Sentenza N. 12 del 1978
Corte Costituzionale
Data generale
02/02/1978
Data deposito/pubblicazione
02/02/1978
Data dell'udienza in cui è stato assunto
01/02/1978
OGGIONI – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof.
LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE, Giudici,
codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28 giugno
1977 dalla Corte di cassazione nel procedimento relativo alla domanda
di riparazione pecuniaria proposta da Micolitti Sergio, iscritta al n.
381 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 244 del 7 settembre 1977.
Visto l’atto di costituzione di Micolitti Sergio, nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 dicembre 1977 il Giudice
relatore Arnaldo Maccarone;
uditi l’avv. Pasquale Petrolillo, per Micolitti, e il sostituto
avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
1. – Il 20 aprile 1955 Mario Caluori, funzionario del Ministero
dell’industria e commercio, veniva rinviato a giudizio davanti alla
Corte di assise di Roma per rispondere, tra l’altro, del reato di cui
agli artt. 81, 261 e 61, n. 9, cod. pen., per avere, in tale qualità e
violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelato ad Aldo
Pinto e ad altre persone non autorizzate a prenderne conoscenza, il
contenuto di documenti che dovevano restare segreti nell’interesse
politico e in quello della sicurezza dello Stato italiano. Con il
Caluori venivano rinviati a giudizio, oltre al Pinto, Aldo Chiarinelli
e l’avv. Sergio Micolitti per avere in concorso tra loro rivelato a
terzi il contenuto di quegli stessi documenti, la cui conoscenza il
Pinto aveva ottenuto dal Caluori.
Con sentenza del 22 settembre 1955 la suddetta Corte mentre
affermava la penale responsabilità, in ordine alle imputazioni ad essi
rispettivamente ascritte, del Caluori, del Pinto, del Chiarinelli e di
altri coimputati, assolveva per insufficienza di prove il Micolitti.
La decisione era riformata dalla Corte d’assise d’appello di Roma
che con sentenza 6 novembre 1956 modificava l’imputazione di cui
all’art. 261 cod. pen. (rivelazione di segreti di Stato) in quella –
meno grave – prevista dall’art. 262 cod. pen. (rivelazione di notizie
di cui sia stata vietata la divulgazione dalle competenti autorita)
affermando la responsabilità del Caluori, del Pinto e del Chiarinelli
per tale reato e assolvendo da esso, per insufficienza di prove, il
Micolitti. E detta qualificazione dei fatti addebitati era tenuta ferma
in una successiva sentenza, emessa dalla stessa Corte d’assise
d’appello in sede di rinvio il 9 dicembre 1959.
Divenuta definitiva la condanna, la Corte di cassazione, con
sentenza del 14 dicembre 1962, annullava senza rinvio in sede di
revisione, su istanza del Caluori (e per la parte a lui relativa),
entrambe le sentenze 6 novembre 1956 e 9 dicembre 1959 della Corte
d’assise d’appello di Roma, assolvendo il Caluori dalle imputazioni
ascrittegli con la formula “perché i fatti non sussistono”.
A questa decisione facevano seguito, il 31 maggio e il 3 giugno
1963, altre due decisioni della Corte di cassazione che, sempre in sede
di revisione, annullavano senza rinvio le sentenze sopra richiamate
della Corte d’assise d’appello di Roma anche per le parti riguardanti
gli imputati Chiarinelli e Pinto, assolvendoli con la stessa formula.
2. – Con istanza 20 dicembre 1972 il Micolitti (il quale, come si
è già rilevato, era stato assolto nei precedenti gradi del giudizio
per insufficienza di prove dalla imputazione di cui all’art. 262 cod.
pen.) chiedeva alla Corte di cassazione di estendere in suo favore – ai
sensi dell’art. 203 cod. proc. pen. – gli effetti delle sentenze 14
dicembre 1962, 31 maggio e 3 giugno 1963 con le quali, in sede di
revisione, erano stati assolti, nei termini sopra riferiti, il Caluori,
il Chiarinelli e il Pinto.
La Cassazione riteneva che l’istanza non potesse essere accolta
(essendo l’applicabilità dell’istituto della revisione limitata alle
sentenze di condanna) ma, sollevava, in riferimento all’art. 3 Cost.,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 553 e 554 c.p.p.,
denunciando la disparità di trattamento che così veniva a
determinarsi tra i condannati e gli assolti con formula dubitativa.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 25 novembre
1976, dichiarava l’illegittimità costituzionale dei citati artt. 203,
553 e 554 c.p.p. “nella parte in cui, nel loro combinato disposto, non
consentono che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un
condannato possa spiegare l’effetto estensivo nei confronti di chi,
imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per
insufficienza di prove”.
In seguito a questa decisione, la Cassazione con sentenza 14
gennaio 1977 annullava senza rinvio, in sede di revisione, anche nei
confronti del Micolitti la sentenza 6 novembre 1956 della Corte
d’assise d’appello di Roma, sempre con la formula “perché i fatti non
sussistono”. Quindi, investita della domanda di riparazione proposta
dal Micolitti medesimo ai sensi dell’art. 571 c.p.p., con la ordinanza
in epigrafe sollevava, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di
legittimità costituzionale del predetto art. 571, limitatamente alla
parte in cui non riconosce come soggetti del diritto di chiedere la
riparazione pecuniaria anche coloro che, assolti nei precedenti gradi
del giudizio abbiano ottenuto in sede di revisione una formula di
assoluzione più vantaggiosa.
3. – Il giudice a quo prospetta il dubbio che la norma denunziata
dia luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento, lesiva del
principio di uguaglianza, tra coloro a cui favore in sede di revisione
sia stata riconosciuta l’ingiustizia di un’assoluzione con formula
dubitativa e coloro per i quali la decisione ingiusta sia stata di
condanna.
Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
con memoria in data 13 settembre 1977 le cui conclusioni si precisano
in una declaratoria di infondatezza della questione sollevata.
Dopo aver ricordato che questa Corte, con la sentenza n. 1 del
1969, ha già escluso che l’art. 571 c.p.p. contrasti con la garanzia
costituzionale del diritto di difesa, l’Avvocatura osserva che la
situazione dei soggetti assolti, anche per insufficienza di prove, è
ben diversa, agli effetti dei danni che in astratto possono derivare a
colui che è protagonista della vicenda giudiziaria, rispetto a quella
dei soggetti condannati e che, pertanto, non può ravvisarsi in detta
disposizione alcuna violazione del principio di uguaglianza.
Nulla vieta – si rileva – che, in futuro, il legislatore ordinario,
secondo le esigenze che si appalesino in termini non equivoci, e con la
prudenza che la delicatezza della materia impone, provveda ad ulteriori
estensioni dell’istituto ad altre e diverse ipotesi oltre a quelle
originariamente previste. Ma non sembra che la materia possa essere
oggetto di utile definizione attraverso un’eventuale pronuncia di
incostituzionalità della esistente disciplina per pretesa violazione
dell’art. 3 della Costituzione, tanto più che tale eventuale pronuncia
che si fondasse sulla sola parziarietà della disciplina, rischierebbe
di condurre ad un regresso della situazione normativa riaprendo un
vuoto che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione.
Nel giudizio si è costituito anche Sergio Micolitti, rappresentato
e difeso dall’avv. Pasquale Petrolillo, con foglio di deduzioni del 26
settembre 1977.
La difesa, riportandosi al parere espresso dal Procuratore generale
presso la Cassazione nel giudizio di merito, assume anzitutto che una
volta ammesso, con la sentenza n. 236 del 1976 di questa Corte, che
dell’istituto della revisione delle sentenze può beneficiare non solo
chi fu condannato ma anche colui che fu assolto per insufficienza di
prove non è dato ammettere il primo ed escludere il secondo dalla
riparazione pecuniaria dell’errore giudiziario dato il carattere
strettamente conseguenziale e complementare dell’istituto della
riparazione rispetto a quello della revisione. Accogliendo tali
premesse, la proposta questione andrebbe dichiarata non fondata potendo
il problema essere risolto in via interpretativa con piena
soddisfazione per l’istante.
Se peraltro tale assunto non fosse condiviso la norma denunziata
dovrebbe essere dichiarata costituzionalmente illegittima dal momento
che la sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove,
comporta, per l’imputato, quantunque assolto, una serie di conseguenze
a lui sfavorevoli sia sul piano etico sia sul piano strettamente
giuridico, la cui affinità con quelle derivanti dalla sentenza di
condanna non può essere razionalmente negata.
1. – Come è stato innanzi precisato, la Corte è chiamata a
verificare la legittimità costituzionale dell’art. 571 c.p.p., il
quale, riconoscendo il diritto di chiedere la riparazione pecuniaria
soltanto al condannato poi assolto in sede di revisione,
determinerebbe, secondo la ordinanza di rimessione, una ingiustificata
disparità di trattamento nei confronti di chi, assolto per
insufficienza di prove, abbia ottenuto a seguito di revisione una
formula di assoluzione più vantaggiosa, sussistendo affinità tra le
due situazioni in relazione al pregiudizio derivante dalla ingiustizia
della decisione di merito.
2. – La parte privata, costituitasi in questa sede, sostiene che il
diritto a conseguire la riparazione pecuniaria per chi abbia ottenuto a
seguito di revisione una formula di assoluzione più vantaggiosa deriva
direttamente dalla sentenza di revisione, la quale ha accertato che il
fatto addebitato al prosciolto non sussiste, ponendo nel nulla la
precedente pronuncia di assoluzione con formula dubitativa, sicché la
fattispecie rientrerebbe nella previsione dell’art. 571 c.p.p.; che
riconosce il diritto alla riparazione pecuniaria a chiunque sia stato
assolto a seguito di giudizio di revisione.
L’assunto non può essere condiviso. L’art. 571 c.p.p. limita
espressamente il diritto alla riparazione pecuniaria a favore dei
soggetti che, condannati nel giudizio di merito, siano stati poi
assolti in sede di revisione, sicché è fuori della previsione della
norma ogni diversa ipotesi.
Per la stessa ragione deve escludersi che il diritto alla
riparazione pecuniaria consegua, quale effetto immediato e diretto,
all’accoglimento dell’istanza di revisione. Tale esclusione trova
conferma nel sistema normativo che regola la materia; invero, quando
con la legge 14 maggio 1965, n. 481, si è ampliato l’ambito del
giudizio di revisione, è intervenuto espressamente il legislatore
(art. 2 legge anzidetta) per riconoscere il diritto alla riparazione
pecuniaria anche nella nuova ipotesi di revisione considerata.
3. – L’Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del
Presidente del Consiglio dei ministri, per contestare la fondatezza del
dubbio di costituzionalità di cui si tratta, deduce che, in base
all’art. 24, quarto comma, della Costituzione, spetta al legislatore
determinare i casi di riparazione degli errori giudiziari ed a sostegno
dell’assunto richiama i principi affermati da questa Corte nella
sentenza n. 1 del 1969, ritenendo precluso l’intervento del giudice
costituzionale.
Tali riferimenti non appaiono pertinenti. Nella fattispecie
esaminata dalla citata sentenza la questione di costituzionalità
dell’art. 571 c.p.p., proposta con riferimento al quarto comma
dell’art. 24 Cost., riguardava la riparabilità dell’errore che aveva
determinato la carcerazione preventiva di una persona poi prosciolta
per insussistenza del fatto addebitato. La Corte, per escludere la
fondatezza della questione proposta, osservò che “il principio della
riparazione degli errori giudiziari postula l’esigenza di appropriati
interventi legislativi, indispensabili per conferirgli concretezza e
determinatezza di contorni, dandogli così pratica attuazione”;
ritenne, in conseguenza, che il sindacato di legittimità
costituzionale fosse consentito soltanto in relazione ad una disciplina
legislativa concretamente adottata ma non intervenuta nella specie.
Ciò premesso, va precisato che gli elementi della fattispecie in
esame differiscono da quelli del caso deciso con la sentenza innanzi
indicata. Invero, per quanto concerne la riparazione degli errori
giudiziari accertati in sede di revisione, il legislatore è già
intervenuto con la legge 23 maggio 1960, n. 504, e quando ha ampliato
le ipotesi di revisione ha esteso ad esse il diritto alla riparazione
pecuniaria (legge 14 maggio 1965, n. 481), mostrando la tendenza ad
assicurare la riparazione in tutte le ipotesi di favorevole esito del
giudizio di revisione. Pertanto, essendo stata effettuata la disciplina
della materia per quanto concerne il diritto alla riparazione degli
errori giudiziari accertati in sede di revisione, sussistono i
presupposti per l’intervento del giudice costituzionale, al fine di
verificare se la disciplina adottata corrisponda ai precetti della
Costituzione.
4. – La proposta questione appare fondata.
Come è stato innanzi ricordato, questa Corte con la sentenza n.
236 del 1976 ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per
violazione del principio di uguaglianza, degli artt. 553 e 554 c.p.p.,
in correlazione con l’art. 203 stesso codice, nella parte in cui non
consentono che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un
condannato possa spiegare effetto estensivo nei confronti di chi,
imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per
insufficienza di prove. A seguito di tale decisione, il Micolitti,
assolto nel giudizio di merito per insufficienza di prove, ottenne in
sede di revisione il proscioglimento per insussistenza dei fatti
addebitatigli.
Poste tali premesse, la esclusione della riparazione pecuniaria
nella situazione sopra delineata appare chiaramente lesiva del
principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3, comma primo, della
Costituzione.
Nella richiamata sentenza n. 236 del 1976, è stato posto in luce
come il proscioglimento per insufficienza di prove comporti per
l’imputato – quantunque assolto – una serie di conseguenze sfavorevoli
sia sul piano etico che su quello strettamente giuridico, le quali
possono comportare un serio ostacolo al pieno reinserimento
dell’imputato nella vita sociale e la cui affinità con quelle
derivanti dalla sentenza di condanna non può razionalmente essere
negata.
Deve aggiungersi che nella disciplina vigente, come è stato sopra
sottolineato, non è dato riscontrare alcun caso nel quale chi sia
stato assolto in sede di revisione non abbia il diritto di ottenere la
riparazione pecuniaria. Anzi con la ricordata legge 14 maggio 1965, n.
481, la possibilità di chiedere la riparazione è stata riconosciuta
(sia pure con riferimento ad una ipotesi particolare) anche a coloro
che nel giudizio di revisione abbiano ottenuto non l’assoluzione ma la
condanna per un reato meno grave.
Per le ragioni esposte, sussistono i presupposti necessari perché
sia dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 571 c.p.p.,
per violazione del principio di eguaglianza, nella parte in cui non
comprende tra i soggetti legittimati a chiedere l’equa riparazione in
esso prevista anche chi abbia conseguito nel giudizio di revisione
l’annullamento di una sentenza irrevocabile di assoluzione per
insufficienza di prove, ottenendo l’assoluzione con formula più
favorevole.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 571 c.p.p. nella
parte in cui non comprende tra i soggetti legittimati a chiedere l’equa
riparazione in esso prevista anche chi abbia conseguito, nel giudizio
di revisione, l’annullamento di una sentenza irrevocabile di
assoluzione per insufficienza di prove, ottenendo l’assoluzione con
formula più favorevole.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 1 febbraio 1978.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
LEONETTO AMADEI – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO –
ANTONINO DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere