Sentenza N. 109 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
26/05/1971
Data deposito/pubblicazione
26/05/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/05/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
17 agosto 1957, n. 843, nella parte che ha reso esecutivo in Italia
l’art. 12 dell’Accordo italo-libico del 2 ottobre 1956, promosso con
ordinanza emessa il 29 aprile 1969 dalla Corte d’appello di Catania nel
procedimento civile vertente tra Giacomazzo Michele e l’Istituto
nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 278 del registro
ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 200 del 6 agosto 1969.
Visti gli atti di costituzione di Michele Giacomazzo e d’intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 marzo 1971 il Giudice relatore
Ercole Rocchetti;
uditi l’avv. Benedetto Bussi, per il Giacomazzo, ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Cesare Soprano, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Giacomazzo Michele, cittadino italiano dipendente di società
telefoniche esercenti in Libia, era assicurato presso l’INPS e
risiedeva nella ex colonia sin dal 1936.
Rimastovi anche dopo la fine della guerra e il passaggio di
sovranità, vi risiedeva ancora alla data del 1 luglio 1957, sotto la
quale, iniziando la sua attività l’INAS, ente libico di assicurazioni
sociali, l’INPS, per effetto dell’Accordo italo-libico del 2 ottobre
1956 (reso esecutivo in Italia con legge 17 agosto 1957, n. 843),
cessò la sua attività nel territorio e cedé all’INAS le posizioni
assicurative dei cittadini italiani ancora colà residenti.
Nell’Accordo, e più specificatamente nella nota di pari data e
nell’allegato contrassegnato con la lettera Q, mentre per i cittadini
italiani, sempre a quella data residenti in Libia e che già fruivano
di pensione dell’INPS, si stabiliva che il nuovo ente libico avrebbe
dovuto praticare un trattamento non inferiore a quello in atto, per
coloro invece che, come il Giacomazzo, non avevano ancora liquidata la
loro posizione assicurativa, si stabiliva che essi avrebbero goduto
“dei benefici previsti dalla nuova legge libica”, che, alla data
dell’Accordo non era stata ancora emanata.
Poiché il trattamento pensionistico determinato dalla legge libica
è stato poi inferiore a quello praticato dall’INPS, il Giacomazzo, che
asserisce avrebbe avuto diritto, in base alla legge italiana, a una
pensione mensile di circa 50.000 lire, ebbe a riceverne dall’ente
libico solo una pari a lire italiane 13.333 e cioè per un importo
persino inferiore al minimo di pensione INPS.
Nel porre in certo modo rimedio alla condizione nella quale sono
venuti a trovarsi i nostri concittadini in base all’intervenuto
trasferimento delle loro posizioni assicurative all’ente libico, sono
stati poi emanati dallo Stato italiano i due provvedimenti legislativi
12 agosto 1962, n. 1338, e 27 aprile 1968, n. 488, che hanno disposto
in loro favore la concessione di un assegno integrativo sino
all’ammontare delle nostre pensioni minime, pari a lire 18.000 mensili.
Il Giacomazzo, lamentando di essere stato danneggiato da tale
situazione, ha convenuto in giudizio l’INPS avanti al tribunale di
Siracusa per chiedere il pagamento di una integrazione mensile fra la
somma che egli percepisce in Libia e l’ammontare della intera pensione
che gli sarebbe spettata in Italia in base ai contributi versati.
Pervenuta la causa, in grado di appello, avanti la Corte di
Catania, questa, con ordinanza 29 aprile 1969, ha sollevato questione
di costituzionalità sull’art. 2 della legge 17 agosto 1957, n. 843
(che ha reso esecutivo in Italia l’art. 12 dell’Accordo con la Libia,
concluso in Roma il 2 ottobre 1956 e la nota 2 ottobre 1956), nella
parte che concerne il trasferimento all’Istituto libico delle
assicurazioni sociali delle obbligazioni derivanti dalle posizioni
assicurative acquisite nei confronti dell’INPS dai cittadini italiani
residenti in Libia alla data del 1 luglio 1957.
Secondo l’ordinanza, tali clausole dell’Accordo avrebbero violato:
1) l’art.38, secondo comma, in collegamento con l’art. 2 della
Costituzione, perché avrebbero trasferito la posizione assicurativa di
cittadini italiani a un ente straniero, sottraendoli così alla
normativa e alla tutela del nostro ordinamento giuridico, senza per
altro pattuire l’obbligo per l’ente libico di corrispondere loro
assegni di pensione non inferiori a quelli che l’INPS pratica in Italia
per i suoi assicurati, e rendendo in tal modo il loro trattamento
inadeguato alle loro esigenze di vita;
2) l’art. 3, primo comma, della Costituzione, perché avrebbero
usato ai cittadini italiani residenti ancora in Libia al 1 luglio 1957
un trattamento differenziato e deteriore rispetto a quello usato ad i
già rimpatriati a quella data, la cui posizione assicurativa non è
stata ceduta.
L’ordinanza è stata ritualmente notificata, comunicata e
pubblicata.
Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito il Giacomazzo il
quale, con atto del 26 agosto 1969 e con successiva memoria, ha chiesto
che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma
denunciata, deducendo sostanzialmente le stesse censure prospettate
nell’ordinanza di rinvio.
È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri
a mezzo della Avvocatura generale dello Stato che, con deduzioni del 26
agosto 1969, ha chiesto che la Corte dichiari infondata la questione di
legittimità costituzionale proposta dalla Corte d’appello di Catania.
Dopo aver ricordato che l’Accordo stipulato tra l’Italia e il Regno
di Libia il 2 ottobre 1956 costituisce l’adempimento di un obbligo
assunto dallo Stato italiano con il Trattato di pace e l’attuazione di
una Risoluzione delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950, l’Avvocatura
osserva che tutte le disposizioni, comprese quelle impugnate, in esso
contenute, hanno lo scopo di definire e disciplinare i complessi
rapporti nascenti dal passaggio del territorio dalla sovranità dello
Stato italiano a quella del Regno di Libia, anche in relazione ai
cittadini italiani che hanno continuato a risiedere nei territori della
ex colonia.
Si rileva in proposito che il trasferimento all’ente libico delle
posizioni assicurative dei lavoratori italiani non è stato certo
predisposto al fine di sottrarre quei lavoratori alla normativa
assistenziale e previdenziale dello Stato italiano, per affidarli,
senza la previsione di specifiche garanzie, alla tutela di uno Stato
estero, ma costituisce il frutto di un’azione diplomatica diretta a
tutelare proprio gli interessi dei cittadini italiani residenti in
Libia, i quali, a causa del passaggio del territorio sotto la
sovranità del Regno di Libia, non avrebbero potuto continuare ad
essere assicurati con l’INPS.
Da questo punto di vista, secondo l’Avvocatura, dovrebbe essere
ritenuta priva di fondamento la questione di legittimità dedotta nella
ordinanza in esame.
In udienza le parti hanno ulteriormente illustrato le contrapposte
tesi difensive.
1. – Forma oggetto del presente giudizio la legge 17 agosto 1957,
n. 843, che ha reso esecutivo in Italia l’Accordo italo-libico concluso
in Roma il 2 ottobre 1956, nella parte in cui (art. 12 e nota del detto
Accordo) ha disposto “il trasferimento all’Istituto libico di
assicurazioni sociali delle obbligazioni derivanti dalle posizioni
assicurative acquisite nei confronti dell’INPS dai cittadini italiani
residenti in Libia alla data del 1 luglio 1957” sotto la quale
quell’Istituto iniziò il suo funzionamento.
Secondo l’ordinanza di rimessione, le norme autorizzanti il
trasferimento delle dette posizioni assicurative, rendendo possibile da
parte dello Stato libico il pagamento ai cittadini italiani di assegni
di pensione uguali a quelli concessi ai propri cittadini, anche se
inferiori ai minimi praticati in Italia dall’INPS, avrebbero violato
gli artt. 38, secondo comma, 2 e 3, primo comma, della Costituzione.
2. – Quanto alla censura concernente l’art. 38, secondo comma, si
deduce più specificatamente nell’ordinanza che la violazione è posta
in evidenza dal danno cagionato ai cittadini italiani che, a causa
della cessione a un ente straniero delle loro posizioni assicurative,
sono stati privati della normativa e della tutela dell’ordinamento
nazionale, e sono stati così costretti a ricevere un trattamento
pensionistico inferiore a quello cui avrebbero avuto diritto ed
inadeguato alle loro esigenze di vita.
La questione non è fondata.
Si osserva in proposito che l’anzidetto trasferimento all’Ente
libico delle posizioni assicurative dei cittadini italiani rimasti a
risiedere e lavorare nella ex colonia, è stato determinato dalla
impossibilità per lo Stato italiano di mantenere in funzione nella
Libia, divenuta sin dal 1947, per effetto del Trattato di pace, uno
Stato indipendente e sovrano, i nostri Enti di assicurazioni sociali,
dopo che esso aveva creato un proprio organismo per assolvere quei
compiti nei confronti di tutti i residenti nel suo territorio.
Dal che non conseguiva che le posizioni assicurative dei cittadini
italiani esistenti presso l’INPS dovessero essere di necessità cedute,
perché esse avrebbero potuto anche rimanere acquisite in Italia, ma
senza possibilità di ulteriore accrescimento, in quanto i contributi
successivi di coloro che restavano a lavorare in Libia dovevano
affluire non più all’INPS, ma all’Ente assistenziale libico, a far
tempo dalla data dell’inizio della sua attività.
Il che non sarebbe stato di certo vantaggioso per i lavoratori
italiani; fra i quali una parte almeno, da presumersi preponderante
perché costituita dagli appartenenti alle classi più giovani, non
poteva avere acquisito presso l’INPS accreditamenti sufficienti ai fini
del conseguimento dei benefici assicurativi e, perciò, traeva
giovamento dalla unificazione della posizione assicurativa anteriore
con quella che veniva a crearsi nel Paese di residenza.
D’altra parte, la clausola dell’Accordo che – recepita nella legge
di esecuzione – ciò prevedeva, oltre ad aderire alla situazione
determinatasi dal passaggio di sovranità, si ispirava alla legittima
presunzione che i cittadini italiani rimasti a lavorare in Libia alla
data del 1 luglio 1957, a distanza cioè di tanti anni da quando
avevano perduto la qualità di cittadini risiedenti in colonia ed
acquisita quella di lavoratori operanti in paese straniero, vi
sarebbero restati a risiedere pure per l’avvenire, tenendo conto anche
del fatto che molti di loro vi erano addirittura nati.
La detta clausola non presentava perciò alcun aspetto che
contrastasse a principi di giustizia e di razionalità quanto al
disposto trasferimento delle posizioni assicurative dei nostri
concittadini all’Ente libico e alla conseguente loro perdita della
tutela delle nostre leggi e delle nostre istituzioni.
È però avvenuto che la Libia, nelle sue leggi in materia di
assicurazioni sociali, alla data dell’Accordo italo-libico non ancora
emanate, abbia poi determinato l’ammontare degli assegni di pensione in
misura notevolmente inferiore a quella praticata in Italia, sino al
punto da attribuire a un lavoratore, che – come quello che ha promosso
il giudizio a quo – avesse versato pressoché il massimo delle
contribuzioni, una pensione inferiore di circa un terzo alla minima
delle pensioni corrisposte in Italia.
In proposito la censura di violazione dell’art. 38, secondo comma,
si appunta sulla mancata corresponsione ai cittadini italiani rimasti
in Libia di un trattamento pensionistico idoneo a fornire ad essi
“mezzi adeguati alle loro esigenze di vita”.
Ma la censura non ha fondamento perché non può essere riferito
allo Stato italiano quanto successivamente intervenuto ad opera dello
Stato libico dopo il trasferimento delle posizioni assicurative dei
nostri connazionali all’Ente libico: infatti, per le ragioni avanti
enunciate, quel trasferimento deve ritenersi legittimamente operato e
la norma che l’ha disposto immune da censure sul piano costituzionale.
Né va taciuto che lo Stato italiano, successivamente
all’intervenuta sistemazione delle loro posizioni assicurative, è
venuto ancora incontro alle necessità dei nostri lavoratori di Libia,
disponendo in loro favore, con i due provvedimenti legislativi n. 1338
del 1962 e n. 488 del 1968, l’integrazione delle loro pensioni sia pure
sino alla misura minima di quelle italiane.
3. – Insieme con la violazione dell’art. 38, secondo comma,
l’ordinanza deduce quella dell’art. 2 della Costituzione, ritenendo che
il diritto a conseguire mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in
caso di invalidità e di vecchiaia rientri fra i diritti inviolabili
dell’uomo.
La questione non è fondata.
A prescindere da ogni altra considerazione sulla classificabilità
di un diritto, solo perché costituzionalmente garantito, fra i diritti
inviolabili dell’uomo, fondandosi l’eccezione sugli stessi motivi
dedotti a sostegno della censura che investe l’articolo 38, secondo
comma, altro non occorre aggiungere per ritenerne la infondatezza.
4. – Viene infine dedotta nell’ordinanza la violazione dell’art.
3, primo comma, della Costituzione perché le norme impugnate avrebbero
usato ai cittadini italiani residenti in Libia al 1 luglio 1957 un
trattamento diverso e deteriore rispetto a quello praticato ai già
rimpatriati a quella data, rimasti assicurati con l’INPS e aventi
perciò diritto ad assegni di pensione di importo maggiore.
Ma nemmeno questa censura può ritenersi fondata: la differenza di
trattamento deriva da una circostanza di fatto che, come tale, non
rileva in questa sede, dovendosi anche tener conto che la data
discriminante non era assunta arbitrariamente, ma coincideva con quella
dell’inizio del funzionamento dell’ente libico e con la cessazione
dell’attività dei nostri organi assicurativi nel territorio.
5. – Ciò non impedisce alla Corte di auspicare, specie dopo gli
ultimi forzati rimpatri di molti altri nostri concittadini dalla Libia,
che la materia venga adeguatamente riesaminata nella competente sede
legislativa.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2 della legge 17 agosto 1957, n. 843, che ha reso esecutivo
in Italia l’Accordo italo-libico concluso in Roma il 2 ottobre 1956,
nella parte concernente l’art. 12 del detto Accordo, e l’annessa nota,
questione sollevata dalla Corte di appello di Catania, con l’ordinanza
in epigrafe, in riferimento agli artt. 38, secondo comma, 2 e 3, primo
comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 maggio 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI