Sentenza N. 110 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
12/07/1967
Data deposito/pubblicazione
12/07/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/06/1967
NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Dott. ANTONIO MANCA – Prof.
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ- Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI, Giudici,
della legge 22 gennaio 1934, n. 36, sull’ordinamento delle professioni
di avvocato e procuratore, promosso con deliberazione emessa il 13
novembre 1965 dal Consiglio dell’ordine degli avvocati e procuratori di
Campobasso nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati Testa
Pasquale e Di Gregorio Gennaro, iscritta al n. 67 del Registro
ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 118 del 14 maggio 1966.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 18 maggio 1967 la relazione del
Giudice Michele Fragali;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
1. – A carico degli avvocati Pasquale Testa e Gennaro Di Gregorio
del foro di Campobasso venne emesso mandato di cattura facoltativo per
peculato per distrazione a favore di terzi e per falso ideologico,
commessi mediante deliberazioni assunte come componenti della giunta
provinciale, con i poteri del consiglio e nella vacanza di tale
consesso; il mandato di cattura fu poi sospeso nei confronti dell’avv.
Testa per le gravi condizioni della sua salute, e all’avv. Di Gregorio
fu concesso il beneficio della libertà provvisoria. In seguito a ciò
il locale consiglio, chiamato a pronunziare la sospensione dei predetti
dall’esercizio della professione, ai sensi dell’art. 43, lett. c, del
R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella legge 22 gennaio
1934, n. 36, con deliberazione 13 novembre 1965, denunziò di
illegittimità costituzionale detto articolo, con riferimento agli
artt. 2, 3 e 27 della Costituzione.
Rilevò il consiglio dell’ordine che:
a) nell’articolo predetto non si differenzia fra cattura in atto e
cessata, fra mandato obbligatorio di cattura e mandato facoltativo, fra
delitti comuni e delitti a carattere e colorazione politica, mentre è
chiaro che i criteri democratici di rispetto della personalità umana e
delle libertà politiche impongono un diverso trattamento, almeno di
fronte a delitti aventi causale politica;
b) l’articolo stesso nulla dispone perché la moglie e i figli
dell’avvocato sospeso abbiano almeno il pane: il lavoratore delle
imprese private, una volta cessata la cattura, può continuare a
lavorare a guadagnare, ed il dipendente dello Stato è messo al sicuro
dalla fame, per sé e la famiglia, attraverso l’erogazione di metà di
quanto percepisce e dell’integrale pagamento degli assegni familiari,
e, se assolto, viene integrato e percepisce gli arretrati, mentre
l’avvocato sospeso, anche se assolto, si trova colpito moralmente dalla
gravità della sospensione, con lo studio chiuso e la clientela sviata;
c) la sospensione comminata anche quando l’esecuzione del mandato
sia stata sospesa e resa praticamente inoperante dalla concessione
della libertà provvisoria, si risolve in una applicazione di vera pena
sulla base di una presunzione di responsabilità penale.
Il consiglio si ritenne legittimato a sollevare la questione, e si
richiamò alla sentenza della Cassazione 16 febbraio 1960, n. 255,
nella quale fu ritenuto ammissibile un ricorso prodotto da un avvocato
sospeso di diritto, riconoscendosi così piena veste di organo
giurisdizionale al consiglio dell’ordine, che tale provvedimento aveva
emesso. Il consiglio nazionale forense, pur andando in contrario avviso
circa l’illegittimità costituzionale della norma, impugnata in
relazione all’art. 27 della Costituzione, ha ammesso la possibilità
del gravame contro i provvedimenti del consiglio dell’ordine.
La deliberazione venne notificata alle parti private nei giorni 7
e 8 gennaio 1966, e negli stessi giorni rispettivamente al P.M. e al
Presidente del Consiglio dei Ministri. La stessa deliberazione venne
poi comunicata il 24 gennaio 1966 ai Presidenti delle due Camere.
2. – Innanzi a questa Corte non si costituirono le parti private;
il 3 giugno 1966 intervenne il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha contestato al
consiglio dell’ordine degli avvocati la natura di organo
giurisdizionale. La Corte di cassazione non ha sancito che le decisioni
dei consigli dell’ordine siano provvedimenti giurisdizionali, né ha
conferito natura giurisdizionale a detti consigli; pronunziò in un
ricorso contro la decisione del consiglio nazionale forense, ricorso
previsto dall’art. 56 della legge professionale per incompetenza,
eccesso di potere e violazione di legge. A parte poi l’orientamento
della dottrina, che fa rientrare fra quelle amministrative le decisioni
dei consigli dell’ordine, sta in fatto che la relazione alla legge ha
affermato la natura giurisdizionale della commissione centrale, ora
consiglio nazionale, implicitamente escludendo quella natura ai
consigli dell’ordine; i quali non fanno parte dell’ordine giudiziario,
e i cui membri non godono comunque di quelle garanzie costituzionali
proprie dell’organo giudiziario.
Vero è che i consigli hanno facoltà e, in talune ipotesi, il
dovere, di sentire il professionista e possono sentire testimoni; vero
è che i loro membri possono essere ricusati dall’incolpato e che al
procedimento partecipa il pubblico ministero; vero è che le loro
decisioni sono impugnabili; ma è anche vero che tali norme sono
regolatrici di una procedura o, se anche si vuole, di un processo, e
che l’esistenza di una procedura o di un processo non comporta
necessariamente che l’organo procedente sia giurisdizionale.
Nel merito il Presidente del Consiglio ritiene infondata la
questione proposta sotto tutti i profili.
A parte il rilievo che la legge penale non distingue fra reato
comune e reato politico, posto che il reato è tale qualunque sia la
causale che ha spinto l’agente, e che la distinzione potrebbe avere
valore solo ai fini della misura della pena o della concessione di
particolari attenuanti, resta pur sempre che la norma denunciata
attiene a quel momento del processo che concerne l’istruttoria, e che
la distinzione cui accenna il consiglio dell’ordine potrebbe avere una
efficacia in concreto solo quando, con sentenza, fosse stata dichiarata
la sussistenza di una causale politica.
Emanato un mandato o un ordine di cattura, il professionista non è
in grado di poter svolgere la sua attività lavorativa perché ne segue
o la sua costrizione in un carcere o la sua latitanza; di nessun
rilievo è perciò che egli sia di diritto sospeso dall’albo. Il vedere
se alla sospensione del mandato e dell’ordine di cattura oppure alla
concessione della libertà provvisoria possa seguire la riammissione
allo esercizio della professione è questione d’interpretazione della
norma, non senza osservare che, nei casi predetti, sarebbe ben strano
che possa continuarsi l’esercizio di una attività che è ausiliaria
della giustizia. Nessun legame è possibile stabilire fra la norma
costituzionale che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e la
norma impugnata; e non potrebbe sostenersi che il diritto di procurarsi
i mezzi di sostentamento con il proprio lavoro possa travolgere ogni
legge di carattere sanzionatorio che limiti o escluda l’esercizio di
una particolare attività professionale. La norma in esame non
preclude ogni altra diversa e possibile attività.
La diversità di trattamento che si denuncia discende dalle
diversità delle situazioni: nessuna comparazione è possibile fra la
posizione lavorativa di un professionista iscritto ad un albo e quella
di un operaio o di un impiegato privato o di dipendente pubblico. La
diversità delle conseguenze economiche che la sospensione dall’albo
produce al primo è.dedotta da considerazioni che vanno al di là del
profilo giuridico.
La sospensione dall’iscrizione nell’albo professionale a seguito
dell’emissione di un ordine e di un mandato di cattura è un
provvedimento disciplinare cautelare, e non spiega efficacia né in
ordine al processo penale né in ordine alla decisione del giudice; la
circostanza che un professionista sia colpito da un mandato o da un
ordine di cattura è così grave da assorbire del tutto il
provvedimento di sospensione dalla professione, che può anche avere
applicazione per fatti che non rivestono il carattere di reato.
3. – All’udienza del 18 maggio 1967 l’Avvocato dello Stato ha
illustrato e ribadito le proprie tesi.
Il provvedimento che il Consiglio dell’ordine degli avvocati e
procuratori di Campobasso era chiamato ad assumere in base alla norma
impugnata ha natura disciplinare. Tra le pene disciplinari è infatti
compresa, dall’art. 40, n. 3, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578,
convertito nella legge 22 gennaio 1934, n. 36, la sospensione
dall’esercizio professionale sulla quale il consiglio predetto doveva
pronunciarsi; e, ai fini di tale qualificazione, non si può
distinguere tra i casi in cui la sanzione è applicata dal consiglio
nell’esercizio della sua discrezionalità e quelli in cui, come nella
specie, essa deve essere disposta perché la legge la fa di diritto
discendere dal verificarsi di una circostanza che ha valutato in via
generale ed uniforme.
Ora non è esatto che, nell’esplicazione di tale potere, il
consiglio dell’ordine degli avvocati assume veste giurisdizionale. Esso
svolge il relativo compito nei confronti dei professionisti che formano
l’ordine forense; quindi all’interno del gruppo che essi costituiscono,
e per la tutela di interessi che sono essenzialmente della classe
professionale, in modo che la funzione disciplinare che al consiglio
compete è manifestazione di un potere sugli iscritti all’albo; e di un
potere meramente amministrativo. Questo, se non è, come non è, di
carattere gerarchico, è certo dato dalla legge per l’attuazione del
rapporto che si instaura per il fatto dell’appartenenza all’ordine, il
quale impone comportamenti conformi ai fini che esso deve perseguire;
è espressione di una autonomia concessa per la più diretta e
immediata protezione di questi fini, e soltanto di essi.
Per attribuire alla funzione una natura giurisdizionale non basta
constatare che il consiglio opera con la garanzia di un procedimento:
questo è spesso previsto anche nella materia amministrativa, in modo
che non ha nemmeno importanza che esso si svolge nel contraddittorio
dell’incolpato e che il consiglio dell’ordine può sentire testimoni.
Ha importanza invece che il procedimento si conclude con una pronunzia
che mira a sanzionare l’offesa fatta al gruppo di cui l’ordine è
esponente, con riguardo ai fatti consumati da un suo componente,
perché uno dei dati che danno carattere giurisdizionale ad un organo
è l’estraneità dell’interesse in ordine al quale esso dà la sua
pronunzia. La giurisprudenza allegata dal consiglio di Campobasso per
giustificare la natura giurisdizionale della sua funzione concerne
quello nazionale forense; e, se è vero che, in un primo tempo, anche
alle decisioni disciplinari dei consigli dell’ordine venne data
qualifica giurisdizionale, è anche vero che, più di recente, in
giurisprudenza si è affermata la più esatta opinione del loro
carattere amministrativo, sul fondamento delle considerazioni sopra
esposte.
Non vale che il procedimento può essere iniziato anche dal
pubblico ministero presso il Tribunale o su ricorso di chi è
interessato a denunciare l’infrazione commessa dal professionista; né
vale che gli atti del procedimento e la decisione devono essere
comunicati al pubblico ministero suddetto, che questi può presentare
deduzioni, e può chiedere la escussione di testimoni. A parte che non
può escludersi che il compito di iniziare un procedimento
amministrativo o di intervenirvi sia dato al pubblico ministero, quello
presso il Tribunale, nella specie, non partecipa al procedimento
innanzi al consiglio dell’ordine; tanto vero che, ricevuta copia della
decisione, deve farne relazione all’ufficio superiore, il quale è il
solo legittimato a proporre ricorso al consiglio nazionale forense.
Unicamente in questa seconda fase del procedimento il pubblico
ministero prende parte alla discussione, svolge le sue conclusioni e
assiste alla decisione finale; e così resta dimostrato che i poteri
che gli spettano nella fase anteriore hanno unicamente il carattere di
collaborazione ad una attività amministrativa. E si dimostra che
soltanto quando il procedimento si sposta nella sede del reclamo le
funzioni del pubblico ministero si esercitano ai fini della tutela di
un interesse esterno a quello del gruppo, diverso e distinto dall’altro
che si incentra nell’ordine.
Pertanto non può ritenersi che il giudizio di legittimità
costituzionale sulla questione di cui sopra sia stato promosso in modo
idoneo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 43, lett. c, della legge 22 gennaio 1934, n. 36,
sull’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, promossa
dal Consiglio dell’ordine degli avvocati e procuratori di Campobasso
con deliberazione 13 novembre 1965, in riferimento agli artt. 2, 3 e 27
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.
GASPARE AMBROSINI – NICOLA JAEGER –
GIOVANNI CASSANDRO – ANTONIO MANCA –
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.