Sentenza N. 125 del 1979
Corte Costituzionale
Data generale
10/10/1979
Data deposito/pubblicazione
10/10/1979
Data dell'udienza in cui è stato assunto
03/10/1979
EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO –
Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof.
LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA –
Prof. VIRGILIO ANDRIOLI,
e 128 del codice di procedura penale promossi con le seguenti
ordinanze:
1. – ordinanza emessa il 24 novembre 1978 dal tribunale di Cuneo
nel procedimento penale a carico di Vulicevic Bozidar, iscritta al n.
682 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 66 del 7 marzo 1979;
2. – ordinanza emessa il 23 novembre 1978 dal pretore di Torino nel
procedimento penale a carico di Bertolazzi Pietro ed altro, iscritta al
n. 57 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 87 del 28 marzo 1979.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 27 giugno 1979 il Giudice relatore
Alberto Malagugini;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – In un procedimento penale avanti al pretore di Torino,
l’imputato Bertolazzi Pietro ha reso ai sensi dell’art. 80 cod. proc.
pen., in vista dell’udienza dibattimentale, la seguente dichiarazione:
“Dichiaro di rinunziare a presenziare avanti la controscritta udienza,
in quanto non ho nulla da difendermi e da rispondere ai rappresentanti
della classe nemica, la borghesia. Per questo stesso motivo revoco la
nomina dei difensori di fiducia Arnaldi del foro di Genova e Spazzali
del foro di Milano e rifiuto qualsiasi imposizione di avvocati di
regime”.
Il pretore, con ordinanza in data 23 novembre 1978, accogliendo
un’eccezione della difesa, ha ritenuto non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 2 e
24 Cost., degli artt. 125 e 128 cod. proc.pen., nella parte in cui
impongono la nomina di un difensore d’ufficio anche all’imputato che
(come nella specie il Bertolazzi) rifiuti qualsiasi assistenza.
Il giudice a quo premette che è irrilevante, rispetto al rapporto
processuale, il convincimento politico-ideologico che determina gli
imputati a scegliere una linea difensiva piuttosto che un’altra. Il
rapporto processuale sorge, si svolge e si esaurisce indipendentemente
e anche contro la volontà dell’imputato. Una volta instauratosi il
rapporto assume tuttavia rilevanza, per il suo rituale e valido
svolgimento, la dichiarazione che l’imputato faccia di non volersi
difendere e di non accettare l’imposizione del difensore d’ufficio.
L’art. 24 della Costituzione, tutelando la difesa come diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, avrebbe inteso
ricomprendere ogni possibile esplicazione tanto della difesa
sostanziale dell’imputato quanto della difesa tecnica del difensore.
Rispetto ai precedenti orientamenti, anche della Corte costituzionale,
in punto di difesa tecnica e di sua compatibilità con l’autodifesa
dell’imputato, la questione sollevata dalla dichiarazione del
Bertolazzi appare nuova, e richiede una diversa impostazione.
L’imputato, invero, non chiede di autodifendersi per difendersi, ma
perché sceglie di non difendersi. La sua richiesta si identifica nella
affermazione del diritto di scelta di non difendersi e di non essere
difeso. La questione prospettata non è dunque più sul punto se il
difensore tecnico accresca o limiti le possibilità di difesa
dell’imputato, ma se sia consentito all’imputato di non difendersi, e
conseguentemente l’imposizione di un difensore d’ufficio, che
istituzionalmente deve svolgere attività difensiva, non appaia
violazione di un diritto costituzionalmente garantito.
Le ragioni comunemente addotte, per negare all’imputato la facoltà
di rifiutare la difesa, non appaiono al giudice a quo convincenti. Non
l’argomento della irrinunciabilità del diritto di difesa, posto che la
sua tutela costituzionale copre ugualmente tutti i diversi modi in cui
esso sia liberamente esercitato; ed uno fra questi è costituito
proprio dalla scelta che l’imputato faccia di non difendersi, una
scelta che costituisce anch’essa esercizio e non rinuncia al proprio
diritto, in quanto operata dall’imputato in considerazione di ciò che
egli ritenga a lui più conveniente in un dato momento storico e
politico.
Contraddittoria sarebbe anche la tesi che la necessità di una
difesa, svolta e garantita da un difensore tecnico, sarebbe collegata
al concorso degli interessi dell’imputato con il superiore interesse
dello Stato all’accertamento della verità. Se è vero infatti che la
cosiddetta pretesa punitiva statuale tende all’obiettivo accertamento
della verità, certamente non è vero che a tale fine debba collaborare
la difesa, che anzi necessariamente vi si contrappone. Di ciò sarebbe
espressione normativa l’art. 193 cod.pen., secondo cui l’imputato può
togliere effetto all’impugnazione proposta dal difensore: disposizione,
questa, che non avrebbe ragion d’essere se la difesa partecipasse al
superiore interesse statuale di accertamento della verità, attraverso
i vari stati e gradi del procedimento.
In realtà, la volontà difensiva dell’imputato, che può
manifestarsi anche nel rifiuto della difesa stessa, viene sempre ad
essere privilegiata, ad eccezione che nel dibattimento di primo grado,
nel quale, allo stato, l’imputato non può assolutamente far nulla
perché venga tutelata e rispettata la sua volontà di non difendersi e
di non essere difeso. Di qui la non manifesta infondatezza della
prospettata eccezione di incostituzionalità.
2. – L’identica questione di costituzionalità è stata sollevata
dal tribunale di Cuneo, in un procedimento in cui l’imputato,
nell’udienza pubblica, aveva dichiarato: “io non ho bisogno di
difendermi perché la mia linea consiste nel non difendermi perché non
ho niente da cui difendermi, se c’è qualcuno in questa aula che si
deve difendere siete voi, egregie eccellenze. Ripeto che non ho bisogno
di nessun avvocato né di fiducia, né della cosiddetta fattispecie di
avvocato di ufficio”.
Il tribunale ha ritenuto che il non difendersi è una modalità di
esercizio del diritto di difesa come tale rientrante nella tutela
costituzionale, e che sarebbe una contraddizione in termini riconoscere
all’imputato il diritto a non difendersi, salvo poi imporgli un
difensore d’ufficio che in ogni caso alla fine del dibattimento qualche
difesa dovrà pur mettere in atto.
Le ordinanze sono state ritualmente notificate, comunicate e
pubblicate.
3. – Nel procedimento avanti la Corte costituzionale è intervenuta
l’Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate
dai giudici di Torino e di Cuneo siano dichiarate infondate.
Il problema dell’autodifesa esclusiva dell’imputato, oggetto di
ampi dibattiti in dottrina, è stato discusso anche in sede di
attuazione della legge delega per il nuovo codice di procedura penale.
In mancanza di indicazioni del legislatore delegante per eventuali
modifiche della disciplina attuale, la soluzione è stata demandata
agli organi politicamente responsabili. Il che avrebbe valore
sistematico, in quanto presuppone la ritenuta non incostituzionalità
della disciplina vigente.
Per l’Avvocatura dello Stato, il Costituente, nel garantire
l’inviolabilità del diritto di difesa, si è dato carico della
esigenza di assicurare a tutti il diritto di difendersi nei modi
ritenuti più validi: è perciò che ha fatto ricorso alla difesa
tecnica. Non ha inteso, invece, darsi carico della non difesa come
forma di una valida difesa. Se anche si ritenga che si possa porre in
essere una propria difesa contestando il sistema attraverso la non
difesa, nulla vieta che tanto sia chiaramente conclamato, ma non
impedendo, peraltro, che altre esigenze della collettività, così come
giuridicamente organizzata, siano, attraverso la difesa tecnica attiva,
parimenti soddisfatte.
1. – Le due ordinanze del pretore di Torino e del tribunale di
Cuneo sollevano identica questione di legittimità costituzionale degli
artt. 125 e 128 cod.proc.pen., in relazione agli artt. 2 e 24, secondo
comma, Cost., e prospettano, con diversa ampiezza, argomentazioni
analoghe.
I due giudizi vanno, quindi, riuniti e decisi con unica sentenza.
2. – I giudici a quibus muovono dal rilievo, di fatto e normativo,
che l’imputato ben può rifiutare di difendersi personalmente al
dibattimento, astenendosi anche, per sua libera determinazione, dal
presenziarvi.
In questo comportamento dell’imputato i giudici ravvisano non già
una rinuncia all’inviolabile diritto di difesa, ma piuttosto un modo –
se pure negativo – di esercitarlo e dubitano che la “imposizione” di un
difensore di ufficio, il quale “istituzionalmente ed obbligatoriamente
deve svolgere attività difensiva” (secondo il pretore di Torino),
ovvero deve “in ogni caso alla fine del dibattimento qualche difesa pur
mettere in atto, non fosse altro che (con) il rimettersi al tribunale”
(secondo il tribunale di Cuneo) offenda, appunto, il diritto di difesa.
Il dubbio di costituzionalità investe, dunque, gli artt. 125 e
128 del codice di procedura penale nella parte in cui prescrivono che
nel giudizio (di primo grado) anche l’imputato che abbia dichiarato di
non volersi difendere e di non volere essere difeso, debba, a pena di
nullità, essere assistito dal difensore nominato d’ufficio.
La questione non è fondata.
3. – Dei parametri costituzionali indicati nelle ordinanze di
rimessione occorre considerare, in primo luogo, quello di cui all’art.
24, secondo comma, Cost.
È del tutto pacifico che tale disposto contiene una norma di
carattere generale, intesa a garantire indefettibilmente l’esercizio
della difesa in ogni stato e grado di qualunque procedimento
giurisdizionale.
Il generale ambito di applicabilità di questa norma ben venne
chiarito nella discussione avanti l’Assemblea Costituente (seduta del
15 aprile 1947) allorquando l’on. Tupini, presidente della I
sottocommissione, affermò che “tenuto conto degli abusi, delle
incertezze e delle deficienze che hanno vulnerato nel passato
l’istituto della difesa, specie per quanto attiene alla sua esclusione
dai vari stati e gradi del processo giurisdizionale” si volle “con una
norma chiara, assoluta, garantirne la presenza e l’esperimento attivo
in tutti gli stati del giudizio e davanti a qualunque magistratura”.
Il testo complessivo dell’art. 24 Cost., nella successione dei vari
commi, esclude qualsiasi perplessità in proposito e porta a concludere
che essenziale finalità delle norme in esame è quella di garantire a
tutti la possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni (sent.
n. 108 del 1963).
4. – All’affermazione categorica del diritto inviolabile di difesa,
proprio anche per la portata generale della norma che la contiene, non
si accompagna, nel testo costituzionale, l’indicazione, dotata di pari
forza cogente, del o dei modi di esercizio di quel medesimo diritto.
Con la conseguenza che è consentito al legislatore, valutando la
diversa struttura dei procedimenti, i diritti e gli interessi in gioco,
le peculiari finalità dei vari stati e gradi della procedura, dettare
specifiche modalità per l’esercizio del diritto di difesa, alla
tassativa condizione, però, che esso venga, nelle differenti
situazioni processuali, effettivamente garantito a tutti su un piano di
uguaglianza.
Per il nostro ordinamento positivo, il diritto di difesa nei
procedimenti giurisdizionali si esercita, di regola, mediante
l’attività o con l’assistenza del difensore, dotato di specifica
qualificazione professionale, essendo limitata a controversie ritenute
di minore importanza ovvero a procedimenti penali per reati cosiddetti
bagatellari la possibilità che la difesa venga esercitata
esclusivamente dalla parte.
In particolare, nel processo penale e nella fase del giudizio
(salvo che si tratti di contravvenzioni punibili con l’ammenda non
superiore a lire tremila o con l’arresto non superiore ad un mese,
anche se comminati congiuntamente) il diritto di difesa si esercita
dall’imputato personalmente con l’assistenza del difensore, la cui
presenza è prescritta a pena di nullità.
5. – In questo quadro normativo, entrata in vigore la Costituzione
e fino ad un passato assai prossimo, i problemi dell'”istituto della
difesa” nel processo penale – per restare a questo specifico aspetto
della più ampia tematica del diritto di difesa nei procedimenti
giurisdizionali – sono stati percepiti ed affrontati nella pratica
giudiziaria, dalla dottrina e dalla giurisprudenza e sono stati
prospettati a questa Corte ed al Parlamento in termini di diffusione e
rafforzamento in ogni stato e grado del procedimento del diritto di
difesa quale concretamente esercitabile secondo le modalità previste
dalle leggi processuali e, quindi, anche e soprattutto mediante l’opera
del difensore (tecnico). La linea di tendenza è stata quella di
garantire all’imputato, del quale sono in gioco beni ed interessi
fondamentali ed irrisarcibili, che attengono alla sua stessa
personalità, il massimo di assistenza tecnica, in tutto il corso del
procedimento.
Nell’implicito presupposto che il sistema della difesa giudiziaria
penale, imperniato sul concorso dell’attività dell’imputato con quella
del difensore tecnico, fosse immune da censure di costituzionalità, si
è voluta la presenza del difensore sin dal primo contatto
dell’imputato con l’autorità inquirente, anche non giudiziaria;
presenza del difensore destinata ad assicurare all’imputato, cui deve
essere fatta espressa menzione della facoltà, che gli compete, di non
rispondere, la maggiore possibile libertà di scelta difensiva e,
insieme, la più sicura garanzia di osservanza della legalità, formale
e sostanziale, nel processo che lo coinvolge.
Complessivamente si può dire che la produzione normativa del
Parlamento e la giurisprudenza di questa Corte, nel decorso ventennio,
hanno perseguito il fine di rendere vivo e operante in ogni stato e
grado del processo penale, il precetto dell’art. 24, secondo comma,
Cost., secondo le modalità previste dalla legge. Questa attività si
è svolta in un quadro sociale, culturale e politico (il cui approdo è
costituito dalla legge delega per la riforma del codice di procedura
penale e dagli elaborati cui essa ha dato luogo) sempre più
insofferente del preminente carattere inquisitorio del processo penale
modellato dal codice del 1930, per la marcata prevalenza delle
acquisizioni istruttorie (quando non delle indagini di polizia
giudiziaria), raccolte senza effettiva partecipazione della difesa
dell’imputato, rispetto alla verifica, spesso meramente confermativa,
del dibattimento.
6. – La moltiplicazione, nella fase istruttoria, nonché in quelle
delle indagini preliminari e dell’esecuzione, delle occasioni in cui
alla difesa dell’imputato, come attualmente strutturata, è garantito
diritto di presenza per l’esercizio delle facoltà che le sono proprie,
risponde alla aspirazione a fondare l’intero processo penale sopra un
effettivo contraddittorio tra accusa e difesa; contraddittorio la cui
costituzione ed il cui funzionamento rappresentano la condizione
ritenuta universalmente ottimale per il più efficace esercizio della
stessa funzione giurisdizionale. E poiché l’equilibrio del
contraddittorio (che ne misura, appunto, l’efficacia) riposa sulla
tendenziale parità tra accusa e difesa, nessuno ha mai dubitato o
dubita che alla specifica capacità professionale del pubblico
ministero fosse e sia ragionevole contrapporre quella di un soggetto di
pari qualificazione che affianchi ed assista l’imputato.
Certo è che la legge se può creare, disciplinandoli in modo
cogente, i presupposti affinché, sulla base del rapporto processuale,
si possa sviluppare il contraddittorio, nulla può, invece, per
costringere l’imputato a parteciparvi personalmente, almeno da quando
l’ordinamento ha rinunciato ad usare la coercizione fisica nei suoi
confronti per questo fine. E nemmeno la legge pretende di sindacare il
modo e l’intensità con cui viene concretamente esercitato il diritto
di difesa, dall’imputato personalmente e/o dal suo difensore, sul
presupposto, di regola valido, di una convergenza di intenti tra questi
due soggetti.
Di fatto, l’esercizio della facoltà di intervento riconosciuta
all’imputato in tutto il corso del dibattimento ed a conclusione di
esso (artt. 443 e 468, terzo comma c.p.p.) incontra soltanto limiti
negativi; quello specifico della pertinenza delle sue dichiarazioni
rispetto all’oggetto del giudizio e quelli generali costituzionalmente
posti alla libertà di manifestazione del pensiero, estendendosi,
peraltro, anche a lui l’esimente di cui all’articolo 598 c.p.
Quanto ai difensori, la legge, oltre ad indicare modi e tempi di
intervento, si preoccupa dei loro possibili abusi a contrastare i quali
prevede gli interventi autoritativi del giudice, di cui all’art. 470
c.p.p.
Non è, invece, causa di nullità del dibattimento (e più in
generale dell’intero procedimento penale) l’inadeguato e financo il
mancato esercizio della facoltà e dei poteri spettanti alla difesa, il
che suona conferma che l’ordinamento, mentre garantisce le condizioni
per l’esperimento attivo del diritto di difesa, non ha preteso (e non
poteva pretendere) di trasformare tale diritto in un dovere, la cui
incoercibilità rappresenta, oltre che un dato di fatto, l’immediato
risvolto di una inviolabilità che comprende sicuramente anche la piena
libertà di scelte difensive.
7. – Muovendo, con esclusivo riferimento alla fase dibattimentale,
dalla constatazione che l’imputato ben può rifiutare ogni apporto
personale alla propria difesa, i giudici a quibus sollevano il dubbio
di legittimità costituzionale degli artt. 125 e 128 c.p.p. nei termini
più sopra richiamati.
A tale fine, essi presuppongono entrambi che la volontà di non
difendersi e di non essere difeso manifestata dall’imputato costituisca
non già una rinunzia al diritto di difesa, ma una modalità di
esercizio del diritto stesso, “meritevole di rispetto e tutela”.
Alla prospettazione comune del pretore di Torino e del tribunale di
Cuneo, questa Corte ritiene di attenersi, non potendo formare oggetto
di un giudizio di legittimità costituzionale il rifiuto non già di
esercitare attivamente il diritto di difesa, ma della stessa funzione
giurisdizionale e più in generale di ogni potere statuale e, quindi,
anche il rifiuto del ruolo di imputato, che attraverso l’astensione da
ogni attività difensiva, si vorrebbe manifestare.
Si deve, allora, affermare che speculare alla inviolabilità del
diritto di difesa, è la irrinunciabilità di esso, quali che ne siano
le concrete modalità di esercizio. Il diritto di difesa, infatti, nel
processo penale, è preordinato a tutelare beni e valori fondamentali
dell’uomo, dei quali in quel procedimento si discute e decide, nonché
a maggiormente garantire, anche nell’interesse dell’imputato,
l’osservanza di principi dell’ordinamento costituzionale, che attengono
specificamente alla disciplina del processo penale medesimo.
L’imputato non può rinunziare ai diritti inviolabili dei quali è
titolare, né può disporre delle garanzie che gli derivano dalle norme
costituzionali suaccennate (artt. 25, 26, 27, 101, 102, 103 ultimo
comma, 109, 111, 112).
Egli può, certamente, astenersi dal compiere concrete e
contingenti attività difensive intese a far valere quei diritti, senza
che, peraltro, da questo suo atteggiamento possa dedursi una rinunzia
ad essi, alla possibilità cioè di farli valere in un momento
successivo del procedimento o, comunque, anche dopo la conclusione di
esso, nei modi e salve le preclusioni che fossero stabilite dalla legge
processuale in termini costituzionalmente corretti.
Per fare gli esempi più elementari, non potrebbe certo negarsi
all’imputato che abbia rifiutato di difendersi, personalmente e a mezzo
del suo difensore, il diritto di impugnare la sentenza di condanna
emessa nel giudizio di primo grado, ovvero di ricorrere per cassazione
contro una sentenza ritenuta da lui ingiusta emessa a definizione del
giudizio di appello.
Ad uguale conclusione si dovrebbe pacificamente pervenire in punto
di ammissibilità della domanda di revisione di una sentenza di
condanna divenuta irrevocabile avanzata dal condannato che avesse
rifiutato di difendersi e di essere difeso in quel giudizio.
Si deve dunque concludere che il diritto di difesa nel giudizio
penale – per restare al thema decidendum – è non soltanto inviolabile,
ma è altresi irrinunciabile, con la conseguenza che il rifiuto di
compiere o di consentire al compimento di determinate attività
difensive non può costituire di per sé preclusione assoluta allo
svolgimento di altre ulteriori.
8. – Se cosi è, la obbligatoria presenza al dibattimento del
difensore, perché presti la propria assistenza all’imputato, prevista
a pena di nullità dall’art. 125 c.p.p., non contrasta certamente con
l’art. 24, secondo comma, Cost.
Dal disposto della legge processuale penale, qui considerato, non
discende infatti quell’obbligatorio esperimento di concrete attività
difensive cui i giudici a quibus fanno generico riferimento per dedurne
l’esistenza di una contraddizione in termini rispetto al rifiuto di
difendersi manifestato dall’imputato.
Infatti, come già si è osservato, la difesa dell’imputato nel
giudizio può essere esercitata attraverso l’attività dell’imputato
stesso e/o del suo difensore.
Il codice di rito non disciplina rigidamente il rapporto tra questi
due soggetti, e l’ampiezza del disposto dell’art. 443 c.p.p. non
consente di individuare limitazione alcuna in ordine agli argomenti sui
quali l’imputato ha facoltà di fare dichiarazioni, dopo aver
conferito, se lo ritiene, con il proprio difensore.
Del pari, il diritto dell’imputato e del suo difensore, ad avere
per ultimi la parola, sottolinea ulteriormente la concorrenza dei loro
apporti difensivi nella fase del giudizio.
Vero è che la prassi giudiziaria questi ruoli ha indubbiamente
distinto, nel senso di affidare il peso prevalente della difesa al
difensore tecnico, ma questa situazione di fatto non vale a modificare
un impianto normativo improntato al massimo di elasticità, che
consente radicali spostamenti nell’equilibrio delle attività difensive
consentite all’imputato e al suo difensore.
Tanto basta ai fini della presente decisione, una volta accertato
che il difensore deve presenziare al dibattimento per ivi “assistere”
l’imputato e cioè per garantire la possibilità di un contraddittorio
effettivo (e perciò equilibrato) alla cui realizzazione, per il più
sicuro adempimento delle funzioni giurisdizionali, è preordinata tutta
una serie di disposizioni processuali (artt. 76, 421, 428, 438, 441,
442, 443, 447, 468 c.p.p.).
La nomina del difensore di ufficio, disciplinata dall’articolo 128
c.p.p., conferisce concretezza all’obbligo della assistenza difensiva
di cui all’art. 125 c.p.p. e consente inoltre, o dovrebbe normalmente
consentire, nei casi di assenza dell’imputato, uno svolgimento non
monologico del giudizio stesso.
Nelle fattispecie, quali quelle prospettate dai giudici a quibus,
di assenza volontaria dal dibattimento dell’imputato, motivata dal suo
rifiuto di difendersi e di essere difeso, la presenza obbligatoria del
difensore di ufficio, nei limiti desumibili dai soli artt. 125 e 128
c.p.p., assicura la regolarità del dibattimento stesso e la
possibilità del concreto ed efficace esperimento attivo
dell’irrinunciabile diritto di difesa, contemperando così l’esercizio
di tale diritto e quello della funzione giurisdizionale, in modo da
evitare che le facoltà connesse al primo possano essere usate in modo
perverso per intralciare e paralizzare il secondo.
Ai fini della decisione è, dunque, sufficiente ribadire che le
norme denunziate, nelle quali non si esprime una scelta legislativa
costituzionalmente obbligatoria, sono meramente strumentali a modi di
esercizio del diritto di difesa, nel giudizio penale, immuni da censure
sul piano costituzionale.
9. – Per le medesime considerazioni sin qui svolte, i disposti di
legge in esame neppure contrastano con l’art. 2 Cost., in relazione al
quale nessuna autonoma censura risulta peraltro sviluppata nelle
ordinanze di rimessione.
Infatti l’invocato art. 2 Cost. nella costante interpretazione
della Corte “nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, che
costituiscono il patrimonio irretrattabile della sua personalità, si
ricollega alle altre norme costituzionali concernenti singoli diritti e
garanzie, quanto meno nel senso che non esistono altri diritti
fondamentali inviolabili che non siano necessariamente connessi a
quelli costituzionalmente previsti” (sent. n. 98 del 1979).
Escluso che le norme denunziate violino l’art. 24, secondo comma,
Cost., non è, allora, fondatamente prospettabile un loro contrasto con
l’art. 2 Cost., che al diritto di difesa si ricollega, ma si deve
invece riconoscere che nessuna lesione della personalità
dell’imputato, nessuna alterazione della sua identità può derivare
dall’obbligo in sé dell’assistenza del difensore nel giudizio penale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 125 e 128 codice di procedura penale sollevata con le
ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 2 e 24 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 3 ottobre 1979.
F.to: LEONETTO AMADEI – EDOARDO
VOLTERRA – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere