Sentenza N. 114 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
06/07/1970
Data deposito/pubblicazione
06/07/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/06/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
– Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
e 262 del testo unico delle leggi per le imposte dirette, approvato
con D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 17 luglio 1968 dal Consiglio nazionale
forense sul ricorso dell’avv. Francesco Toro, iscritta al n. 231 del
registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 318 del 14 dicembre 1968;
2) ordinanza emessa il 30 gennaio 1969 dalla Corte d’appello di
Venezia nel procedimento civile vertente tra l’esattoria delle imposte
dirette di Motta di Livenza, l’Amministrazione delle finanze dello
Stato e la società “Mangimi S. Bovo”, iscritta al n. 150 del registro
ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 128 del 21 maggio 1969;
3) ordinanza emessa il 27 marzo 1969 dal tribunale di Treviso nel
procedimento civile vertente tra l’esattoria delle imposte dirette di
Conegliano e la società “Gilmar’s”, iscritta al n. 191 del registro
ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 152 del 18 giugno 1969.
Visti gli atti di costituzione dell’Amministrazione finanziaria
dello Stato e di Toro Francesco;
udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 1970 il Giudice relatore
Luigi Oggioni;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Vito Cavalli, per
l’Amministrazione finanziaria dello Stato.
1. – Con decreto 5 febbraio 1966 l’Intendente di finanza di Latina,
dato atto che l’avvocato Francesco Toro, iscritto nell’albo della
stessa città, non aveva corrisposto per sei rate consecutive le
imposte sui redditi derivanti dall’esercizio professionale, deliberava
la sua sospensione dall’esercizio di questa attività, a termini degli
artt. 261 e 262 del testo unico delle leggi per le imposte dirette n.
645 del 1958. In seguito, dopo dichiarato inammissibile dal Ministro
delle finanze il ricorso proposto dal Toro contro la delibera
dell’Intendente, questi richiedeva il Consiglio dell’Ordine degli
avvocati e procuratori di Latina per i provvedimenti di competenza in
ordine all’iscrizione nell’albo, ai sensi dell’art. 262.
Con delibera 5 giugno 1967 il Consiglio stesso, ritenuto quanto
precede e ritenuto di essere stato chiamato a provvedere in via
amministrativa, deliberava la sospensione dell’avv. Toro dall’attività
professionale, a tempo indeterminato; e ciò sempre a termine dei
surricordati articoli del testo unico.
Con ricorso 4 agosto 1967 l’avv. Toro impugnava davanti al
Consiglio nazionale forense la delibera di cui sopra, chiedendone
l’annullamento per ragioni di merito e cioè “per impossibilità
assoluta di fare fronte all’ingiusto onere fiscale” e, comunque,
chiedendo che fosse sottoposta a questa Corte la questione di
legittimità costituzionale delle indicate norme del testo unico (artt.
261 e 262), questione che l’avv. Toro aveva già sollevata davanti al
Consiglio dell’Ordine, che l’aveva disattesa perché sollevata in sede
amministrativa e non giurisdizionale.
Il ricorso veniva discusso nella seduta 17 luglio 1968 del
Consiglio nazionale che emetteva ordinanza per sottoporre al giudizio
di questa Corte l’esame di costituzionalità dei cennati articoli in
riferimento agli artt. 3 e 4 della Costituzione.
Nell’ordinanza si osserva, in sostanza, che le disposizioni
impugnate, in base alle quali il Consiglio dell’Ordine sarebbe chiamato
solo a dare corso alla deliberazione dell’Intendente, senza poter
effettuare un riesame del merito, porrebbero in essere una disparità
di trattamento a danno dei professionisti iscritti ad albi i quali, a
differenza degli altri contribuenti, nei cui confronti è prevista la
sola ammenda, sarebbero sottoposti ad una ben più grave sanzione, non
razionalmente giustificata.
Inoltre le suddette norme del T.U. del 29 gennaio 1958 priverebbero
il professionista della tutela giurisdizionale relativamente al
provvedimento dell’Intendente, che impedirebbe così l’esercizio del
diritto al lavoro garantito dall’art. 4 della Costituzione, ed
apparirebbero perciò censurabili anche sotto questo profilo.
Avanti alla Corte costituzionale si è fuori termine costituito
l’avv. Toro, rappresentato e difeso dall’avv. Augusto Castaldo, che
nelle proprie deduzioni ha sviluppato le censure di illegittimità come
sopra enunciate dal Consiglio nazionale forense, prospettandone altre e
diverse, tra cui la pretesa violazione anche degli artt. 2, 13 e 22
della Costituzione.
2. – Con ordinanza emessa il 30 gennaio 1969, la Corte di appello
di Venezia ha pure sollevato questione di legittimità costituzionale
degli stessi artt. 261 e 262 del citato T.U. sulle imposte dirette,
nella parte in cui prevedono che l’Intendente di finanza dispone che
l’esattore presenti ricorso per la dichiarazione di fallimento del
debitore moroso di sei rate di imposte sui redditi derivanti da imprese
commerciali, assumendo che tale disposizione violerebbe il principio di
eguaglianza. Invero la previsione della dichiarazione di fallimento per
debito d’imposta, senza il concorso di altri elementi che denuncino
l’insolvenza del debitore, porrebbe a carico del commerciante un
trattamento ben più severo della tenue sanzione dell’ammenda prevista
per gli altri contribuenti morosi. Né la peculiarità della
fattispecie sarebbe sufficiente a spiegare razionalmente la disparità
di trattamento denunziata. Il ricorso alla dichiarazione di fallimento
risponderebbe infatti non già alle finalità di esecuzione concorsuale
che le sono proprie in base all’ordinamento, ma piuttosto ad una
funzione intimidatrice e preventiva propria della sanzione penale, che
inciderebbe gravemente ed ingiustificatamente nei confronti
dell’inadempiente.
L’Avvocatura generale dello Stato, costituita in questo giudizio in
rappresentanza e difesa del Ministro delle finanze, contesta nei suoi
scritti difensivi, ritualmente depositati, la fondatezza della
questione, osservando sostanzialmente che l’inerenza del debito di
imposta al reddito derivante dallo svolgimento dell’attività
commerciale, e la conseguente rilevanza dell’interesse pubblico
tutelato, non potrebbe consentire l’ulteriore svolgimento di
un’attività commerciale a quel soggetto che si rifiuta di adempiere il
proprio dovere tributario, sancito dall’art. 53 della Costituzione. La
procedura in esame apparirebbe così come il mezzo scelto dal
legislatore per garantire razionalmente il detto interesse, e sarebbe
d’altra parte adeguata alle specifiche condizioni e qualificazioni dei
trasgressori.
Con ciò dovrebbe escludersi la lamentata violazione del principio
di eguaglianza, che, secondo la giurisprudenza della Corte, non
comporterebbe il divieto per il legislatore di emanare norme concrete
tendenti a regolare speciali situazioni giuridiche.
3. – Questione analoga è stata altresì sollevata con ordinanza
del tribunale di Treviso del 27 marzo 1969, che ha poi ravvisato una
violazione del principio di eguaglianza per effetto della dichiarazione
di fallimento per debito d’imposta anche sotto un ulteriore profilo. La
dichiarazione, che, prescindendo dalla verifica dello stato
d’insolvenza, assumerebbe carattere sanzionatorio, indurrebbe invero
una disparità di trattamento nell’ambito della stessa categoria degli
imprenditori commerciali, a seconda che esista o meno una posizione
debitoria del singolo ai sensi dell’art. 261 in esame, e tale
differenziazione rispetto ad ogni altro tipo di debito non troverebbe
razionale giustificazione nella natura fiscale dell’inadempienza.
1. – I tre giudizi di cui in epigrafe, avendo ad oggetto questioni
basate su motivi in parte comuni, in relazione allo stesso testo
legislativo, possono essere riuniti e decisi congiuntamente con unica
sentenza.
2. – Circa l’ordinanza del Consiglio nazionale forense, va
anzitutto riconosciuto che il rinvio a questa Corte risulta disposto
“nel corso di un giudizio davanti ad autorità giurisdizionale” come
prescrive l’art. 23 della legge n. 87 del 1953.
Questa Corte, con decisione n. 110 del 1967 ha ritenuto che, nei
procedimenti disciplinari di cui agli artt. 38 e seguenti della legge
n. 36 del 1934 sull’ordinamento delle professioni di avvocato e
procuratore, il Consiglio nazionale, a differenza dei singoli Consigli
dell’Ordine, svolge, quando è chiamato a decidere sui ricorsi contro i
provvedimenti adottati da detti Consigli, funzione giurisdizionale per
la tutela di un interesse pubblicistico, esterno e superiore a quello
dell’interesse del gruppo professionale: il che può trovare conferma
nella ricorribilità contro le decisioni del Consiglio nazionale alle
Sezioni unite della Corte di cassazione.
Uguale considerazione va fatta per i giudizi che si svolgono
davanti al Consiglio nazionale su ricorsi avverso provvedimenti dei
Consigli dell’Ordine riguardanti la sospensione dell’esercizio
professionale in base all’art. 261 del testo unico sulle imposte
dirette.
Vero che i Consigli dell’Ordine non sono chiamati, in questo caso,
a differenza di quanto avviene nei comuni giudizi disciplinari, a
valutare direttamente il comportamento del professionista e ad
applicare eventualmente, a loro giudizio, la congrua sanzione, né
sono chiamati a dichiarare la sospensione di diritto secondo gli artt.
42 e 43 della legge professionale: bensì debbono far derivare il
provvedimento da quanto “disposto” dall’Amministrazione finanziaria
(art. 261 testo unico citato).
Ciò tuttavia non toglie che, ove un gravame contro il
provvedimento conseguenziale del Consiglio dell’Ordine sia portato
all’esame del Consiglio nazionale, debba riconoscersi il carattere
giurisdizionale sia alla sede adita, sia alle funzioni ivi esercitate.
Al Consiglio nazionale è sempre attribuita, in questa fase
conclusiva dello speciale iter disciplinare, un notevole margine di
giudizio, destinato al controllo se gli effetti costitutivi del
provvedimento sanzionatorio siano stati conseguiti dal punto di vista
della legittimità della procedura, con obbiettiva applicazione della
legge.
In questo controllo di legittimità si sostanzia un potere
decisorio e quindi, conseguentemente, il carattere giurisdizionale
della funzione, esercitata con l’effetto di rendere ammissibile la
proposizione di questioni di costituzionalità delle norme da
applicare.
3. – L’ordinanza del Consiglio nazionale forense prospetta
l’ipotesi di illegittimità delle suindicate norme del testo unico
delle imposte dirette, sotto il profilo di loro contraddizione con gli
artt. 3 e 4 della Costituzione. Ciò nel senso che, mentre per la
generalità dei cittadini il mancato pagamento di sei rate consecutive
di imposte importa la sanzione della sola ammenda da lire mille a
ventimila, viceversa per le categorie che esercitano attività
professionali, previa iscrizione obbligatoria in albi speciali,
l’Intendente dispone, a seguito della stessa infrazione, la sospensione
dell’attività stessa, ponendo a carico dei professionisti un
trattamento più grave e severo e, quindi, sperequato.
Questa sperequazione risulterebbe tanto più evidente, qualora si
consideri che la sospensione, sia pure temporanea, verrebbe ad incidere
sul diritto al lavoro, fonte di mezzi di sussistenza, garantito
dall’art. 4 della Costituzione.
La questione non è fondata.
Come questa Corte ha ritenuto e ritiene, il principio di
uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, “senza distinzione
di condizioni personali e sociali” (art. 3) non va inteso nel senso di
un livellamento di situazioni da sottoporre in ogni caso a disciplina
uniforme, bensì nel senso che quel principio debba valere soltanto a
parità di presupposti soggettivi ed oggettivi, e non quando, per
diversità di presupposti, sia razionalmente giustificata l’adozione di
norme differenziate.
Il sistema che risulta dalle denunciate norme è rispondente a
razionali criteri distintivi.
La posizione del contribuente moroso, che non sia dotato di alcuna
qualifica particolare, è da porsi su piano diverso da quello di chi
eserciti attività vincolate all’iscrizione in albi professionali e che
pur incorra nella stessa inadempienza.
Il divario consiste in ciò che, mentre per la prima categoria non
sussiste, né può ovviamente sussistere, un vincolo formale
condizionante l’attività di produzione del reddito, altrettanto non è
per la seconda categoria.
Gli Ordini, preposti alla tenuta degli albi ed alla disciplina
degli iscritti, assumono funzioni di garanzia e, quindi di
responsabilità nell’interesse pubblico e, mediatamente, nell’interesse
privato: il che spiega come, anche in questo caso, l'”alta vigilanza”
spetti al Ministro di grazia e giustizia (art. 15 legge
professionale). A sua volta l’iscritto, per il solo fatto
dell’iscrizione, preceduta da giuramento (art. 12 legge predetta), è
obbligato alla rigorosa osservanza di principi deontologici di
dignità e di decoro, sotto la comminatoria di sanzioni, adeguate al
caso.
Pertanto, trattandosi di due categorie di evasori fiscali, non
paragonabili, per differente struttura ed operatività delle rispettive
situazioni e, quindi, diverse, sia dal punto di vista soggettivo che da
quello oggettivo, ne deriva che debba ritenersi spettare al legislatore
la determinazione delle conseguenti sanzioni, da applicare
rispettivamente nei due casi.
Unico limite a questo potere è dato dalla razionalità del
sistema, che è, sotto questo aspetto, sottoponibile al sindacato della
Corte.
Nel caso in esame, il limite risulta rispettato.
Secondo gli artt. 261 e 262 in esame, la sospensione (oltre che
preceduta da cautele, come dilazioni, possibilità di provare la
temporanea incapacità economica, reclamo al Ministro delle finanze)
dà luogo ad un provvedimento finale di natura disciplinare che ha
carattere di estremo impulso ad adempiere onde ottenere la revoca del
provvedimento (art. 263 T.U.) ed insieme di sanzione per la dimostrata
resistenza (durante il periodo non breve di un anno intero) all’obbligo
primario di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità
contributiva” (art. 53 Cost.). Tutto ciò non difetta di razionalità,
perché tutela quella linea di dignità e di decoro, dalla quale gli
iscritti nell’albo mai debbono deflettere
La questione, così come sottoposta in relazione all’art. 3 della
Costituzione, deve essere dichiarata non fondata.
Ad uguale conclusione deve addivenirsi per quanto riguarda la
medesima questione, posta in relazione all’art. 4 della Costituzione.
Infatti, il riconoscimento del diritto, garantito da questo
articolo, è compatibile, come questa Corte ha più volte ritenuto
(sentenze n. 61 del 1965; n. 7 del 1966 e nn. 16 e 102 del 1968) con
specifici limiti e condizioni, che la legge ponga a tutela di interessi
generali preminenti sugli interessi particolari. Il che, con richiamo a
quanto suesposto, è sufficiente ricordare per escludere, anche sotto
questo secondo aspetto, la fondatezza della questione.
4. – Con l’ordinanza di rinvio della Corte di appello di Venezia e
con quella del tribunale di Treviso, la questione, esaminata al numero
precedente, viene proposta per il fallimento da debito d’imposta,
promosso dall’Intendente di finanza nei confronti di imprenditori
commerciali che per sei rate consecutive non adempiano al pagamento dei
tributi sui redditi di esercizio.
L’ordinanza della Corte d’appello così puntualizza la questione.
Si premette e si ammette che il fallimento di che trattasi è istituto
speciale di diritto tributario che prescinde dal previo accertamento
dell’insolvenza del debitore moroso, nonché dalla disciplina comune
del fallimento e che procede mediante modalità e forme autonome. Si
aggiunge, tuttavia, che l’istituto sembra difettare di giustificazione,
perché, per una causa (l’inadempienza) meno rilevante dell’insolvenza,
tende a conseguire gli stessi gravi effetti personali e patrimoniali:
ciò, mediante la sovrapposizione di una finalità intimidatrice
preventiva, propria delle sanzioni penali, alla finalità esecutiva,
propria del fallimento ordinario. Si osserva, poi che nessuna
giustificazione avrebbe il trattamento meno rigoroso (ammenda)
riservato al debitore in genere, a confronto del debitore che sia
imprenditore commerciale (fallimento): a pari presuposto di morosità
dovrebbe corrispondere trattamento pari od equivalente, in osservanza
dell’art. 3 della Costituzione.
L’ordinanza del tribunale di Treviso è informata agli stessi
concetti.
5. – La questione non è fondata.
Va premesso che le norme contenute nell’art. 262 del T.U. in
esame, riguardanti la particolare procedura disposta per addivenire
alla dichiarazione di fallimento dell’esercente imprese commerciali,
sono collegate con l’art. 4 cpv. R.D. 16 marzo 1942, n. 267, sulla
disciplina del fallimento ordinario, che fa salve le disposizioni delle
leggi speciali circa il fallimento del contribuente per debito
d’imposta.
Nel testo unico sono state trasfuse, con ulteriori precisazioni, le
norme speciali già in proposito emanate sino dal 17 settembre 1931 col
R.D. n. 1608.
Ciò premesso, la Corte osserva che la procedura in esame riveste
natura e carattere peculiari alla categoria di coloro che esercitano
attività economica organizzata ad impresa, in quanto obbligati a
pagare le imposte sui redditi di esercizio (art. 261, secondo comma,
T.U. citato).
Di conseguenza, per questa sola considerazione, vengono qui a
difettare i noti presupposti che valgano a ritenere fondata la
questione sulla base del denunciato art. 3 della Costituzione.
L’ordinanza della Corte d’appello di Venezia, pur ammettendo la
diversità di situazioni, prospetta tuttavia, particolarmente, la
questione sotto il profilo di una sproporzione di trattamento tra la
sanzione riservata agli imprenditori commerciali e quella riservata ai
comuni debitori di imposta: tanto più che per i primi è sufficiente
il solo presupposto dell’inadempienza in luogo della condizione di
accertata “insolvenza”.
La Corte osserva che nemmeno il trasferimento sul piano della
misura delle sanzioni, giova a ritenere fondata la questione.
Come più volte ritenuto (sentenze n. 25 del 1967; n. 104 del 1968
e n. 48 del 1969) è affidata al legislatore la valutazione
discrezionale delle singole condotte antigiuridiche al fine di farne
derivare il trattamento sanzionatorio da applicare: il che, rapportato
all’art. 3 della Costituzione, si risolve nella giustificazione della
prevalenza della differenziazione sulla uniformità (citata sentenza n.
104 del 1968).
Unico limite è segnato dalla razionalità dell’apprezzamento del
legislatore. Questo limite, per quanto riguarda la questione in esame,
non è da ritenersi superato.
Invero, il sistema della legge risulta razionalmente utilizzato dal
legislatore come mezzo esecutivo strumentale, accompagnato da garanzie
giurisdizionali, di fronte a prolungate resistenze del debitore
imprenditore commerciale, per la realizzazione, non più dilazionabile,
del credito fiscale: il tutto coordinato in modo da consentire al
debitore moroso una serie di giustificazioni, dilazioni e ricorsi
preventivi al fine di impedire ogni intempestivo provvedimento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 261 e 262 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette
(decreto del Presidente della Repubblica 29 gennaio 1958, n. 645)
sollevata con le ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli artt.
3 e 4 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 giugno 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI.