Sentenza N. 114 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
12/07/1967
Data deposito/pubblicazione
12/07/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/06/1967
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI –
Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. GIUSEPPE
CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI, Giudici,
6 novembre 1926, n. 1848, e dell’art. 210 del R.D. 18 giugno 1931, n.
773 (T. U. delle leggi di pubblica sicurezza), promosso con ordinanza
emessa il 20 gennaio 1966 dalla Corte di cassazione – Sezioni unite
civili – nel procedimento civile vertente tra la Camera del lavoro di
Sannicandro Garganico, Fioritto Aurelia e l’Amministrazione delle
finanze dello Stato, iscritta al n. 79 del Registro ordinanze 1966 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 124 del 21
maggio 1966.
Visti gli atti di costituzione della Camera del lavoro di
Sannicandro Garganico, di Fioritto Aurelia e dell’Amministrazione delle
finanze dello Stato;
udita nell’udienza pubblica del 14 giugno 1967 la relazione del
Giudice Giovanni Cassandro;
uditi l’avv. Mauro Gargano, per la Camera del lavoro, l’avv. Franco
Agostini, per la Fioritto, ed il sostituto avvocato generale dello
Stato Umberto Coronas, per l’Amministrazione finanziaria.
1. – Nel corso di un procedimento civile vertente davanti alle
Sezioni unite civili della Corte di cassazione tra la Camera del lavoro
di Sannicandro Garganico, l’Amministrazione delle finanze dello Stato,
e la signora Aurelia Fioritto, la difesa della Camera del lavoro ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 215 del
T. U. delle leggi di pubblica sicurezza approvato con R.D. 6 novembre
1926, n. 1848, e dell’art. 210 del successivo T. U. delle medesime
leggi, approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, in riferimento agli
artt. 18 e 42 della Costituzione.
L’art. 215 del T. U. del 1926 riconosceva la facoltà del prefetto
di “decretare lo scioglimento delle associazioni, enti o istituti
costituiti od operanti nel Regno che svolgano comunque attività
contraria all’ordine nazionale dello Stato” e di ordinare col medesimo
provvedimento “la confisca dei beni sociali”.
La stessa norma è contenuta nel citato articolo 210 del
successivo T. U., con la sola variante che il bene giuridico tutelato
non è più “l’ordine nazionale dello Stato”, ma sono “gli ordinamenti
politici costituiti nello Stato”.
Le Sezioni unite, ritenuta la questione non manifestamente
infondata e rilevante per la risoluzione del giudizio in corso, hanno
sospeso il procedimento e trasmesso gli atti a questa Corte.
L’ordinanza è stata ritualmente notificata, comunicata e pubblicata.
2. – L’ordinanza premette che, con decreto emesso dal prefetto di
Foggia il 14 maggio 1928 in applicazione del ricordato art. 215 del T.
U. del 1926, fu disposto lo scioglimento dell’associazione dei
lavoratori riuniti sotto la denominazione di Camera del lavoro di
Sannicandro Garganico per avere questa svolta attività contraria
all’ordine nazionale, e che, in conseguenza, fu “confiscato” il
fabbricato costruito dall’associazione medesima e adibito con il nome
di “Casa del popolo” per la riunione degli associati. Con atto di
citazione del 10 settembre 1954 l’Amministrazione delle finanze
conveniva davanti al Tribunale di Bari la Camera del lavoro di
Sannicandro Garganico per sentirla condannare al rilascio del
fabbricato denominato “ex casa del popolo” trasferito al Demanio dello
Stato in virtù del ricordato decreto prefettizio e, poi, dal 1 gennaio
1948, occupato dalla detta Camera del lavoro. La Camera del lavoro
eccepì che l’immobile era stato costruito nel 1908 su un terreno
dell’on. Domenico Fioritto, che ne era divenuto proprietario per
accessione. Il Tribunale con sentenza 6 luglio 1960, dichiarato
inammissibile l’intervento dell’erede dell’on. Fioritto, signora
Aurelia Fioritto, accolse la domanda dell’Amministrazione. La
decisione del Tribunale fu confermata dalla Corte di appello di Bari,
con sentenza 4 maggio 1962, senza delibare l’eccezione di
incostituzionalità dell’art. 215 citato sollevata già in quella sede
dalla Camera del lavoro di Sannicandro.
3. – L’ordinanza prosegue affermando che il potere conferito al
prefetto dalle due norme impugnate “non appare agevolmente
conciliabile” né con l’art. 18 della Costituzione, che afferma il
diritto dei cittadini “di associarsi liberamente senza autorizzazione
per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale, né con
l’art. 42 che riconosce e garantisce la proprietà privata e ne
consente l’espropriazione soltanto per motivi d’interesse generale e
salvo indennizzo”. La confisca prevista dai due articoli di legge
impugnati non configurerebbe una misura di sicurezza patrimoniale
conseguente a condanna penale quale quella prevista dall’art. 236, n. 2
del Codice penale, sebbene avrebbe la natura di una sanzione
politico-amministrativa diretta a reprimere l’attività delle
associazioni dopo il loro scioglimento e ad impedire in conseguenza la
libertà di associazione riconosciuta e garantita dall’art. 18 della
Costituzione.
L’ordinanza respinge la tesi dell’Amministrazione che l’eccezione
di costituzionalità non possa essere sollevata contro norme
dell’ordinamento che abbiano svolto ed esaurito i loro effetti
nell’ambito del precedente ordinamento costituzionale, per il quale la
loro legittimità non era discutibile. Tale tesi è stata più volte
disattesa dalla Corte costituzionale, che ha non soltanto dichiarato
l’assoggettabilità al controllo di costituzionalità delle norme
anteriori all’entrata in vigore della Costituzione, ma anche di quelle
abrogate, quando permangano nell’ordinamento situazioni tali, la cui
rilevanza, sul piano costituzionale, giustifichi la proponibilità del
giudizio di costituzionalità.
Nella specie la tesi dell’Amministrazione è tanto più infondata
in quanto il solo fatto che la norma in questione, trasfusa nell’art.
210 del T. U. del 1931, è tuttora vigente e suscettibile di effetti
sui rapporti ancora controversi, è sufficiente per investire la Corte
del giudizio di costituzionalità, attesa l’indubbia rilevanza della
decisione conseguente sull’esito del giudizio. Se, infatti, la norma
che attribuisce il potere sopra descritto fosse dichiarata
costituzionalmente illegittima, la proprietà dell’immobile non
potrebbe più essere riconosciuta in favore dello Stato rivendicante.
4. – Nel presente giudizio si è costituita la Camera del lavoro
di Sannicandro Garganico rappresentata e difesa dall’avv. Mauro Gargano
con atto di deduzioni depositate il 4 maggio 1966, nel quale riproduce
i motivi esposti nell’ordinanza di rimessione a sostegno della non
manifesta infondatezza della questione sollevata, con ampi riferimenti
alla giurisprudenza della Corte costituzionale sia sulla proponibilità
delle questioni di norme anteriori all’entrata in vigore della
Costituzione, o di norme abrogate, sia sulla libertà di associazione e
sui limiti del potere di ordinanza del prefetto. Chiarisce anche, con
riferimenti giurisprudenziali e dottrinali, la natura della “confisca”
prevista dalle norme impugnate.
5. – Si è costituita la signora Aurelia Fioritto in Napolitano,
rappresentata e difesa dall’avv. Franco Agostini, con deduzioni
depositate il 28 aprile 1966, nelle quali chiede la dichiarazione di
illegittimità delle norme impugnate, palesemente in contrasto con gli
artt. 18 e 42 della Costituzione, “perché disconoscono la libertà di
associazione” e “prevedono la perdita di beni senza alcun indennizzo e
al di fuori dell’ipotesi prevista dalla Costituzione”.
6. – Si è costituito il Ministero delle finanze nella persona del
suo Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato. Nelle deduzioni depositate il 10 giugno 1966,
l’Avvocatura afferma che le questioni prospettate alla Corte
“trascendono manifestamente ogni suo particolare interesse nella lite”,
sicché non intende proporre proprie conclusioni, ma rimettersi alla
giustizia della Corte. Tuttavia, ritiene opportuno fare qualche
considerazione “per completezza e per un più preciso orientamento
sulle questioni sollevate”.
A suo avviso non potrebbe sorgere un contrasto di quelle norme con
l’attuale Costituzione, dato che l’ordine nazionale dello Stato e gli
ordinamenti politici costituiti nello Stato coinciderebbero con la
stessa Costituzione oggi in vigore. Si potrebbe anzi dire che,
esercitando quel potere, il prefetto riaffermerebbe la Costituzione,
non si porrebbe con il suo provvedimento in contrasto con essa. Ad
avviso dell’Avvocatura si potrebbero considerare l’art. 215 e il 210
una “norma in bianco”, che si completerebbe mediante il rinvio ai
principi fondamentali della Costituzione: l’ente associativo che questi
violi incorre nella relativa sanzione.
Sul piano specifico dell’art. 18, occorre ricordare che il diritto
di libera associazione trova un limite qualora l’associazione persegua
fini vietati dalla legge penale; e che, inoltre, l’art. 270 Codice
penale in vigore punisce le associazioni che abbiano la finalità di
sovvertire l’ordinamento politico-giuridico dello Stato, vale a dire
l’ordinamento costituzionale. Né le cose cambierebbero, se il
riferimento fosse fatto alla Costituzione in vigore nel momento in cui
venne emesso il decreto di scioglimento della Camera del lavoro di
Sannicandro, sorgendo anche in questa ipotesi un contrasto tra i fini
dell’associazione e la Costituzione in vigore. La conclusione sarebbe
diversa se si dovesse giungere, come non pare possibile, all’esame del
contrasto dell’art. 215 in rapporto alla Costituzione allora in vigore,
con la Costituzione attuale perché in questo caso il contrasto si
porrebbe tra le due Costituzioni e sarebbe un contrasto indiscusso e
completo.
Nemmeno ipotizzabile la violazione dell’art. 42 della Costituzione.
Rimarrebbero fuori dell’ambito di applicazione di quest’articolo i casi
in cui la perdita della proprietà è conseguenza di una sanzione per
un illecito commesso con un uso particolare dei beni confiscati. La
confisca, quale misura di sicurezza patrimoniale, trova la sua
disciplina generale negli artt. 236 e 240 del Codice penale che non
sono, sicuramente, in contrasto con l’art. 42 della Costituzione. E per
le stesse ragioni, conclude l’Avvocatura, in quanto la confisca sia
prevista come sanzione, non si dovrebbe profilare un contrasto tra il
ricordato art. 42, l’art. 210 del T. U. delle leggi di pubblica
sicurezza e gli artt. 362 e seguenti del relativo regolamento,
approvato con R.D. 6 maggio 1940, n. 635.
7. – Contro queste considerazioni dell’Avvocatura la difesa della
signora Fioritto ha depositato una memoria il 1 giugno 1967.
La norma denunciata non potrebbe in alcun modo conciliarsi con
l’attuale ordinamento costituzionale, che si fonda sui principi di
libertà tutelati giurisdizionalmente, e in particolare con la libertà
di associazione, consacrata nell’art. 18 della Costituzione, giacché a
questa libertà essa pone limiti nuovi estesissimi e discrezionali. Il
riferimento agli ordinamenti politici contenuti nell’art. 210 del T.
U. del 1931 è tanto ampio che non può coincidire col limite posto
dall’art. 18 della Costituzione che è quello soltanto della legge
penale. L’ambito della norma denunciata è più ampio anche di quello
dell’art. 270 del Codice penale, in quanto abbraccia altresì i casi di
associazioni, che, pur non proponendosi di sovvertire gli ordinamenti
economico-sociali dello Stato, “siano in sé, concettualmente, e per i
fini proposti, contrari agli ordinamenti politici”. A sostegno delle
sue tesi la difesa invoca la giurisprudenza della Corte in tema di
libertà di associazione (sentenza n. 69 del 1962).
Anche il tentativo dell’Avvocatura di collegare l’art. 210 alle
norme penali, che prevedono la confisca al fine di salvarlo dalla
censura mossa ex art. 42 della Costituzione, non è ammissibile, in
quanto la confisca regolata dall’art. 240 del Codice penale segue la
condanna del giudice ed ha per oggetto le cose destinate a commettere
il reato o che ne sono state il prodotto o il profitto, ed è
evidentemente fuori della ipotesi normativa oggetto del presente
giudizio. Ad ogni modo, conclude la difesa, il provvedimento della
confisca è un mezzo predisposto dal legislatore fascista contro la
libertà di associazione e non si può assegnarle né il carattere
penale, né quello restitutorio o risarcitorio.
8. – All’udienza del 14 giugno le difese delle parti hanno
brevemente esposte le tesi già svolte negli atti scritti.
1. – La Corte di cassazione ha sottoposto all’esame di questa Corte
tanto la questione di costituzionalità dell’art. 215 del T. U. delle
leggi di pubblica sicurezza, approvata con R.D. 6 novembre 1926, n.
1848, quanto quella dell’art. 210 del successivo T. U. approvato con
R.D. 18 giugno 1931, n. 773, (che abrogò il primo), perché, come si
è accennato nell’esposizione del fatto, la norma contenuta nella prima
delle disposizioni citate, trasfusa nella seconda, sarebbe tuttora
vigente e suscettibile di effetti sui rapporti ancora in contesa. Con
questa prospettazione della questione di costituzionalità è stata
respinta l’eccezione, sollevata dall’Avvocatura dello Stato nel
giudizio a quo, della improponibilità di questioni di legittimità
costituzionale sollevate nei confronti di norme che abbiano esaurito i
loro effetti nel periodo di tempo in cui, essendo in vigore un diverso
ordinamento costituzionale, la legittimità di quelle norme non poteva
essere posta in discussione. L’eccezione dell’Avvocatura, nei termini
nei quali è stata sollevata, si risolve, infatti, in una questione di
rilevanza, sulla quale, nei limiti più volte segnati da questa Corte,
anche in rispetto a norme abrogate, il giudizio spetta al giudice a
quo, il quale non si può dire che, nel caso, non abbia osservato quei
limiti, dando di quel giudizio una sufficiente e non contraddittoria
motivazione. La difesa dello Stato, del resto, non ha nemmeno
richiamato, in questo sede, l’eccezione pregiudiziale sollevata davanti
alle Sezioni unite della Cassazione e da queste respinta.
2. – Nel merito la questione è fondata.
Le due norme impugnate sono quasi dell’identico tenore, sicché i
medesimi argomenti valgono per dimostrare l’illegittimità
costituzionale dell’una e dell’altra.
Le norme impugnate furono emanate all’evidente fine di vietare
l’esercizio di ogni e qualsiasi attività, in forma associata, che il
prefetto ritenesse contraria “all’ordine nazionale dello Stato” o “agli
ordinamenti politici costituiti nello Stato”. Evidente perciò il loro
contrasto col nuovo ordinamento costituzionale, nel suo spirito
informatore e nei suoi principi fondamentali; e, in particolare con
l’art. 18 che garantisce la libertà di associazione dei cittadini,
vietando soltanto le associazioni segrete e quelle che perseguono,
anche indirettamente, scopi polilitici mediante organizzazioni di
carattere militare.
È vero che la Corte ha avuto occasione di affermare più volte che
l’origine e la ratio di una disposizione legislativa non possono essere
considerate decisive per una esatta interpretazione della norma, che va
considerata, invece, nella sua struttura obiettiva e nella sua
capacità di trovare posto nell’ambito del nuovo ordinamento
costituzionale (sentenza n. 5 del 1962 e n. 9 del 1965); ed è anche
vero che da questo principio la Corte ha tratto le ragioni per
dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 272 del Codice penale (sentenza n. 87 del 1966). Ma nel caso
in esame proprio la struttura obiettiva delle norme non consente di
vedere nel fine che esse intendono perseguire un interesse tutelabile
nell’ambito della Costituzione.
Parlare, perciò, come fa l’Avvocatura, di una norma in bianco,
più esattamente di una norma che possa assumere in sé contenuti
diversi, anzi addirittura opposti, non ha senso. Con le norme impugnate
si volle e si vuole impedire l’esistenza di associazioni che svolgano
“comunque” attività contraria “all’ordine nazionale” o “agli
ordinamenti politici costituiti nello Stato”. Ora, in uno Stato di
libertà, qual è quello fondato dalla nostra Costituzione, è
consentita l’attività di associazioni che si propongano anche il
mutamento degli ordinamenti politici esistenti, purché questo
proposito sia perseguito con metodo democratico, mediante il libero
dibattito e senza ricorso, diretto o indiretto, alla violenza.
3. – L’illegittimità delle norme impugnate travolge anche quella
parte di esse che consente al prefetto di ordinare “la confisca dei
beni sociali”. Non è necessario perciò richiamare l’art. 42, terzo
comma della Costituzione, che non consente l’espropriazione della
proprietà privata sena indennizzo. Una misura come quella prevista
dagli articoli impugnati non trae la sua illegittimità dal fatto che
non sia previsto un indennizzo per i beni confiscati, ma dal fatto che
essa concorre strettamente, insieme con la facoltà di scioglimento, a
impedire l’esercizio di una libertà fondamentale quale quella di
associazione. Tanto che si potrebbe affermare che anche la previsione
di un indennizzo del bene confiscato non sarebbe sufficiente, in un
caso come quello in esame, a fondarne la legittimità.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 215 del Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R.D. 6 novembre
1926, n. 1848, e dell’art. 210 del successivo Testo unico delle
medesime leggi, approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – GIUSEPPE CHIARELLI
– GIUSEPPE VERZÌ – GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – FRANCESCO PAOLO
BONIFACIO – LUIGI OGGIONI.