditario. Per altro, la norma impugnata presenta analogia
con quella che è stata oggetto della sentenza n. 50 del 1965, nella
quale si è affermato che “nei casi in cui la legge ancora ad un
sistema di prove legali la determinazione della esistenza del
presupposto dell’obbligazione tributaria e della sua entità, non viola
il principio della capacità contributiva del singolo obbligato”.
5. – Dimostrata la legittimità della presunzione relativa alla
esistenza dei beni, perde ogni rilevanza il fatto che la percentuale
imponibile sia calcolata sul valore lordo o su quello netto, essendo
questa una circostanza che si risolve soltanto sul quantum della
imposta e riflette quindi un campo in cui il legislatore ha poteri
discrezionali, sempre che ne usi razionalmente.
E non si può negare che la percentuale del 7,10 determina un
imponibile proporzionato alla maggiore o minore ricchezza trasferita
all’erede, ed è contenuta entro limiti prudenti e ragionevoli.
Infine è inesatto che la norma impugnata finisce col maggiorare
del 7,10 per cento il patrimonio ereditario, ove si consideri che
esistono in realtà, in misura più o meno apprezzaile, beni mobili non
denunziati e pur soggetti al tributo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
del primo, secondo e terzo comma dell’art. 31 del R.D. 30 dicembre
1923, n. 3270, “legge tributaria sulle successioni” sollevata in
riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione con ordinanze del 22
febbraio 1966 della Corte d’appello di Milano e del 17 maggio 1966
della Commissione provinciale delle imposte dirette ed indirette di
Napoli.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.
GASPARE AMBROSINI – NICOLA JAEGER –
GIOVANNI CASSANDRO – ANTONIO MANCA –
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.