Sentenza N. 114 del 1968
Corte Costituzionale
Data generale
28/11/1968
Data deposito/pubblicazione
28/11/1968
Data dell'udienza in cui è stato assunto
21/11/1968
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI –
Dott. NICOLA REALE, Giudici,
comma, prima parte, del Codice di procedura penale, promosso con
ordinanza emessa il 16 marzo 1966 dal giudice istruttore del Tribunale
di Torino nel procedimento penale a carico di Tresello Ferruccio e
Porchietto Francesco, iscritta al n. 75 del Registro ordinanze 1966 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14
maggio 1966.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 9 attobre 1968 la relazione del
Giudice Vezio Crisafulli;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Chiarotti per il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel corso di un procedimento penale a carico di Trosello Ferruccio
e Porchietto Francesco, il giudice istruttore del Tribunale di Torino
ha sollevato, con ordinanza emessa il 16 marzo 1966, questione di
legittimità costituzionale nei confronti dell’ultimo comma dell’art.
349 del Codice di procedura penale, nella parte in cui esso stabilisce:
“il giudice non può obbligare gli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria a rivelare i nomi delle persone che hanno ad essi fornito
notizie”, per contrasto con gli artt. 109 e 3 della Costituzione.
Premesso che i carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria di
Moncalieri, a seguito di segnalazione “da fonte confidenziale degna di
fede” avevano richiesto al pretore di Moncalieri autorizzazione ad
eseguire una perquisizione nell’abitazione di Trosello Ferruccio e nel
corso della perquisizione avevano reperito oggetti di provenienza
furtiva; che, trasmessi poi gli atti per competenza al giudice
istruttore presso il Tribunale di Torino, le risultanze istruttorie
ponevano in luce che a carico del Trosello sussistevano indizi di
colpevolezza unicamente in ordine al reato di ricettazione, mentre a
carico di Porchietto Francesco emergevano prove di colpevolezza per il
reato di furto; che il maresciallo Bovino Antonio della polizia
giudiziaria di Moncalieri, il quale aveva espletato le prime indagini,
assunto come teste ed interrogato circa la persona dalla quale aveva
ricevuto la segnalazione, dichiarava di volersi avvalere della facoltà
concessagli dall’art. 349, ultimo comma, del Cod. proc. pen. e pertanto
non rivelava il nome di questa persona, il giudice istruttore riteneva
la questione di legittimità costituzionale, nei termini innanzi
indicati, rilevante e non manifestamente infondata.
Circa la rilevanza il giudice a quo osserva che dalla soluzione del
problema attinente alla legittimità o meno della norma dipende il
risultato stesso della istruzione penale, nel senso che dalla
possibilità di pervenire alla identificazione della persona che ha
fornito alla polizia giudiziaria notizie e che dovrebbe pertanto
assumere la qualità di teste dipende l’acquisizione di prove ulteriori
che possono comportare la estensione delle imputazioni ad altri
soggetti, ovvero il rafforzarsi o l’elidersi degli indizi di
colpevolezza esistenti a carico degli attuali imputati.
Circa la non manifesta infondatezza, relativamente all’art. 109
della Costituzione, l’ordinanza di rinvio si riporta anzitutto ad
alcune affermazioni contenute nella sentenza 18 giugno 1963, n. 94,
della Corte costituzionale, secondo cui la disposizione costituzionale
di cui trattasi pone la polizia giudiziaria di fronte all’autorità
giudiziaria in un rapporto di subordinazione “funzionale”, che “trova
la sua piena giustificazione nelle superiori esigenze della funzione di
giustizia e nella necessità di garantire alla magistratura la più
sicura ed autonoma disponibilità dei mezzi di indagine”. Da questa
interpretazione e dalla considerazione che l’art. 109 della
Costituzione non prevede alcuna deroga, né alcuna riserva di legge
attraverso la quale possano introdursi deroghe, al principio della
dipendenza funzionale della polizia giudiziaria, deriverebbe, secondo
il giudice a quo, l’incostituzionalità della limitazione disposta
dalla norma impugnata, posto che, se è vero che l’art. 109 non
attribuisce al giudice una discrezionalità assoluta nell’impartire
direttive od ordini alla polizia giudiziaria, dovrebbe comunque
ritenersi che le uniche limitazioni consentite a tale discrezionalità
non possano essere ricercate se non in relazione allo spirito ed alla
ratio della disposizione costituzionale, fra le quali non sarebbe
possibile far rientrare quella che permette all’agente o ufficiale di
polizia giudiziaria di sottrarsi al proprio dovere verso l’autorità
giudiziaria, tacendo il nome di chi certamente assume la qualità di
teste nel processo penale, quando addirittura non possa rivestire la
qualità di imputato. In quest’ultimo caso, anzi, il non rivelare il
nome del confidente equivarrebbe a garantire l’impunità a chi ha
commesso un reato, ossia a pagare il prezzo della “confidenza” con una
rinuncia all’azione penale, e con la conseguente implicita violazione
del principio sancito all’art. 112 della Costituzione.
D’altra parte – aggiunge l’ordinanza – la discrezionalità della
polizia giudiziaria nel rivelare o meno il nome di una persona
informata sui fatti per cui si procede non rimarrebbe neutralizzata
dalla seconda parte dell’ultimo comma dell’articolo 349 del Codice
procedura penale, in base alla quale il giudice non può ricevere, a
pena di nullità, dagli ufficiali ed agenti predetti notizie avute da
persone i cui nomi essi non ritengono di dover manifestare. E ciò, in
quanto questa seconda parte della norma verrebbe a ribadire la
limitazione dei poteri del giudice, precludendogli del tutto la ricerca
della verità ed impedendogli un ambito di indagini in presenza di un
commesso reato, in conseguenza di uno jus tacendi attribuito alla
polizia giudiziaria: operando, così, un ingiustificato rovesciamento
fra le reciproche posizioni dell’autorità giudiziaria e della polizia
giudiziaria, quali stabilite dall’art. 109 della Costituzione e
sottraendo quest’ultima al controllo e alla dipendenza del giudice.
Circa la non manifesta infondatezza relativamente all’art. 3 della
Costituzione, il giudice istruttore rileva che la disposizione
impugnata creerebbe una diseguaglianza fra i cittadini in una duplice
direzione.
In un primo senso, infatti, essa esonerebbe una categoria di
cittadini – quella appunto degli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria – dal generale obbligo di testimoniare nei procedimenti
penali, degradando quest’obbligo a facoltà quando si tratti di
indicare i nomi di persone informate circa talune circostanze per la
realizzazione di un fine di giustizia. L’ordinanza fa presente che il
Codice di procedura penale pone altre deroghe a quest’obbligo, ma le
ritiene giustificate da un interesse di carattere generale, quale il
libero esercizio di determinate professioni, che attengono alla
libertà religiosa, al diritto di difesa, alla tutela della salute e fa
comunque notare che sono oggetto di controllo da parte del giudice, il
quale può sindacare con opportuni accertamenti la fondatezza
dell’invocato motivo di astensione; ulteriori deroghe sarebbero,
infine, parimenti giustificate alla luce di un interesse
costituzionalmente protetto, in quanto attengono a rapporti familiari.
Nel caso dell’art. 349, invece, la discrezionalità degli agenti ed
ufficiali di polizia giudiziaria si presenterebbe assoluta, senza
possibilità di accertamento da parte del giudice, e soprattutto
inerente ad una funzione che si svolge nell’ambito del dovere di
collaborazione e di subordinazione all’autorità giudiziaria.
In un secondo senso, la disposizione impugnata introdurrebbe una
arbitraria differenziazione fra i soggetti tenuti all’obbligo del
rapporto all’autorità giudiziaria previsto in via generale dall’art. 2
del Codice di procedura penale, che deve contenere anche l’indicazione
dei testimoni o quant’altro valga alla loro identificazione,
costituendo la eventuale omissione di queste indicazioni un ipotesi
delittuosa punita dal Codice penale. A quest’ultimo obbligo ed alla
relativa sanzione non sarebbero tenuti gli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria, in virtù appunto dell’art. 349, ultimo comma, del
Codice di procedura penale che contrasterebbe pertanto con il principio
di eguaglianza con il consentire a questi soggetti, per i quali è più
forte il vincolo di collaborazione e di subordinazione all’autorità
giudiziaria, di sottrarsi ad un dovere indistintamente imposto agli
altri soggetti che, rivestiti di una determinata qualità, hanno
l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria.
L’ordinanza è stata regolarmente notificata e comunicata, nonché
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 14 maggio 1966.
È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura di Stato, chiedendo
che la questione sia dichiarata infondata.
Nelle sue deduzioni l’Avvocatura fa presente che l’ultimo comma
dell’art. 349 del Codice di procedura penale aggiunge nella sua seconda
parte che il giudice non può ricevere, a pena di nullità, dagli
ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria notizie avute da persone i
cui nomi essi non ritengono di dover manifestare: in tal modo, se da un
lato protegge un segreto d’ufficio che ubbidisce a determinate
esigenze, dall’altro tutela la sincerità della prova, nel senso che
non si ammette la introduzione in giudizio di una prova la cui sorgente
è ignota al giudice e sottratta al suo sindacato. Cosicché, la
rilevanza della conoscenza della fonte in virtù della quale
l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria si è orientato in un
senso piuttosto che in un altro si rivelerebbe priva di consistenza ai
fini dell’esito del processo penale, il quale può essere definito solo
sulla base di prove che trovino una legittima introduzione in esso. In
altre parole, non conta che un certo orientamento di ricerca sia stato
agevolato da una piuttosto che da altra fonte, ma solo il contenuto
delle prove che, sia pure in relazione a quell’orientamento, gli
ufficiali o gli agenti predetti hanno correttamente acquisito e di cui
siano legittimamente in grado ed in dovere di dar conto.
Ciò premesso, per quanto si riferisce in particolare al sollevato
profilo di incostituzionalità nei confronti dell’art. 109 della
Costituzione l’Avvocatura osserva che la dipendenza della polizia
giudiziaria della magistratura, anche sul piano della subordinazione
funzionale, non dovrebbe essere intesa come esclusiva ed assoluta, in
quanto la citata norma costituzionale, quando statuisce che l’autorità
giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, mirerebbe
semplicemente a consentire al giudice, senza doversi rivolgere al
potere esecutivo, di attuare concretamente le attività materiali
condizionanti in modo immediato l’esercizio della sua funzione, e
garantirebbe altresì il cittadino, attraverso l’accennata
sottoposizione funzionale, contro eventuali abusi delle forze di
polizia ed ingerenze ed interferenze di altri organi.
La disposizione impugnata, lungi dall’incidere sui rapporti fra il
giudice e la polizia giudiziaria nei sensi di cui all’art. 109 della
Costituzione, troverebbe la sua giustificazione in un interesse di
carattere generale, in quanto diretta a rendere più efficiente
l’attività degli organi di polizia in ordine all’accertamento dei
reati, né potrebbe mai consentire reticenze a favore non già
dell’informatore, ma dell’autore del reato.
Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione del principio di
eguaglianza sotto entrambi i profili dedotti nell’ordinanza di
rimessione, l’Avvocatura fa rilevare che nella specie si
verificherebbero le condizioni che permettono al legislatore di
disciplinare diversamente situazioni che egli considera differenziate:
la norma impugnata concernerebbe, infatti, una particolare situazione
obiettiva, in relazione ad una intera Categoria di funzionari ed in
base a valide ragioni fondate sull’interesse della collettività.
Concludeva, pertanto, l’Avvocatura chiedendo la dichiarazione di
infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale proposte.
Nell’udienza pubblica del 9 ottobre 1968, l’Avvocatura insisteva
nelle conclusioni già formulate.
1. – Formalmente è denunciata la sola proposizione dell’ultimo
comma dell’art. 349 del Codice di procedura penale, che dispone: “il
giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria a rivelare i nomi delle persone che hanno ad essi fornito
notizie”; ma in realtà tale proposizione forma sintatticamente e
logicamente tutt’uno con quella che immediatamente la segue,
integrandone il precetto: “e non può ricevere, a pena di nullità,
dagli ufficiali od agenti predetti notizie avute da persone i cui nomi
essi non ritengono di dovere manifestare”. È dall’intero contesto
dell’ultimo comma dell’art. 349, che risulta, nel suo compiuto
significato, la norma in contestazione: puntualmente corrispondente,
nella sostanza, a quella espressa, con più semplice dizione e più
lato riferimento soggettivo, dall’art. 246, ultimo comma, del Codice
del 1913: “i pubblici ufficiali non debbono esporre notizie raccolte da
persone i cui nomi non credano di manifestare al giudice” (si vedano
pure le analoghe formule degli artt. 445 e 472, rispettivamente del
Progetto del 1905 e del Progetto del 1911).
Così disponendo, come chiaramente si evince dai lavori preparatori
del tempo, volle il precedente Codice dirimere le dispute dottrinali e
le contrastanti interpretazioni giurisprudenziali che si erano
manifestate sotto il vigore del Codice del 1865, allorché, nella
mancanza di norma apposita, il segreto di polizia veniva tuttavia
affermato, riconducendolo al segreto d’ufficio e al segreto
professionale di cui all’art. 288. Ma volle sopratutto il legislatore
evitare il pericolo di abusi, in precedenza lamentati o ipotizzati,
espressamente statuendo l’ovvio principio non essere ammissibile
deporre sulla fede di un confidente del quale non si faccia il nome e
che di conseguenza non potrebbe a sua volta essere chiamato a
testimoniare personalmente in giudizio. In tal modo la riforma del 1913
tendeva a conciliare, in materia di tanta delicatezza per la natura e
per il peso dei diversi interessi che in essa interferiscono, “la
necessità sociale del segreto della polizia con l’esercizio del
diritto di difesa” (Rel. Sottocommissione Pessina, par. XCII).
Identico è il significato e identica la ratio dell’attuale ultimo
comma dell’art. 349 del Cod. proc. penale, che si apparenta perciò,
sotto questo aspetto, alle disposizioni dello stesso Codice che
prescrivono l’uso processuale degli scritti anonimi (artt. 8 e 141) e
fanno divieto ai testimoni di “deporre sulle voci correnti nel
pubblico” intorno ai fatti della causa (art. 349, comma quarto).
2. – Ciò premesso, e passando ad esaminare partitamente le singole
censure contenute nell’ordinanza, non si ravvisa contrasto tra la norma
impugnata e l’art. 109 della Costituzione, dovendo quest’ultimo, per
il suo spirito informatore e per il suo contenuto normativo, ritenersi
estraneo alla materia delle prove, in genere, e delle prove
testimoniali, in specie.
L’art. 109, a prescindere dalle sue possibili implicazioni di
carattere organizzativo, delle quali molto si è discusso e tuttora si
discute, ma che qui non rilevano, ha comunque e per intanto il preciso
e univoco significato (sul quale questa Corte si è soffermata nella
sentenza del 6 giugno 1963, n. 94) di istituire un rapporto di
dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dalla autorità
giudiziaria, escludendo interferenze di altri poteri nella condotta
delle indagini, in modo che la direzione ne risulti effettivamente
riservata alla autonoma iniziativa dell’autorità giudiziaria medesima.
In questo ordine di idee, l’art. 220 del Cod. proc. pen. nel testo
modificato dalla Novella del 1955, impone agli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria l’obbligo di “eseguire gli ordine del giudice
istruttore e del pretore”, con riguardo, evidentemente, a singoli atti
o adempimenti di volta in volta richiesti, stabilendo altresì, in
linea più generale, che essi esercitano le loro attribuzioni “alla
dipendenza e sotto la direzione del procuratore generale presso la
Corte di appello e del procuratore della Repubblica”; mentre poi il
secondo comma del medesimo articolo ed il successivo art. 223
provvedono in qualche misura a rendere operanti detti vincoli di
subordinazione configurando le relative responsabilità e le connesse
sanzioni disciplinari.
È chiaro allora che le limitazioni alla prova testimoniale di cui
all’ultimo comma dell’art. 349 del Cod. proc. pen. non incidono sui
descritti vincoli di subordinazione funzionale (né la situazione
muterebbe ove pure, in ipotesi, si trattasse invece di subordinazione
gerarchica), poiché ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, non
diversamente da ogni altro pubblico ufficiale, si configurano, quando
assumano nel processo la qualità di testimoni, esclusivamente come
tali, senza che gli obblighi e i diritti ad essi imposti o riconosciuti
in questa veste possano comunque riuscire alterati nell’uno o
nell’altro senso dai particolari rapporti di dipendenza in cui, sotto
altri profili e ad altri effetti, essi possono trovarsi nei confronti
della stessa autorità giudiziaria precedente.
3. – Secondo l’ordinanza, il jus tacendi riconosciuto agli
ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria, in connessione con la
sancita inammissibilità di deposizioni basate unicamente su
informazioni dei loro confidenti, violerebbe l’art. 109 anche perché
precluderebbe al giudice l’accertamento della verità, operandosi così
“un ingiustificato rovesciamento fra le posizioni reciproche della
polizia giudiziaria e dell’autorità giudiziaria”. Ma quanto osservato
al punto precedente vale a mostrare come un siffatto “rovesciamento”
non sussiste, poiché, da un lato, i divieti dell’ultimo comma
dell’art. 349 concernono il testimone, e perciò l’ufficiale od agente
di polizia giudiziaria in quanto testimone, e non già in quanto organo
ausiliario dell’ufficio giudiziario, posto alle dipendenze di questo
per lo svolgimento delle indagini; mentre, d’altro lato, l’art. 109
della Costituzione nulla dice, neppure per implicito, in ordine
all’estensione dei poteri di cognizione spettanti al giudice nel
processo penale.
È da aggiungere che il caso limite, cui espressamente si riferisce
il giudice istruttore di Torino, del funzionario di polizia giudiziaria
che, avvalendosi della facoltà derivante dall’ultimo comma dell’art.
349 del Cod. proc. pen. illecitamente favorisca l’impunità di chi
dovrebbe, a qualsiasi titolo, assumere la veste di imputato, esula
dall’ipotesi prevista dalla norma impugnata, la quale non potrebbe
certamente essere invocata per giustificare l’omessa denuncia degli
indiziati di un reato, ogni qual volta ne ricorrano le condizioni di
legge. Questa Corte è chiamata a giudicare della legittimità
costituzionale della disposizione del Codice, nella sua astratta
generalità, e non può portare il suo esame sugli abusi che, traendone
pretesto, fossero eventualmente posti in essere da funzionari poco
scrupolosi, e nei confronti dei quali la legislazione contempla, del
resto, appropriati mezzi repressivi.
4. – È anche infondata la censura di violazione dell’art. 3,
primo comma, della Costituzione.
Sotto il profilo della diversità di trattamento nei confronti di
ogni altro testimone, è sufficiente rilevare che tale diversità non
concreta una discriminazione in favore di determinati soggetti, essendo
invece determinata da obiettive ragioni inerenti alla pubblica funzione
da essi svolta in circostanza sempre difficili, e rese talora anche
più malagevoli dal persistere di mentalità e fatti di costume che,
lungi dall’incoraggiare i cittadini a collaborare lealmente con la
giustizia, possono a volte scoraggiare persino gli onesti dal fornire
gli indizi in loro possesso atti alla individuazione dei colpevoli di
reati.
Queste stesse considerazioni valgono a giustificare la diversa
disciplina del segreto di polizia nei confronti con altri segreti
nonché la posizione differenziata che ne risulta per gli ufficiali ed
agenti di polizia giudiziaria rispetto ad altre categorie di pubblici
ufficiali: diversità che non sono pertanto né arbitrarie né
irragionevoli e non contrastano con alcun principio costituzionale,
mentre anzi trovano il loro ultimo fondamento nell’interesse alla
realizzazione della giustizia, che – come questa Corte ebbe ad
affermare in altra occasione (sentenza 3 marzo 1966, n. 18) – “fra
l’altro, vale ad assicurare l’esercizio di tutte le libertà” ed “è
anch’esso garantito, in via primaria, dalla Costituzione”.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 349, ultimo comma, prima parte, del Codice di procedura
penale, sollevata con ordinanza del 16 marzo 1966 dal giudice
istruttore del Tribunale di Torino, in riferimento agli artt. 109 e 3
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 novembre 1968.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE.