Sentenza N. 120 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
23/11/1967
Data deposito/pubblicazione
23/11/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/11/1967
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI –
Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO
MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott.
LUIGI OGGIONI, Giudici,
legge doganale 25 settembre 1940, n. 1424, promosso con ordinanza
emessa il 16 dicembre 1966 dal Tribunale di Sondrio nel procedimento
penale a carico di Matile René Georges ed altro, iscritta al n. 244
del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 18 ottobre 1967 la relazione del
Giudice Antonino Papaldo;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il cittadino svizzero Matile René, sottoposto a procedimento
penale davanti al tribunale di Sondrio per controllando e frode I. G.
E. su Kg. 96 di tabacco lavorato estero, è detenuto nelle carceri
giudiziarie e non può essere liberato perché, trattandosi di
straniero, non ha prestato cauzione o malleveria ai sensi dell’art.
139 della legge doganale 25 settembre 1940, n. 1424.
Nel dibattimento, la difesa dell’imputato sollevava questione di
legittimità costituzionale della citata norma in relazione agli artt.
3, 10 e 27 della Costituzione ed il tribunale emetteva l’ordinanza del
16 dicembre 1966, con la quale, ritenendo la questione stessa non
manifestamente infondata, rinviava gli atti a questa Corte.
L’ordinanza è stata ritualmente comunicata, notificata e pubblicata.
Nel giudizio si è costituita l’Avvocatura generale dello Stato per il
Presidente del Consiglio dei Ministri, con atto di intervento e
deduzioni presentato il 15 febbraio 1967.
In via pregiudiziale l’Avvocatura si rimette al giudizio della
Corte sulla ammissibilità della questione di legittimità
costituzionale sia per il difetto di motivazione dell’ordinanza sia per
l’omessa pronuncia sulla rilevanza della questione stessa ai fini della
decisione del giudizio di merito.
Nel merito l’Avvocatura sostiene che l’art. 139 della legge
doganale non contrasta con l’art. 3 della Costituzione, giacché il
principio di eguaglianza sancito dalla norma costituzionale concerne i
cittadini e non anche gli stranieri, e, pertanto, detta norma non
sarebbe invocabile nella specie trattandosi di un procedimento a carico
di un cittadino svizzero. D’altra parte, anche a voler ritenere
applicabile l’art. 3 della Costituzione al cittadino straniero, non
sussisterebbe la denunciata violazione, posto che tra il cittadino
italiano e lo straniero sussiste una disparità di posizione, che si
traduce concretamente sul piano della legge penale. Lo straniero,
infatti, può sottrarsi alla esecuzione della pena (ed alle conseguenze
patrimoniali che ne discendono) rientrando nel suo paese di origine; il
cittadino italiano, invece, una volta identificato, non può sottrarsi
a tale pena se non di fatto: il che sarebbe del tutto irrilevante ai
fini della legge.
Inoltre l’art. 139 della legge doganale non potrebbe ritenersi in
contrasto con l’art. 10 della Costituzione innanzitutto perché esso
non costituisce una deviazione dai principi generali tale da rendere
l’ordinamento giuridico italiano non conforme alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute; in secondo luogo perché non
costituisce una regolamentazione della condizione giuridica dello
straniero difforme dalle norme e dai trattati internazionali, e,
infine, perché norme sostanzialmente analoghe a quella impugnata si
rinvengono in tutte le legislazioni straniere, e, in particolare, nella
legislazione svizzera.
Per ultimo la impugnata norma non violerebbe l’art. 27 della
Costituzione, giacché essa non inficia il principio della personalità
della responsabilità penale né quello per cui l’imputato non è
considerato colpevole sino alla condanna definitiva, non
contrasterebbe infine con detta norma costituzionale perché non
concerne l’applicazione delle pene.
1. – Si possono superare i dubbi avanzati dalla Avvocatura dello
Stato circa l’ammissibilità della questione.
In relazione agli atti del processo, i termini della questione
risultano chiaramente posti: trattasi di verificare la legittimità
costituzionale di una disposizione delle legge doganale al cospetto di
norme della Costituzione specificatamente invocate: gli artt. 3, 10,
secondo comma, e 27.
Quanto alla rilevanza, è da osservare che la questione è stata
sollevata ai fini della risoluzione di un aspetto essenziale della
controversia, quelle relative allo stato di detenzione dell’imputato.
2. – Il raffronto tra la disposizione contenuta nell’art. 139 della
legge doganale, secondo cui deve essere mantenuto nello stato di
arresto lo straniero finché non abbia prestato idonea cauzione o
malleveria, e l’art. 3 della Costituzione non deve farsi con questa
norma, isolatamente considerata, ma con la norma stessa in connessione
con l’art. 2 e con l’art. 10, secondo comma, della Costituzione, il
primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti
inviolabili dell’uomo, mentre l’altro dispone che la condizione
giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle
norme e dei trattati internazionali. Ciò perché, se è vero che
l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo
che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando
trattisi di rispettare quei diritti fondamentali.
Che la concessione della libertà provvisoria sia subordinata alla
prestazione di cauzione o malleveria è cosa ammessa nel nostro
ordinamento e negli ordinamenti di tante altre nazioni; è cosa anche
espressamente prevista nell’art. 5, n. 3, della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo, cui è stata data esecuzione in
Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. Trattasi di una misura che il
giudice può adottare per i cittadini e per gli stranieri. Né la
legittimità di tale misura viene meno se essa sia imposta dalla
legge, quando la norma che ne stabilisce l’obbligo faccia parte di un
sistema che assicuri all’imputato la possibilità di essere liberato
non appena vengano a mancare le basi di legittimità della custodia
preventiva e quando la norma stessa fissi – come fa la disposizione
impugnata – un termine massimo per tale detenzione.
Queste condizioni sussistono nel caso in esame.
L’art. 139 afferma espressamente che resta fermo quanto è disposto
nel codice di procedura penale circa la libertà personale
dell’imputato, salvo due eccezioni, una per il caso in cui non è nota
la identità di lui, sia cittadino che straniero, l’altra, riguardante
solo lo straniero, per il caso in cui egli non presti cauzione o
malleveria. Ciò significa che anche in questi procedimenti si applica
nei confronti dello straniero ogni norma che disciplina lo svolgimento
della procedura con tutte le garanzie per i diritti dello imputato,
quali la difesa, la protezione contro qualsiasi arbitrio, la
imparzialità del giudice. Tra le norme ricordate giova richiamare in
particolare quelle che dispongono di mettere in libertà il detenuto
quando manchino sufficienti indizi o motivi di sospetto e quando
intervenga quella declaratoria di non punibilità che deve essere
emessa d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Tutto questo
importa che il detenuto straniero non è lasciato senza tutela di
fronte ad illimitate lungaggini delle procedure, né viene sottoposto
ad una pena senza la condanna.
Ne consegue che la disposizione denunziata non viola un diritto
fondamentale dell’uomo assicurato dall’art. 2 della Costituzione e
dalle norme di diritto internazionale, richiamate dall’art. 10, secondo
comma, della stessa Costituzione, quali risultano dagli artt. 5 e 6
della Convenzione europea e dagli artt. 9 e 10 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo (Dichiarazione qui richiamata
prescindendo da ogni indagine, non necessaria ai fini del giudizio,
circa il suo valore giuridico).
Ulteriore conseguenza è che non sussiste violazione del principio
di eguaglianza, garantito anche allo straniero dall’art. 3 della
Costituzione italiana in connessione, come si è detto, con l’art. 2
della Costituzione stessa e con le norme di diritto internazionale
sopra richiamate. Non risulta neppure violato, in relazione allo art.
10, secondo comma, della Costituzione, l’art. 14 della Convenzione
europea che sancisce il diritto dello straniero all’eguaglianza
(diritto proclamato anche dagli artt. 2 e 7 della Dichiarazione
universale).
Diversa è, nella situazione in esame, la posizione dello
straniero rispetto a quella del cittadino. Costui può, è vero,
rendersi latitante o recarsi all’estero, se non ne viene legittimamente
impedito, ma resta sempre soggetto alla sovranità dello Stato, alla
osservanza delle sue leggi ed ai mezzi di coercizione che le leggi
consentono, mentre lo straniero può abbandonare il paese dove ha
commesso il reato e non sempre e non facilmente se ne può ottenere
l’estradizione. E quindi ragionevole che, in taluni casi dei quali il
legislatore valuta la gravità, la legge prescriva che sia mantenuta la
detenzione se l’imputato straniero non presti cauzione. Non si saprebbe
contestare il buon fondamento di questa valutazione affidata al
legislatore quando si tratti, come nei confronti del contrabbando, di
reati che di solito sono commessi da esperti, i quali, particolarmente
addestrati per sfuggire alla vigilanza della polizia fiscale,
saprebbero assai bene sfuggire alle ricerche che se ne farebbero per
ottenerne la presenza nell’istruttoria e nel dibattimento o per
sottoporli all’esecuzione della pena, se questa sarà inflitta.
È da escludere, dunque, che la imposizione della particolare
misura di salvaguardia disposta dalla norma denunziata costituisca una
illegittima discriminazione per lo straniero.
3. – Le osservazioni esposte valgono pure per escludere la
violazione del secondo comma dell’art. 27 della Costituzione, il quale
dichiara che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna
definitiva: norma il cui contenuto è analogo a quello degli artt. 6,
n. 2, della Convenzione europea e 11 della Dichiarazione universale.
L’imposizione, quando non si presti cauzione, di una detenzione
preventiva fino al massimo della pena stabilita per il reato di cui lo
straniero è accusato, non equivale ad una dichiarazione di
colpevolezza prima della condanna, se, come si è detto sopra, la
disposizione denunziata si inserisce in un sistema generale, che
assicura anche all’imputato che trovasi nelle condizioni previste
dall’art. 139 le garanzie della legge processuale penale circa la
immediata cessazione dello stato di detenzione preventiva, quando ne
vengano a mancare i presupposti stabiliti dalla legge.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 139 della legge doganale 25 settembre 1940, n. 1424, in
riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, e 27 della Costituzione,
sollevata dal Tribunale di Sondrio con ordinanza 16 dicembre 1966.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 novembre 1967.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.