Sentenza N. 12 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
02/02/1971
Data deposito/pubblicazione
02/02/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
29/01/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
2 della legge 18 dicembre 1967, n. 1198 (modificazioni alla legge 24
marzo 1958, n. 195, sulla costituzione e funzionamento del Consiglio
superiore della magistratura), e dell’articolo 34, secondo comma, del
r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511 (guarentigie della magistratura),
promossi con ordinanze emesse il 12 ed il 15 maggio 1970 dalla Sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura nei
procedimenti disciplinari rispettivamente a carico di Monteverde Lino e
Albanese Massimo, iscritte ai nn. 208 e 220 del registro ordinanze 1970
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 184 del 22
luglio 1970 e n. 222 del 2 settembre 1970.
Visti gli atti di costituzione di Lino Monteverde e Massimo
Albanese;
udito nell’udienza pubblica del 16 dicembre 1970 il Giudice
relatore Francesco Paolo Bonifacio.
1. – Con ordinanza del 12 maggio 1970 la Sezione disciplinare del
Consiglio superiore della magistratura, pronunciandosi su alcune
eccezioni sollevate dal dott. Lino Monteverde, sottoposto a
procedimento disciplinare, ha ritenuto rilevanti e non manifestamente
infondate due questioni di legittimità costituzionale concernenti gli
artt. 1 e 2 della legge 18 dicembre 1967, n. 1198, e l’art. 34, comma
secondo, del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511.
Nel provvedimento di rimessione, premessa la natura giurisdizionale
del procedimento disciplinare a carico dei magistrati, si osserva che
la devoluzione della relativa competenza ad una sezione anzicché al
Consiglio stesso giustifica il dubbio che gli artt. l e 2 della legge
n. 1198 del 1967 si pongano in contrasto con gli artt. 104 e 105 della
Costituzione. Quanto alla seconda questione, l’ordinanza ritiene che
l’art. 34, secondo comma, della citata legge sulle guarentigie della
magistratura, per il fatto che limita l’assistenza del difensore alla
sola fase della discussione orale con esclusione di quella istruttoria,
contrasti con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione.
La Sezione ha ritenuto, invece, manifestamente infondata
l’eccezione sollevata dalla parte circa l’illegittimità dell’art. 32,
comma terzo, del r.d.l. n. 511 del 1946 ed irrilevante quella
concernente l’art. 33, comma terzo, dello stesso regio decreto.
2. – Con altra ordinanza, emessa il 15 maggio 1970 nel procedimento
disciplinare a carico del dott. Massimo Albanese, la stessa Sezione ha
riproposto le stesse due questioni di legittimità costituzionale ed ha
devoluto all’esame di questa Corte anche l’art. 34, secondo comma, del
citato regio decreto del 1946, nella parte in cui si stabilisce che la
discussione ha luogo a porte chiuse. A tal proposito la Sezione osserva
che la pubblicità del dibattimento è garanzia di giustizia, perché
è diretta a consentire alla generalità dei cittadini, nel cui nome la
giustizia stessa è amministrata (art. 101 Cost.), il controllo
dell’imparzialità della decisione e della sua motivazione (art. 111
Cost.), e contribuisce ad offrire la certezza che i diritti di tutti
siano tutelati (artt. 24 e 28 Cost.): di tal che le eccezioni a
siffatto principio sono legittime solo se siano dirette a salvaguardare
interessi costituzionalmente garantiti.
3. – La difesa dei dott. Massimo Albanese e Lino Monteverde –
costituitisi innanzi a questa Corte con atti depositati il 30 luglio
1970 – ha chiesto che le questioni innanzi descritte vengano
riconosciute fondate.
In una memoria depositata il 3 dicembre 1970 la difesa, dopo aver
sostenuto, con ampi riferimenti alla giurisprudenza, alla dottrina ed
alla storia della legislazione in materia, la natura giurisdizionale
della funzione disciplinare attribuita dalla Costituzione al Consiglio,
si sofferma sulle singole questioni, a proposito delle quali espone –
anche qui con vasti richiami alla dottrina ed a precedenti
giurisprudenziali – un complesso di argomentazioni che possono così
sintetizzarsi:
a) L’illegittimità del conferimento alla Sezione disciplinare di
una funzione che la Costituzione sicuramente attribuisce all’intero
Consiglio – nonostante le precedenti pronunce di manifesta infondatezza
in passato adottate dalla stessa Sezione e ribadite dalle Sezioni unite
della Cassazione anche in una recente pronunzia del gennaio dello
scorso anno – risulta, anzitutto, dalle fondate critiche che possono
muoversi alle argomentazioni che sono state addotte a fondamento della
tesi contraria: l’analogia fra Consiglio ed organi giudiziari
(Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti) che, pur previsti
dalla Costituzione, possono legittimamente articolarsi in Sezioni, è
del tutto fallace, perché solo a proposito del primo la Carta ha
disciplinato la struttura del nuovo Organo; la mancanza di un espresso
divieto costituzionale nulla dimostra, perché nel silenzio della
Costituzione il legislatore non è autorizzato a smembrare il Consiglio
ed a dargli una fisionomia diversa proprio a proposito di una delle sue
più impegnative funzioni, creando una sezione che non costituisce una
sua articolazione, ma un organo a sé stante: vale a dire una vera e
propria autonoma corte disciplinare. In verità quando il costituente,
a proposito di organi costituzionali, ha autorizzato la formazione di
organi derivati, lo ha fatto con esplicita disposizione (ad es. art.
72, terzo comma): laddove, nella materia in esame, è stato il
legislatore ordinario ad espropriare il Consiglio di una sua
competenza. Le critiche che investono il modo in cui la sezione è
stata formata (affidamento della presidenza al Vice Presidente, con la
illogica conseguenza che la presidenza del Capo dello Stato viene meno
proprio quando viene esercitata la più delicata delle attribuzioni
conferite al nuovo organo; l’alterazione degli squilibri realizzati
nella struttura del Consiglio considerato nella sua normale
costituzione; l’esclusione della maggioranza dei componenti del
Consiglio stesso) corroborano la tesi della illegittimità
costituzionale, a favore della quale milita il fondamentale rilievo che
proprio nella materia disciplinare è necessaria la partecipazione di
tutto il Consiglio, perché si tratta di raffrontare la condotta del
magistrato non con una condotta tipicamente predeterminata dalla legge,
sibbene con una condotta ideale la cui ipotizzazione non può esser
data che da una sintesi degli apprezzamenti di tutti i membri del
Consiglio, non certo di una sola parte di essi, e ciò soprattutto in
considerazione dell’eterogeneità di struttura dell’organo. L’insieme
di queste argomentazioni inducono alla conclusione che la Costituzione
è da interpretarsi nel senso che esclusivamente all’intero Consiglio
spettano i provvedimenti disciplinari: ed alla stregua di ciò, la
legge vigente sarebbe valida solo se essa si potesse interpretare,
secondo un’isolata tesi dottrinale, nel senso che alla Sezione essa
attribuisca un limitato potere istruttorio. Né la tesi
dell’appartenenza al Consiglio della funzione disciplinare può trovare
ostacolo nella circostanza che a quell’organo partecipa il procuratore
generale presso la Corte di cassazione, al quale è nel contempo
riconosciuta la titolarità dell’azione disciplinare: tale titolarità
gli viene affidata solo dalla legge ordinaria e la sua abolizione si
armonizzerebbe con la Costituzione, che è da interpretare nel senso
che quell’azione è affidata esclusivamente al Ministro della
giustizia.
b) Quanto al contrasto fra l’art. 34, secondo comma, del r.d.l. n.
511 del 1946 e l’art. 24 della Costituzione, è certo che quella
disposizione, raffrontata con l’art. 32, esclude la partecipazione del
difensore alla fase istruttoria. Orbene una molteplicità di
argomentazioni – fra le quali hanno particolare rilevanza quelle
desumibili da noti precedenti giurisprudenziali di questa Corte che
hanno allargato la partecipazione difensiva nell’istruttoria penale –
dimostra la sicura illegittimità di siffatta totale esclusione: a
proposito della quale va ricordato che essa trova un riscontro storico
nell’analoga disciplina del procedimento innanzi al tribunale speciale
per la difesa dello Stato.
c) Infine illegittimo è il secondo comma dell’art. 34 dello
stesso decreto legge nella parte in cui impone che il dibattimento
abbia luogo a porte chiuse. Proprio la Corte costituzionale, con
sentenza n. 25 del 1965, ha riconosciuto che la pubblicità del
dibattimento è garanzia di giustizia, e deve riconoscersi che la
disposizione impugnata contrasta con tutti i precetti costituzionali
riferibili allo svolgimento del processo.
d) A proposito di quest’ultima questione, si osserva che,
dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione
impugnata, al procedimento disciplinare si dovrebbe applicare – in
forza del generico richiamo contenuto nell’ultimo comma dell’art. 34 -,
l’art. 423 del codice di procedura penale che consente, in alcuni casi,
deroghe al generale principio della pubblicità del dibattimento: e
resta affidato alla Corte di valutare se di tali deroghe possa
conoscersi in forza dei poteri conferiti dall’art. 27 della legge n.
87 del 1953 ovvero se possa sollevarsi in via incidentale la relativa
questione di legittimità costituzionale.
1. – Le due ordinanze della Sezione disciplinare del Consiglio
superiore della magistratura propongono questioni, in parte identiche,
attinenti tutte alla materia del procedimento disciplinare a carico dei
magistrati ed alla legittimità costituzionale dell’organo che ad esso
presiede. I relativi giudizi possono essere pertanto riuniti e decisi
con unica sentenza.
2. – In base ai provvedimenti di rimessione questa Corte è
chiamata a decidere: a) se siano costituzionalmente illegittimi, in
riferimento agli artt. 104 e 105 Cost., gli artt. 1 e 2 della legge 18
dicembre 1967, n. 1198, nella parte in cui essi ” demandano la
cognizione dei procedimenti disciplinari, anzicché all’intero
Consiglio, ad una sezione di esso composta di quindici membri eletti
all’interno dell’organo, la quale delibera, poi, con solo nove
componenti estratti a sorte”; b) se l’art. 34, secondo comma, del
r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, in quanto limita “l’assistenza del
difensore alla sola fase della discussione orale, con esclusione di
quella istruttoria”, contrasti con l’art. 24, secondo comma, Cost.; c)
se, infine, sia compatibile col principio di pubblicità dei
dibattimenti giudiziari, quale si evince dal complesso di varie
disposizioni costituzionali (artt. 101, 111, 24 e 28 Cost.), lo stesso
art. 34 che, nella prima parte dello stesso secondo comma, stabilisce
che “la discussione ha luogo a porte chiuse”.
3. – In via preliminare si rende necessario accertare se le
predette questioni siano state proposte, come richiede l’art. 1 della
legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, da “un giudice nel corso di un
giudizio”.
La Corte ritiene che questo presupposto sussista nel caso in esame.
Ai limitati fini che qui interessano, è sufficiente la constatazione,
non controvertibile, che il legislatore, con espresse ed univoche
statuizioni, ha conferito carattere giurisdizionale alla funzione ora
esercitata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della
magistratura. A tutela dell’indipendenza dei magistrati la legislazione
vigente -, riconfermando un principio che già aveva ricevuto
applicazione nell’ordinamento democratico prefascista e che ancor più
valida giustificazione trova nella posizione che all’ordine giudiziario
nel suo complesso ed ai singoli suoi appartenenti riserva la
Costituzione repubblicana – stabilisce che il procedimento disciplinare
si svolga nelle forme e nei modi che sono tipici del processo,
affinché al provvedimento destinato ad incidere sullo stato
dell’interessato, adottato con un atto che la legge definisce
“sentenza” (cfr. la rubrica dell’art. 35 del r.d.l. n. 511 del 1946) e
contro il quale è ammesso il ricorso alle Sezioni unite della
Cassazione (art. 17, ultimo comma, legge 24 marzo 1958, n. 195), si
addivenga con le garanzie che sono proprie e tipiche della funzione
giurisdizionale. E non è senza rilievo la circostanza che il
procedimento disciplinare a carico dei magistrati, a differenza
dell’analogo procedimento a carico dei pubblici dipendenti, viene
instaurato da un soggetto (dal Ministro della giustizia, secondo l’art.
107, secondo comma, Cost.; anche dal procuratore generale presso la
Corte di cassazione, in base all’art. 14 della legge 24 marzo 1958, n.
195), rispetto al quale il Consiglio superiore è collocato in
posizione di assoluta estraneità ed indipendenza.
4. – Passando all’esame della prima questione, si deve ribadire
(cfr. sent. n. 44 del 1968) che il Consiglio superiore è stato voluto
dalla Costituzione in diretta attuazione del principio secondo il quale
” la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da
ogni altro potere” (art. 104) e che, in funzione di siffatta garanzia,
ad esso è stato riservato (art. 105) ogni provvedimento concernente lo
stato dei magistrati: sicché l’effetto proprio del conferimento di
tali attribuzioni al Consiglio è quello di escludere, in materia, la
competenza di altri pubblici poteri e di impedire che l’esercizio di
esse (salvo il caso dell’azione disciplinare) possa essere condizionato
ad iniziative esterne (cfr. sent. n. 168 del 1963). Ma, rispettata tale
riserva, la legge – alla quale è demandata, nell’ambito delle
indicazioni fondamentali contenute nell’articolo 104, la determinazione
della concreta struttura del Consiglio, ed alla quale lo stesso art.
105 rinvia per la disciplina che deve presiedere all’esercizio delle
funzioni ivi elencate – può legittimamente porre norme attinenti
all’organizzazione di quel consesso: e tali sono, indubbiamente,
quelle che concernono l’istituzione di un’apposita sezione
disciplinare. Dalle norme costituzionali di raffronto, in definitiva,
non è data in alcun modo la possibilità di dedurre che la
Costituzione abbia voluto che tutte le competenze elencate nell’art.
105 siano esercitate dal Consiglio nel suo plenum; ché invece, il
largo spazio riservato al legislatore ordinario induce a negare
l’esistenza di una siffatta direttiva. Né questa può ricavarsi da un
principio che, secondo la tesi sostenuta dalle parti, sarebbe comune a
tutti gli organi ai quali la Costituzione direttamente attribuisce
determinate competenze, principio del quale l’art. 72, terzo comma,
darebbe indiretta conferma. Ed invero è da ritenere che per quanto
riguarda l’ordinamento di tali organi sia necessario tener conto, di
volta in volta, della peculiarità delle singole funzioni e del grado
di maggiore o minore dettaglio col quale la Costituzione o leggi
costituzionali ne abbiano disciplinato la struttura ed il
funzionamento. E nella specie – come si è detto e come già fu messo
in luce, ad altri effetti, nella sent. n. 168 del 1963 – non c’è
dubbio che gli artt. 104 e 105 Cost. abbiano affidato al legislatore
ordinario un ampio potere di organizzazione.
Va peraltro aggiunto che, se nessun precetto costituzionale vieta
l’articolazione del Consiglio superiore in sezioni, nel determinare la
struttura di queste si deve rispettare l’autonomia del Consiglio, al
quale va demandata la scelta dei componenti, ed occorre necessariamente
tener conto delle linee fondamentali secondo le quali, in conformità
dell’art. 104 Cost., risulta strutturato il consesso. Con quest’ultima
affermazione si vuol dire che il legislatore non può istituire sezioni
deliberanti nelle quali non siano presenti componenti eletti dal
Parlamento o componenti appartenenti ad una delle categorie di
magistrati che concorrono alla formazione del Consiglio: e ciò non
perché in questo si faccia luogo a rappresentanza di interessi di
gruppo – il che sarebbe del tutto inconciliabile con il carattere
assolutamente generale degli interessi affidati alla cura di
quell’organo -, ma in considerazione del fatto che le linee strutturali
segnate nell’art. 104 Cost., ispirate all’esigenza che all’esercizio
dei delicati compiti inerenti al governo della magistratura
contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono
portatrici, devono trovare ragionevole corrispondenza nelle singole
sezioni, quando a queste siano commessi poteri deliberanti.
5. – Conforme ai principi ora enunciati è la struttura della
Sezione disciplinare delineata nell’art. 1 della legge impugnata,
secondo il quale essa è composta dal vice presidente del Consiglio,
che la presiede di diritto, da cinque magistrati di cassazione (di cui
due con ufficio direttivo), da tre magistrati di corte di appello, da
tre magistrati di tribunale e da tre componenti eletti dal Parlamento,
tutti nominati per elezione dal Consiglio stesso. Risulta da ciò che
tutte le categorie elettive che compongono il consesso unitario
concorrono – e, almeno tendenzialmente, in modo proporzionale – a
formare la Sezione, mentre, per quanto riguarda i membri di diritto, è
da osservare che il Presidente del Consiglio deve presiederla in alcuni
casi ed in tutti gli altri ha facoltà di presiederla quando lo ritenga
opportuno (art. 18 legge 24 marzo 1958, n. 195), e che l’esclusione del
presidente e del procuratore generale della Corte di cassazione trova
giustificazione, per il primo, nella circostanza che avverso le
decisioni della Sezione è previsto il ricorso alle Sezioni Unite
dell’organo che egli presiede e, per il secondo, nell’attribuzione allo
stesso della titolarità dell’azione disciplinare, conferitagli
dall’art. 14 della legge n. 195 del 1958 e della funzione requirente
presso la Sezione stessa (art. 1, ultimo comma, legge n. 1198 del
1967).
A diversa conclusione si deve invece pervenire per l’art. 2,
secondo il quale, nell’ambito della sezione, il collegio deliberante
per il singolo procedimento è composto, oltre che dal vice
presidente, da due membri eletti dal Parlamento, da tre magistrati di
Cassazione (di cui uno con ufficio direttivo) e da tre magistrati di
appello o di tribunale: tutti prescelti col metodo del sorteggio fra i
componenti della Sezione. In base a quanto innanzi è stato precisato,
la norma risulta viziata di illegittimità costituzionale perché
consente che il singolo collegio possa risultare composto con la totale
esclusione dei magistrati di appello o dei magistrati di tribunale.
Vero è che l’ultima parte del primo comma prevede che “almeno due” dei
suddetti magistrati debbano appartenere alla stessa categoria
dell’incolpato e che il secondo comma stabilisce che, procedendosi nei
confronti di un uditore o di un aggiunto, due dei componenti debbano
essere magistrati di tribunale: ma è ovvio che anche in questi casi il
meccanismo è tale da poter comportare l’esclusione dal collegio di
tutti i magistrati di appello o di tutti i magistrati di tribunale. E
risulta con ciò violato l’art. 104 Cost., perché nell’esercizio di
una delle più delicate competenze del Consiglio, non è assicurata la
presenza di tutte le categorie che, in base alla stessa legge,
concorrono alla formazione del consesso unitario.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve
necessariamente colpire, oltre che il primo ed il secondo comma, anche:
a) il quarto comma che – sulla imprescindibile base della struttura
organizzativa delineata nel primo comma – stabilisce una particolare
composizione del collegio nell’ipotesi in cui siano sottoposti a
procedimento disciplinare il primo presidente, il presidente aggiunto,
il procuratore generale della Corte di cassazione o il presidente del
tribunale superiore delle acque pubbliche: la dichiarazione di
illegittimità non riguarda, tuttavia, quella parte della disposizione
che per le suddette ipotesi prevede che la Sezione sia presieduta dal
Presidente del Consiglio; b) il quinto comma che, in diretta
connessione col primo, stabilisce il metodo del sorteggio.
6. – In conseguenza delle statuizioni indicate nel numero
precedente, la Sezione disciplinare eserciterà le sue funzioni nella
struttura precisata dalle disposizioni per le quali non interviene la
dichiarazione di illegittimità costituzionale. Il legislatore,
tuttavia, dovrà provvedere a dettare la disciplina per le supplenze
che si rendessero necessarie ed a regolare il modo in cui, nei casi nei
quali la presidenza viene assunta dal Presidente del Consiglio, debba
farsi luogo all’esclusione dal collegio di uno dei tre componenti
eletti dal Parlamento.
7. – La seconda questione è infondata. Entrambe le ordinanze,
partendo dal presupposto che sia preclusa l’assistenza del difensore
durante l’istruttoria, impugnano l’art. 34, secondo comma, del r.d.l.
31 maggio 1946, n. 511. Ma tale articolo riguarda esclusivamente la
fase dibattimentale, mentre quella istruttoria trova la sua disciplina
nell’art. 32 che, nel terzo comma, rinvia alle norme relative
all’istruttoria nei procedimenti penali “in quanto compatibili”; di tal
che il dubbio di illegittimità costituzionale prospettato dalle
ordinanze avrebbe dovuto investire questa disposizione, che invece non
è stata oggetto di denunzia.
8. – Infondata è anche la questione concernente lo stesso art. 34,
secondo comma, nella parte in cui esso dispone che “la discussione ha
luogo a porte chiuse”.
Sebbene da nessuna delle singole norme costituzionali di raffronto
indicante nell’ordinanza sia posta la regola della pubblicità dei
dibattimenti giudiziari, la Corte – ribadendo quanto fu già affermato
nella sentenza n. 25 del 1965 – ritiene che essa sia coessenziale ai
principi ai quali, in un ordinamento democratico fondato sulla
sovranità popolare, deve conformarsi l’amministrazione della giustizia
che in quella sovranità trova fondamento (art. 101, primo comma,
Cost.).
Questa regola, tuttavia, come la Corte riconobbe nella precedente
ricordata occasione, può subire eccezioni, in riferimento a
determinati procedimenti, quando esse abbiano obiettiva e razionale
giustificazione. E va qui precisato che, mentre quando si tratta del
processo penale (per il quale la pubblicità del dibattimento ha un
valore particolarmente rilevante (le deroghe possono essere disposte
solo a garanzia di beni a rilevanza costituzionale, negli altri casi
più ampio potere discrezionale deve essere riconosciuto al legislatore
nella valutazione degli interessi che possano giustificare la
celebrazione del dibattimento a porte chiuse. Tanto è a dirsi, in
particolare, per il procedimento qui in esame, al quale, come innanzi
si è detto, è stato dato carattere giurisdizionale solo in funzione
di una più rigorosa tutela dell’indipendenza del singolo magistrato,
senza, quindi, l’assoluta necessità che esso soggiaccia a tutte le
regole che sono proprie del processo penale. Di tal che non risulta
illegittimo che il legislatore, valutandone la convenienza in relazione
a ragionevoli esigenze di rispetto di interessi che travalicano quello
del singolo magistrato, abbia disposto che la discussione si svolga a
porte chiuse.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi primo, secondo e
quinto dell’art. 2 della legge 18 dicembre 1967, n. 1198 (contenente
“modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, sulla costituzione e
funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”), nonché del
comma quarto dello stesso articolo limitatamente alla parte “ed è
composta, oltre che dal vice presidente, da uno dei componenti eletti
dal Parlamento, da tre magistrati di Corte di cassazione, di cui due
con ufficio direttivo, due magistrati di Corte d’appello e un
magistrato di tribunale”;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 della stessa legge n. 1198 del 1967, proposta dalle
ordinanze indicate in epigrafe in riferimento agli articoli 104 e 105
della Costituzione;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34, comma secondo, seconda parte, del r.d.l. 31 maggio 1946,
n. 511 (contenente disposizioni sulle “guarentigie della
magistratura”), proposta dalle ordinanze indicate in epigrafe in
riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dello stesso art. 34, comma secondo, prima parte, proposta
dall’ordinanza n. 220 del 1970, indicata in epigrafe, in riferimento
agli artt. 24, 28, 101 e 111 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 29 gennaio 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.