Sentenza N. 126 del 1979
Corte Costituzionale
Data generale
08/11/1979
Data deposito/pubblicazione
08/11/1979
Data dell'udienza in cui è stato assunto
07/11/1979
EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof.
LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI, Giudici,
4, 6, 7, 14, 15 e 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (Istituzione
dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili) e
dell’art. 8 della legge 16 dicembre 1977, n. 904, promossi con
ordinanze 8 febbraio 1978 della Commissione tributaria di secondo grado
di Udine, 9 marzo 1978 della Commissione tributaria di primo grado di
Isernia, 26 aprile 1978 della Commissione tributaria di primo grado di
Reggio Emilia, 3 maggio 1978 della Commissione tributaria di primo
grado di Grosseto, 4 e 18 marzo 1978 della Commissione tributaria di
primo grado di Aosta, 11 aprile 1978 della Commissione tributaria di
primo grado di Salerno, 24 febbraio 1978 della Commissione tributaria
di primo grado di Verona, 26 aprile 1978 della Commissione tributaria
di secondo grado di Roma, 1 giugno 1978 della Commissione tributaria di
primo grado di Trento, 5 aprile 1978 della Commissione tributaria di
primo grado di Biella, 28 giugno 1978 della Commissione tributaria di
secondo grado di Rovigo, 11 maggio 1978 della Commissione tributaria di
secondo grado di Udine, 10 aprile 1978 della Commissione tributaria di
primo grado di Pisa, 12 giugno 1978 della Commissione tributaria di
primo grado di Busto Arsizio, 10 marzo e 24 febbraio 1978 della
Commissione tributaria di primo grado di Verona, 24 febbraio 1978 della
Commissione tributaria di secondo grado di Milano, 8 giugno 1978 della
Commissione tributaria di primo grado di Bassano del Grappa, 13 luglio
1978 della Commissione tributaria di primo grado di Gorizia, 17
febbraio 1978 della Commissione tributaria di primo grado di Imperia, 4
luglio 1978 della Commissione tributaria di secondo grado di Ravenna,
19 luglio 1978 della Commissione tributaria di primo grado di Tolmezzo,
21 aprile 1978 della Commissione tributaria di secondo grado di
Avellino, 13 maggio 1978 della Commissione tributaria di primo grado di
Ascoli Piceno, 10 aprile 1978 della Commissione tributaria di secondo
grado di Firenze, 5 ottobre 1978 della Commissione tributaria di primo
grado di Tortona, 14 ottobre 1978 della Commissione tributaria di primo
grado di Matera, 17 ottobre 1978 della Commissione tributaria di primo
grado di Cremona, 12 maggio 1978 della Commissione tributaria di primo
grado di Lucera, 15 novembre 1978 della Commissione tributaria di
secondo grado di Cremona, 28 settembre 1978 della Commissione
tributaria di primo grado di Gorizia, 16 ottobre 1978 della Commissione
tributaria di secondo grado di Bergamo, 5 dicembre e 14 novembre 1978
della Commissione tributaria di secondo grado di Ravenna e 22 giugno
1978 della Commissione tributaria di primo grado di Gorizia, iscritte
rispettivamente ai nn. 251, 374, 376, 385, 400, 401, 412, 413, 421,
431, 459, 461, 487, 488, 500, 503, 528, 529, 546, 567, 571, 572, 585,
586, 587, 588, 589, 598, 599, 615, 631, 643, 661 e 673 del registro
ordinanze 1978 e ai nn. 24, 31, 32, 38, 61, 67, 68, 73, 89, 97, 98,
99, 100, 101 e 108 del registro ordinanze 1979 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 215, 293, 300, 313,320,341
dell’anno 1978 e nn. 3, 10, 17, 24, 31, 38, 45, 52, 59, 73, 80 e 87
dell’anno 1979.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 maggio 1979 il Giudice relatore
Guido Astuti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Angelini
Rota per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Le questioni di costituzionalità della normativa sulla
istituzione dell’imposta sull’incremento di valore degli immobili
(d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643), sollevate con sessantasei ordinanze
emesse da varie Commissioni tributarie relativamente agli artt. 2,
primo comma, 3, 4, 6, 7, 11, 14 e 15 di quella legge, in riferimento
agli artt. 3, 53 e 76 Cost., sono state già esaminate dalla Corte
nella udienza pubblica del 9 novembre 1977; in quella occasione, mentre
venivano dichiarate, con sentenza n. 8 del 1978, non fondate le
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, primo comma, 7
e 15 lett. e del citato d.P.R., sollevate dalla Commissione tributaria
di secondo grado di Trento in riferimento all’art. 76 Cost., venivano
restituiti ai giudici con ordinanza n. 9/1978 gli atti relativi alle
altre ordinanze per un nuovo esame sulla rilevanza, essendo nel
frattempo entrato in vigore l’art. 8 della legge 16 dicembre 1977, n.
904, che aveva apportato modifiche alla normativa sull’INVIM; con
successiva ordinanza n. 67 dello stesso anno venivano, con la medesima
motivazione, restituiti ai giudici gli atti relativi ad altre ordinanze
di eguale contenuto nel frattempo pervenute alla Corte.
Le ordinanze ora all’esame ripropongono per la massima parte le
stesse questioni già proposte.
2. – La Commissione tributaria di secondo grado di Udine, nel corso
di una controversia promossa da Blasich Sergio, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., questione di legittimità
costituzionale degli artt. 6 e 14 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (e
successive modifiche) e dell’art. 8 della legge 16 dicembre 1977, n.
904. Ad avviso della Commissione le norme impugnate violerebbero i
principi della capacità contributiva e della parità tributaria
disponendo che l’incremento di valore imponibile venga ricavato dalla
differenza tra il valore iniziale e quello finale, calcolati in termini
monetari, senza tenere conto della intervenuta svalutazione della
moneta, consentendo detrazioni annue non ragguagliate alla misura del
tasso di inflazione e prevedendo una percentuale diversa di detrazione
per il periodo dal 1 gennaio 1973 al 31 dicembre 1979, con conseguente
sperequazione tra i soggetti passivi dell’imposta.
Identiche questioni sono state sollevate dalla Commissione
tributaria di primo grado di Reggio Emilia sul ricorso proposto da
Ligabue Vincenzo; dalla Commissione tributaria di secondo grado di
Rovigo, sui ricorsi proposti dalle Società di Credito italiano e
Assicurazioni Generali; dalla Commissione tributaria di primo grado di
Verona, sul ricorso proposto dalla Società italiana per l’industria
degli zuccheri e sui ricorsi riuniti proposti dal Banco di Napoli
nonché su quelli proposti dalla Società Cattolica di Assicurazione;
dalla Commissione tributaria di primo grado di Imperia sul ricorso
proposto da Ragogna Mario e altri; dalla Commissione tributaria di
secondo grado di Ravenna, sul ricorso proposto dall’Ufficio del
Registro di Ravenna e dalla Società Reale Mutua Assicurazioni di
Torino; dalla Commissione tributaria di secondo grado di Avellino sul
ricorso proposto dall’Ufficio del Registro di Avellino; dalla
Commissione tributaria di secondo grado di Bergamo, sul ricorso
proposto dall’Ufficio del Registro di Romano di Lombardia; dalla
Commissione tributaria di secondo grado di Ravenna, sul ricorso
proposto da Pepe Vito e sui ricorsi proposti dalla Società Cattolica
di Assicurazione di Verona e dalla Società Assicuratrice Industriale.
La medesima questione, in riferimento però al solo art. 53 Cost.,
è stata sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di
Grosseto, sul ricorso proposto da Gori Savellini Eleonora ed altra;
dalla Commissione tributaria di primo grado di Aosta, sui ricorsi
proposti da Droz Augusto ed altro e da Ponzellini Celestino ed altra;
dalla Commissione tributaria di secondo grado di Udine, sul ricorso
proposto da Masetti Zanini de Concina Franca; dalla Commissione
tributaria di primo grado di Busto Arsizio, sul ricorso proposto da
Rossini Giovanni; dalla Commissione tributaria di primo grado di
Bassano del Grappa, sui ricorsi proposti da Simoncello Alfredo e Rossi
Giancarlo; dalla Commissione tributaria di primo grado di Tolmezzo, sui
ricorsi proposti da Fornasier Ersilia ed altri e da Seno Fabrizio;
dalla Commissione tributaria di primo grado di Ascoli Piceno, sul
ricorso proposto da Crisi Aulo; dalla Commissione tributaria di primo
grado di Tortona, sui ricorsi riuniti proposti da Salvarezza Anna e
altro e sul ricorso proposto da Dellachà Adolfo; dalla Commissione
tributaria di primo grado di Matera sui ricorsi proposti da Volpe
Annunziata ed altri e da Di Cesare Pasqua; dalla Commissione tributaria
di primo grado di Cremona, sui ricorsi proposti da Superti Gandolfi
Elsa, da Carini Rino e dall’Ufficio del Registro di Crema; dalla
Commissione tributaria di primo grado di Lucera, sul ricorso proposto
da De Santis Francesco; della Commissione tributaria di primo grado di
Gorizia, sul ricorso proposto da Hausbrandt Ermanno ed altro.
Le stesse questioni sono state sollevate anche dalla Commissione
tributaria di primo grado di Pisa, sul ricorso proposto da Corsi Aldo,
che ha altresì rilevato che l’art. 6 del d.P.R. n. 643 introdurrebbe
una ulteriore disparità di trattamento in danno dei proprietari di
aree fabbricabili, non solo per avere fissato aliquote di imposta
diverse rispetto a quelle che erano previste dalla legge sulla imposta
sull’incremento di valore delle aree fabbricabili, ma anche per avere
previsto un momento iniziale per la determinazione del valore diverso
rispetto a quello stabilito per i proprietari di altri beni immobili.
Identiche questioni sono state sollevate anche dalla Commissione
tributaria di primo grado di Gorizia, sui ricorsi proposti dalla Cassa
di Risparmio di Trieste ed altra; dalla Commissione tributaria di
secondo grado di Milano, sui ricorsi proposti da Peroni Gelmino ed
altri, che hanno eccepito altresì la violazione dell’art. 42 Cost.
perché la disciplina in questione avrebbe l’effetto di colpire il
patrimonio, risolvendosi in una parziale espropriazione senza
indennità.
All’art. 42 Cost. hanno fatto riferimento ancora la Commissione
tributaria di secondo grado di Roma, sul ricorso proposto da Lorenzi
Gioacchino, che ha rilevato la illegittimità dell’art. 6 d.P.R. n. 643
anche nella parte in cui dispone che ai fini della determinazione
dell’incremento di valore imponibile debbono assumersi i valori
accertati nelle precedenti tassazioni, senza possibilità di fare
riferimento ai valori reali; e la Commissione tributaria di primo grado
di Isernia, sui ricorsi proposti da Pontarelli Giovanni ed altro: tutte
hanno altresì impugnato l’art. 15 dello stesso d.P.R. in quanto la
progressività delle aliquote – per scaglioni di incremento imponibile
– ivi prevista, prescindendo da ogni riferimento di carattere
temporale, si risolve in un trattamento discriminatorio ai danni di
coloro che alienano beni a notevole distanza dal momento dell’acquisto.
La Commissione tributaria di Isernia ha rilevato la violazione
dell’art. 3 Cost. anche con riferimento all’art. 14 del d.P.R. n. 643,
perché l’applicazione della detrazione ivi prevista viene a
privilegiare ingiustamente chi effettua vendite ravvicinate nel tempo.
La violazione anche dell’art. 15 dello stesso d.P.R., in
riferimento ai soli artt. 3 e 53 Cost., è stata altresì rilevata
dalla Commissione tributaria di secondo grado di Firenze che, sui
ricorsi riuniti proposti da Pucci Giannozzo ed altri, ha rilevato, in
relazione all’art. 6, anche una ulteriore violazione dell’art. 3 Cost.
consistente nella disparità di trattamento non in base a una diversa
capacità contributiva, bensì con esclusivo riferimento al tempo, con
la conseguenza di favorire le alienazioni effettuate, con intento
speculativo, dopo poco tempo dall’acquisto; inoltre dalla Coinmissione
tributaria di primo grado di Salerno sui ricorsi proposti da Carpinelli
Attilio e Alfano Pellegrino ed altra, ma sotto il profilo che
l’attribuzione ai Comuni della determinazione delle aliquote
comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i
cittadini.
La (sola) violazione dell’art. 15 del d.P.R. n. 643 è stata
inoltre rilevata, con riferimento agli artt. 3, 53 e 42 Cost., dalla
Commissione tributaria di primo grado di Trento, sul ricorso proposto
da Rossi Giuseppe. Infine la Commissione tributaria di primo grado di
Gorizia, sul ricorso proposto dalla Banca Antoniana di Padova e di
Trieste, ha sollevato questione di costituzionalità degli artt. 6, 14,
15, 16 del d.P.R. n. 643 e 8 della legge n. 904, e sui ricorsi proposti
dalla S.p.A. Laon ed Italcantieri, degli artt. 2, 4, 6, 7, 14 e 15
dello stesso d.P.R. e 8 della stessa legge, in riferimento agli artt. 3
e 53 Cost., in quanto l’imposta de qua finisce per colpire il
patrimonio anziché l’incremento del valore conseguito dal bene.
Da ultimo la Commissione tributaria di primo grado di Biella, sul
ricorso proposto da Berghino Giovanni ed altra, ha sollevato la
violazione degli artt. 6 e 14 del d.P.R. n. 643 e 8 della legge n. 904
in riferimento, oltre che all’art. 53 Cost., nei sensi di cui alle
precedenti ordinanze, anche all’art. 47 Cost. in quanto dette norme,
fondando il prelievo tributario su un aumento fittizio della capacità
contributiva con conseguente assoggettamento ad imposta del bene in
sé, ostacola la tutela del risparmio.
3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto, a
mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, in tutti i giudizi, ad
eccezione di quelli relativi alle ordinanze emesse dalle Commissioni di
primo grado di Salerno (reg. ord. numeri 412,413/78), di Pisa (n.
503/78), di Gorizia (n. 68/79) e dalle Commissioni di secondo grado di
Avellino (n. 615/78) e di Ravenna (n. 89/79).
In primo luogo è stata eccepita la non rilevanza della questione
di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 904 del 1977,
sollevata dalla Commissione tributaria di secondo grado di Udine, non
potendo trovare detta norma applicazione in quel giudizio.
Richiamando poi le considerazioni già svolte per l’udienza del 9
novembre 1977, l’Avvocatura ha affermato la piena legittimità
costituzionale della normativa INVIM, necessariamente inserita in un
ordinamento giuridico che è fondato sul principio nominalistico della
moneta, e diretta alla tassazione di una particolare capacità
contributiva su cui la svalutazione della moneta non produce effetti
diversi da quelli che sono naturalmente pregiudizievoli per tutti i
cittadini. Nell’ambito della propria discrezionalità il legislatore,
introducendo nel sistema la previsione contenuta nell’art. 8 della
legge n. 904, ha attenuato l’incidenza dell’INVIM proprio per mantenere
esclusi dalla tassazione gli incrementi di valore soltanto nominali.
Infine l’ammontare della detrazione è senz’altro equo, deduce
l’Avvocatura, in relazione agli scopi per cui è stata disposta tenuto
conto: a) della impossibilità di applicare al solo commercio degli
immobili un indice di svalutazione desunto da ogni altro aspetto della
economia; b) della necessità di evitare che gli immobili ed in
particolare le aree fabbricabili siano sottratti, quali beni rifugio,
al loro naturale impiego per il soddisfacimento delle più elementari
esigenze della collettività.
Nessuna parte privata si è costituita.
1. – Le 49 ordinanze di rimessione elencate in epigrafe sollevano
questioni sostanzialmente identiche o strettamente connesse, e pertanto
i giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
Come analiticamente precisato nelle premesse in fatto, è
generalmente denunciata – in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. (o al
solo art. 531, nonché da alcune ordinanze anche agli artt. 42 e 47
Cost. – la illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 14 del d.P.R.
26 ottobre 1972, n. 643 e successive modificazioni, e dell’art. 8 della
legge 16 dicembre 1977, n. 904, sotto un duplice ordine di profili.
In primo luogo, si osserva nelle ordinanze che le ricordate
disposizioni relative alla determinazione dell’incremento di valore
imponibile, e delle detrazioni da tale incremento in rapporto al tempo
intercorso tra la data di acquisto o di riferimento e quella di
alienazione o trasmissione degli immobili, non consentirebbero adeguato
apprezzamento dell’incidenza della svalutazione monetaria, sottoponendo
così all’imposizione plusvalenze nominali e non reali, in contrasto
con i principi della capacità contributiva e dell’eguaglianza
tributaria. Con varia prospettazione, si rileva che a norma dell’art. 6
del d.P.R. n. 643/1972 vengono assunti come valore iniziale e come
valore finale degli immobili due valori di stima stabiliti in termini
monetari non omogenei, per effetto del mutato e decrescente potere
d’acquisto della lira nel corso del tempo, senza correttivi idonei a
depurare il valore differenziale della misura di incremento dipendente
solo dalla svalutazione della moneta, talché il tributo si
risolverebbe, almeno in parte, in una “imposta sull’inflazione”; si
osserva che assumendosi per la determinazione dell’incremento
imponibile i valori accertati nelle precedenti tassazioni, senza
possibilità di riferimento ai valori reali, si verificherebbe
ulteriore violazione del principio della capacità contributiva; che,
in fine, le detrazioni applicate ai valori iniziali, nelle percentuali
stabilite, per ogni anno o frazione di anno superiore al semestre,
dall’art. 14 del d.P.R. n. 643 del 1972 e dall’art. 8 della legge n.
904/1977, aventi funzione mitigatrice differenziata della
progressività del tributo e comunque inadeguate rispetto alla
svalutazione effettivamente verificatasi, non consentirebbero una
corretta applicazione del tributo agli effettivi incrementi di valore
degli immobili.
Ne conseguirebbe una sorta di imposizione patrimoniale mascherata e
distorta, applicata a singoli soggetti in occasione dell’alienazione a
titolo oneroso o dell’acquisto a titolo gratuito, nonché alle società
ed enti pubblici e privati di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 643/1972 e
successive modificazioni, anche al compimento di ciascun decennio dalla
data dello acquisto; imposizione che determinerebbe lesione non solo
dei principi sanciti dagli artt. 3 e 53 Cost. ma anche di quelli
enunciati negli artt. 42 e 47, comportando una parziale espropriazione
di fatto senza indennizzo, e contrastando con le istanze di tutela del
risparmio, specie in ordine all’accesso alla proprietà
dell’abitazione.
2. – In secondo luogo, con richiamo anche al regime delle aliquote
stabilito dall’art. 15 del d.P.R. n. 643/1972 di cui alcune ordinanze
denunciano la incostituzionalità, viene altresì rilevata la
violazione del principio di eguaglianza, prospettando, in relazione al
meccanismo dell’accertamento e delle detrazioni, nonché alla
progressività delle aliquote da applicarsi per scaglioni d’incremento
imponibile determinati con riferimento al valore iniziale
dell’immobile, maggiorato delle spese di acquisto, incrementative e di
costruzione, diversi profili di disparità di trattamento tra i
soggetti passivi del tributo. Tale disparità è ravvisata anzitutto
nel fatto che le aliquote progressive per scaglioni di incremento
imponibile, prescindendo da ogni riferimento di carattere temporale,
determinerebbero nell’applicazione dell’imposta un onere fiscale più
elevato per i trasferimenti immobiliari che si verificano a maggior
distanza di tempo dalla data dell’acquisto, o, per gli acquisti
verificatisi oltre un decennio prima dell’entrata in vigore del decreto
istitutivo del nuovo tributo, dal 1 gennaio 1963; e ciò anche per
effetto della fissità della percentuale delle detrazioni annue
riferite al valore iniziale degli immobili, per cui, di fronte al
graduale incremento del loro valore nel decorso del tempo, l’incidenza
delle detrazioni risulta via via decrescente.
Oltre che in relazione al diverso periodo di tempo considerato per
la determinazione della differenza tra valore iniziale e valore finale,
la disparità di trattamento viene prospettata anche in relazione alla
diversa frequenza delle fattispecie di trasferimento degli immobili,
nonché alla diversa misura delle percentuali di detrazione per il
periodo anteriore al 31 dicembre 1972 e per quello successivo, fino al
31 dicembre 1979.
3. – L’ordinanza n. 503/1978 della Commissione tributaria di primo
grado di Pisa rileva una ulteriore disparità di trattamento in danno
dei proprietari di aree fabbricabili, sia per il riferimento ad un
momento iniziale diverso da quello stabilito per gli altri beni
immobili, dovendosi per dette aree considerare il valore che esse
avevano alla diversa data stabilita con le deliberazioni previste dagli
artt. 5 e 25 della legge 5 marzo 1963, n. 246, sia anche per la
maggior misura delle aliquote rispetto a quelle già previste dalla
legge istitutiva dell’imposta sull’incremento di valore delle aree
fabbricabili.
La illegittimità costituzionale dell’art. 15 del d.P.R. numero
643/1972 è denunciata sotto un diverso profilo dalle ordinanze nn. 412
e 413/1978 della Commissione tributaria di primo grado di Salerno, in
quanto la norma, demandando ai comuni la concreta determinazione della
misura delle aliquote da applicarsi per scaglioni di incremento
imponibile, creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra
i contribuenti, potendo essere colpito con aliquote diverse uno stesso
incremento di valore di immobili contigui ma situati in territorio di
comuni diversi, e potendosi altresì verificare l’adozione di aliquote
più elevate, per particolari esigenze della finanza locale, in zone
economicamente più depresse, con violazione dei principi di
eguaglianza e di capacità contributiva.
Deve infine ricordarsi che la Commissione tributaria di primo grado
di Gorizia, con le ordinanze nn. 585, 586, 587/1978 e n. 108/1979, ha
denunciato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali
sopraindicati, oltre agli artt. 6, 14 e 15 del d.P.R. n. 643/1972,
anche gli artt. 2, 4, 7 e 16, senza specifica motivazione in ordine
alle disposizioni richiamate.
4. – Nei giudizi elencati in epigrafe (ad eccezione di quelli
promossi con le ordinanze nn. 412, 413, 503, 615/1978 e nn. 68,
89/1979), è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
deducendo, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, la
infondatezza di tutte le questioni proposte. L’imposta è
legittimamente diretta a colpire la specifica capacità contributiva
corrispondente all’accrescimento di valore degli immobili per effetto
di mutate condizioni oggettive e di mercato, da cui la proprietà
immobiliare privata ha tratto gratuito beneficio. L’incidenza della
svalutazione sull’incremento dei valori immobiliari non potrebbe
determinare di per sé lesione del principio della capacità
contributiva, in quanto l’apprezzamento dei suoi effetti, specie in
materia tributaria, può essere oggetto soltanto di eventuali scelte
politiche rimesse in via esclusiva alla discrezionalità del
legislatore ordinario, e non sindacabili in sede di controllo di
costituzionalità delle leggi. Agli effetti pregiudizievoli
dell’inflazione, che in varia misura colpisce la generalità dei
cittadini possessori di altri beni, valori e redditi mobiliari, non
può pretendersi che siano sottratti proprio gli immobili rustici e
urbani, beni diretti alla soddisfazione di fondamentali esigenze
sociali, come l’agricoltura e l’abitazione. D’altra parte, le
detrazioni previste dall’art. 14 del d.P.R. n. 643/1972, aumentate dal
4 al 10% per il periodo 1973-1979 con l’art. 8 della legge n. 504 del
1977, costituiscono correttivo idoneo ad assorbire almeno in parte gli
incrementi dovuti allo slittamento del potere d’acquisto della lira, e
la misura di tali detrazioni è comunque oggetto di un giudizio
insindacabile del legislatore. Gli incrementi di valore in concreto
realizzati dai soggetti passivi dell’imposta costituirebbero pertanto
un sicuro indice di capacità contributiva; né potrebbero ravvisarsi
disparità di trattamento nell’applicazione dell’imposta per effetto
della sua diversa incidenza nei confronti di situazioni soggettivamente
ed oggettivamente diverse.
L’Avvocatura dello Stato ha eccepito la non rilevanza della
questione di costituzionalità dell’art. 8 della legge numero 904/1977,
sollevata dalla Commissione tributaria di secondo grado di Udine con
l’ordinanza n. 251/1978, non potendo detta norma trovare applicazione
in quel giudizio, in relazione alla data dell’atto di trasferimento a
cui era stata applicata l’imposta. L’eccezione è fondata, e deve
essere accolta; ma ciò non esonera questa Corte dall’esame della
questione in relazione alle numerose ordinanze concernenti giudizi per
la cui decisione essa risulta sicuramente rilevante.
5. – Scendendo all’esame delle diverse questioni, giova premettere
qualche considerazione circa l’oggetto e i presupposti del tributo, per
un corretto approccio di fronte a taluni rilievi critici tanto banali
quanto diffusi, che in alcune ordinanze di rimessione hanno trovato
immeritato accoglimento.
L’esigenza della imposizione fiscale sull’incremento di valore
degli immobili non è certo una novità, né una singolarità del
vigente sistema tributario italiano. Oltre al rilievo attribuito alle
plusvalenze in genere, all’atto della realizzazione o della iscrizione
in bilancio, ai fini delle imposte dirette, in quanto esse siano
ricollegabili a finalità speculative, reali o presunte, in molti Paesi
è stata largamente riconosciuta, fin dal secolo scorso, l’esigenza di
assoggettare a prelievo fiscale l’effettiva variazione del valore di
mercato dei beni immobili, e in specie dei terreni fabbricabili, in
quanto non ricollegabile ad iniziative, attività ed investimenti dei
proprietari, ma derivante dalla espansione degli agglomerati urbani, da
nuovi insediamenti industriali o turistici, e dal complesso delle opere
pubbliche connesse a tali sviluppi, nonché da contingenti e spesso
imponenti fenomeni di speculazione immobiliare.
Senza ricordare altri esempi ben noti nella legislazione straniera
ed anche italiana, sarà qui sufficiente far richiamo agli immediati
precedenti dell’imposta ora in vigore: il contributo di miglioria
generica, disciplinato dagli artt. 236 e seguenti del t.u. per la
finanza locale, approvato con r.d. 14 settembre 1931, n. 1175, e la
imposta sull’incremento di valore delle aree fabbricabili, istituita
con la legge 5 marzo 1963, n. 246, in correlazione con l’accelerata
espansione urbanistica verificatasi nel nostro Paese nel periodo della
ricostruzione post-bellica e con i connessi cospicui fatti speculativi,
spesso contrastanti con le esigenze di sviluppo dell’edilizia economica
e popolare.
Non è quindi possibile porre in dubbio la giustificazione
fondamentale dell’imposta di cui è causa, diretta a colpire incrementi
di valore non di rado vistosi, dovuti al concorso di fattori oggettivi,
o esterni, indipendenti da iniziative dei singoli soggetti privati, e
in larga misura legati all’insieme dei lavori e servizi pubblici
eseguiti a spese dello Stato e degli enti locali, talché gli
incrementi in questione sono stati qualificati da autorevoli studiosi
dell’economia politica come “valore pubblico”, pertinente alla
collettività e non ai privati proprietari che pur ne traggono gratuito
beneficio.
Questo incremento dei valori immobiliari, che di per sé
costituisce sicuro indice di capacità contributiva, riceve ulteriore
impulso dalla svalutazione della moneta, impulso tanto maggiore quanto
più intenso e rapido si manifesta il processo inflattivo. Ed è ovvio
che l’incidenza della svalutazione assume particolare rilievo, in
rapporto alla pressione fiscale, sia quando trattisi di imposte
caratterizzate da progressività di aliquote, sia soprattutto quando il
tributo, come accade appunto per l’INVIM, venga applicato sulla base
d’un valore imponibile determinato dalla differenza tra due valori
monetari accertati in tempi diversi, ossia corrispondenti a monete
aventi diverso potere d’acquisto.
6. – Da questa constatazione non consegue tuttavia che la presenza
del fattore inflattivo debba costituire ostacolo alla applicazione
d’una imposta sul plusvalore degli immobili, né che il legislatore
possa essere tenuto a depurare gli incrementi di valore imponibile
della componente imputabile alla svalutazione della moneta, mediante
formule di indicizzazione o di integrale rivalutazione, in contrasto
con i principi a cui si ispira non solo il vigente sistema tributario,
ma l’intero regime delle obbligazioni pecuniarie, corrispondente alle
esigenze di una economia sviluppata in cui la moneta è indispensabile
misura dei valori di mercato.
Con ciò non si intende ovviamente escludere che il legislatore
possa o, in casi di particolare gravità, debba tener conto degli
effetti conseguenti ai processi di svalutazione monetaria, per
correggere o eliminare conseguenze inique o eccessivamente onerose, sia
nella disciplina dei rapporti tra soggetti privati, sia in quella
relativa alle obbligazioni tributarie. Questo è di fatto avvenuto
anche nel nostro Paese, e non occorre ricordare qui esempi ben noti di
interventi legislativi più o meno recenti, diretti a ricondurre ad
equità rapporti giuridici pubblici e privati, o almeno ad attenuare
talune conseguenze più gravi del deprezzamento della moneta avente
corso legale. Ma questi interventi sono stati sempre il frutto di
scelte politiche, riservate alla discrezionalità del potere
legislativo, al quale compete di provvedere in sì delicata materia,
sulla base di valutazioni di ordine politico, sociale, economico,
finanziario, che sfuggono di massima al sindacato di legittimità
affidato a questa Corte.
Anche nel campo della legislazione tributaria questa
discrezionalità di scelte politiche non è contestabile, sia sul piano
generale della distribuzione del carico fiscale tra le diverse
categorie di contribuenti, sia su quello settoriale dell’applicazione
delle diverse imposte dirette e indirette. E per quanto concerne in
specie il tributo di cui è causa, mentre appare incontestabile la
piena legittimità della imposizione diretta a colpire gli effettivi
incrementi di valore degli immobili, deve altresì ritenersi non
sindacabile in questa sede la disciplina normativa dei presupposti e
criteri di applicazione del tributo, in relazione agli effetti della
svalutazione della moneta, nemmeno sotto il profilo di una sopravvenuta
incostituzionalità. Del resto, il legislatore nella statuizione dei
criteri per la determinazione dell’incremento di valore imponibile non
ha ignorato il fenomeno della svalutazione, anzi, – come risulta dai
lavori parlamentari e in specie dalle relazioni sul decreto delegato
istitutivo del tributo e sulla successiva legge n. 904 del 1977 -, ha
introdotto le detrazioni del 4% e poi del 10% annuo, anche nel fine,
seppure non esclusivo, di “assorbire gli incrementi attribuibili allo
slittamento della moneta”.
Così stando le cose, deve ritenersi non fondata la questione di
costituzionalità proposta in riferimento all’art. 53 Cost., sotto il
profilo della mancanza di un congegno di integrale conguaglio monetario
tra valore iniziale e valore finale, idoneo a depurare la base
imponibile netta dell’incremento dovuto alla svalutazione. Il principio
sancito dal Costituente, per cui “tutti sono tenuti a concorrere alle
spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, –
principio che si ricollega ad una solenne enunciativa contenuta già
nell’articolo 25 dello Statuto albertino, e di cui questa Corte ha più
volte chiarito il significato -, non può sicuramente dirsi violato
solo per il fatto che una fluttuazione del valore della moneta abbia
accresciuto l’incidenza fiscale di un tributo, pur nella incontestabile
presenza di una effettiva capacità del contribuente. Anche la
semplice sussistenza di effetti distorsivi nell’applicazione di una
imposta, imputabile alla svalutazione monetaria, non può, di regola,
considerarsi di per sé costituzionalmente rilevante e quindi
sindacabile, sempreché tali effetti non comportino la violazione di
qualche principio costituzionale, ovvero non determinino un sicuro
travalicamento del normale ambito di discrezionalità che la
Costituzione riserva alle scelte del legislatore ordinario.
7. – Infondata sotto il profilo dianzi esaminato, in riferimento al
parametro fornito dall’art. 53 Cost., la questione deve peraltro
dichiararsi fondata sotto il secondo e diverso profilo della violazione
del principio di eguaglianza, comunemente prospettata dalle ordinanze
di rimessione nei termini già sopra riferiti al n. 2, e con espresso
richiamo a diverse concrete situazioni di disparità di trattamento.
Se, come già si è ricordato, spetta al legislatore di valutare
quando e come si debba tener conto della incidenza della svalutazione
della moneta nell’applicazione di un tributo, non v’è dubbio che,
effettuata una scelta politica nell’esercizio della sua
discrezionalità, logica vuole che il legislatore stesso attui poi con
coerenza il criterio prescelto, mediante una disciplina normativa
idonea al conseguimento del fine voluto. Diversamente, ove l’incoerenza
fosse tale da determinare irrazionali discriminazioni, la legge
risulterebbe viziata non solo nel merito, ma anche sotto il profilo
della legittimità costituzionale.
Ora, per quanto concerne in specie l’imposta in esame, non sussiste
incertezza tanto sullo scopo perseguito, di colpire incrementi di
valore dipendenti da fattori obbiettivi estranei all’attività dei
proprietari, quanto sulla fondamentale esigenza di assicurare una
corretta applicazione del tributo, conforme non solo al principio della
capacità contributiva ma anche a quello della parità di trattamento
dei diversi soggetti passivi. Ciò emerge con particolare evidenza
trattandosi di un tributo che, a differenza dalla generalità delle
imposte dirette e indirette, le quali colpiscono con esclusivo
riferimento a valori attuali al momento della concreta applicazione,
assume quale presupposto, o almeno quale base imponibile, un incremento
di valore, considerato come fatto continuo delimitato da due termini di
riferimento nel tempo.
Senza indugiare qui sulla non facile identificazione della natura e
dei presupposti dell’INVIM, in relazione al suo ambito di applicazione
soggettivo ed oggettivo, sarà sufficiente sottolineare come accanto ai
diversi eventi (alienazione, acquisto, possesso decennale) che rendono
ardua una definizione unitaria del presupposto, l’incremento di valore
degli immobili assuma fondamentale rilevanza nella struttura del
tributo, per quanto attiene alla determinazione dell’imponibile sulla
base dell’oggettiva variazione di valore nel tempo. In altre parole,
l’INVIM, non solo nell’applicazione periodica in base al possesso
decennale, ma anche rispetto alle ipotesi di alienazione-acquisto degli
immobili, sebbene applicata in occasione del trasferimento, non è
configurabile come imposta sui trasferimenti, bensì come imposta sugli
incrementi di valore.
Dovendosi individuare l’incremento imponibile come valore
differenziale, costituito dalla differenza tra un valore iniziale e un
valore finale, era anzitutto necessario stabilire un punto di
riferimento temporale a quo per gli acquisti verificatisi oltre un
decennio prima dell’entrata in vigore del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.
643 (1 gennaio 1973). Il criterio di non risalire oltre il decennio era
già stato accolto dal legislatore nella precedente legge n. 246 del
1963, concernente l’imposta sugli incrementi di valore delle aree
fabbricabili: ove era stato stabilito che la data di riferimento alla
quale i singoli comuni intendessero risalire per la determinazione
dell’incremento tassabile non poteva, per regola generale, essere
fissata anteriormente al 1 gennaio del terzo anno antecedente a quello
di adozione della deliberazione istitutiva dell’imposta (art. 5),
disponendo però che i comuni obbligati ad applicare l’imposta, nonché
gli altri comuni qualora ubicati in prossimità di un comune con più
di 30.000 abitanti, e compresi nella zona di espansione urbanistica o
in un piano intercomunale di quel comune, potevano fissare la data di
riferimento fino al 1 gennaio del decimo anno antecedente a quello nel
quale avessero adottato la deliberazione istitutiva dell’imposta (art.
25: e si cfr. altresì le norme transitorie dettate con gli artt. 48 e
49 per i comuni in cui fosse già stata in precedenza stabilita
l’istituzione del contributo di miglioria generica).
Movendo da queste premesse, l’art. 6, terzo comma, del d.P.R.
643/1972 (modificato dal d.P.R. n. 688/1974), stabilisce che per gli
acquisti verificatisi oltre un decennio prima del 1 gennaio 1973 “il
valore iniziale è quello venale che i beni avevano al 1 gennaio 1963
(nel dettato originario: “al decimo anno anteriore”), ovvero, nel caso
di beni per i quali erano applicabili le disposizioni della legge 5
marzo 1963, n. 246, quello che essi avevano alla diversa data stabilita
con le deliberazioni previste dagli artt. 5 e 25 della predetta legge”.
Anche per l’applicazione periodica dell’imposta nei confronti dei
soggetti indicati all’art. 3 (e successive modificazioni), analogamente
a quanto già disposto dall’art. 3 della legge n. 246/1963, è stato
stabilito che essa deve aver luogo “al compimento di ciascun decennio
dalla data dell’acquisto” (art. 3, primo comma, modificato dal d.P.R.
n. 688/1974), e l’art. 6, quinto comma, nel testo integrato dal d.P.R.
n. 688/1974, aggiunge: “Per gli immobili che al 1 gennaio 1975
appartengano alle società da oltre dieci anni si assumono come valore
iniziale e come valore finale i valori venali al 1 gennaio 1965 e al 1
gennaio 1975”.
8. – Assunto un periodo di dieci anni quale presupposto temporale
per la determinazione dell’incremento di valore imponibile, sia nel
caso di alienazione-acquisto, sia nell’applicazione periodica
dell’imposta alle società, rispondeva ad un criterio logico, nel
provvedimento istitutivo dell’imposta, fissare l’estremo dies a quo,
per gli acquisti risalenti oltre un decennio prima della sua entrata in
vigore, alla data del 1 gennaio 1963. Ma questo termine iniziale fisso
è poi rimasto immutato negli anni, così d’aver prodotto, e più
ancora da prestarsi a produrre in avvenire, nell’applicazione
dell’imposta, una abnorme diversa incidenza dell’elemento temporale,
creando tra i contribuenti sperequazioni rilevanti, e tanto più gravi
in relazione alla progressività delle aliquote. Il legislatore ha
bensì tenuto presente il fattore tempo, ed ha previsto, con riguardo
alla diversa ampiezza dell’arco temporale considerato per la
determinazione della differenza tra valore finale e valore iniziale, la
detrazione dall’incremento di valore – per ogni anno o frazione d’anno
superiore al semestre – di una somma pari al 4% del valore iniziale,
maggiorato delle spese di acquisto, di costruzione ed incrementative
riferibili al periodo considerato (art. 14 d.P.R. n. 643/1972);
detrazione elevata al 10% per il periodo 1 gennaio 1973 – 31 dicembre
1979 (art. 8 legge n. 904/1977). Ma queste detrazioni, a prescindere da
altri rilievi sul loro regime, che saranno esposti nel seguito, se
possono apparire idonee e congrue per correggere le disparità di
trattamento nell’ambito di un limitato periodo, risultano inadeguate al
fine voluto dal legislatore nel riferimento a più ampi periodi di
tempo.
Invero, l’imposta può ormai essere applicata ad incrementi di
valore formatisi nel corso di diciassette anni, o anche più, nel caso
di beni già soggetti all’applicazione della legge 5 marzo 1963, n.
246, in evidente difformità dal criterio generale adottato dal
legislatore di colpire, di regola, incrementi non più che decennali, e
in sicuro contrasto con il canone della ragionevolezza, la cui
inosservanza integra disparità di trattamento, con violazione del
principio di eguaglianza, principio di cui anche il principio della
capacità contributiva rappresenta, sotto questo profilo, univoco e
specifico sviluppo. Rispetto ad incrementi di valore formatisi in così
lunghi periodi, la legge avrebbe dovuto introdurre correttivi adeguati
alla diversità dei periodi di formazione, e ciò anche per ovviare
alle conseguenze palesemente inique che, nel lungo periodo, sarebbero
derivate da una più ampia variazione del metro monetario.
9. – Altro difetto strutturale del sistema di determinazione
dell’incremento imponibile netto, nella logica del meccanismo di questa
legge, è costituito dal regime delle detrazioni. Come già si è
ricordato, le detrazioni dall’incremento di valore (nonché
dall’importo delle spese ammesse, secondo quanto stabilito dagli artt.
11-13 del provvedimento istitutivo del tributo), in misura percentuale
del valore iniziale, sono state introdotte per attenuare il naturale
aggravio delle aliquote progressive dell’imposta destinato a prodursi
con il decorso degli anni. Ed a ciò si collega, soprattutto dopo
l’aumento della misura percentuale della detrazione annua dal 4 al 10%,
– aumento che ovviamente di per sé non comporta la disparità di
trattamento denunciata senza motivo da qualche ordinanza -, il
dichiarato fine di correggere o ridurre gli effetti della svalutazione
della moneta, in correlazione al tempo intercorso tra gli eventi
considerati per determinare l’incremento di valore in base alla
differenza tra valore iniziale e valore finale.
Adottato in tale senso, come unico correttivo, il sistema delle
detrazioni annue, in relazione al periodo considerato per la
determinazione dell’incremento di valore imponibile netto, esigenze di
coerenza e congruità al fine voluto avrebbero richiesto una diversa
commisurazione delle detrazioni riferita al graduale aumento del valore
dell’immobile nel corso del tempo. Invece l’incidenza delle detrazioni
fissate in misura costante risulta inadeguata, in quanto non è
proporzionata all’effettivo incremento, e nemmeno alla parte di esso
ascrivibile alla progressiva diminuzione del potere d’acquisto della
moneta, ma al contrario agisce in misura via via decrescente, e quindi
con efficacia correttiva tanto minore quanto più ampio è il periodo
di tempo intercorso tra i due termini di raffronto, ancorato come è,
si tratti del 4 o del 10%, al valore iniziale, che nel tempo risulta
sempre meno comparabile con quello finale.
Anche sotto questo profilo, è palese la irrazionalità del regime
delle detrazioni, la cui applicazione determina in concreto
ingiustificate disparità di trattamento, laddove il legislatore si era
proposto di eliminarle.
10. – I difetti strutturali del sistema di calcolo dell’incremento
di valore, in relazione al regime delle detrazioni e alla formazione
dell’imponibile netto, si rivelano con ancor maggiore evidenza
considerando la progressività delle aliquote che, a norma dell’art. 15
del d.P.R. n. 643/1972, come modificato dall’art. 1 del d.P.R. n.
688/1974, sono applicate per scaglioni d’incremento imponibile
(determinati con riferimento al valore iniziale dell’immobile,
maggiorato delle spese di acquisto, incrementative e di costruzione),
in misura crescente dal 3-5% fino al 30%.
Il meccanismo di liquidazione dell’imposta, per effetto della
progressività delle aliquote, rispetto alla cui applicazione
l’elemento temporale esercita incidenza minima, essendo considerato
unicamente nel calcolo delle detrazioni percentuali annue, comporta in
concreto un trattamento differenziato e palesemente discriminatorio,
tra coloro che alienano immobili a diversa distanza di tempo
dall’acquisto, con un onere tributario notevolmente più gravoso per
chi aliena dopo un più lungo periodo di possesso; e ciò in quanto
determinandosi gli scaglioni d’incremento con riferimento al valore
iniziale e all’importo delle spese ammesse, ed applicandosi le aliquote
alla base imponibile netta, lo scatto delle aliquote più elevate tende
a verificarsi in misura non ragguagliata alla durata del periodo
considerato per il calcolo del valore differenziale.
La riprova di questi rilievi è offerta dalla constatazione di
fatto che per uno stesso immobile, o per due immobili di eguale valore,
oggetto nel corso di un decennio di successive alienazioni, ovvero di
una sola alienazione al termine del decennio medesimo, pur essendo
identici il primo valore iniziale e l’ultimo valore finale, e quindi
eguale il complessivo incremento di valore, l’incidenza dell’imposta
applicata al termine del decennio può risultare ben superiore a quella
della somma delle imposte applicate ai passaggi di proprietà
verificatisi nello stesso arco di tempo. Né trattasi di meri
pregiudizi di fatto, bensì di ingiustificate conseguenze dei criteri
tecnici adottati dal legislatore. E d’altra parte non si scorgono
ragioni che possano giustificare un trattamento meno favorevole per chi
aliena dopo avere a lungo goduto il possesso d’un immobile, specie se
destinato all’abitazione del nucleo familiare.
Con questi rilievi non si intende ovviamente porre in discussione
il criterio di progressività a cui si informa il tributo, ma
unicamente constatare le conseguenze aberranti che, – nell’applicazione
delle aliquote progressive, in sé pienamente legittime -, derivano dal
sistema normativo adottato per il calcolo dell’incremento imponibile
netto e per la determinazione dei relativi scaglioni con riferimento al
valore iniziale maggiorato delle spese; sistema veramente inadeguato
all’esigenza di una coerente e congrua considerazione dell’elemento
temporale, indispensabile per una corretta imposizione degli oggettivi
incrementi di valore con trattamento uniforme nei confronti dei
soggetti passivi del tributo.
Esorbita dal compito istituzionale di questa Corte formulare
indicazioni o suggerimenti circa i rimedi che il legislatore vorrà
adottare, nella sua piena discrezionalità, per eliminare gli
inconvenienti che, sotto i diversi profili qui prospettati, dipendono
dai difetti strutturali del sistema di questa legge. Varie possono
essere le vie di una riforma correttiva, idonea a rendere l’imposta
sull’incremento di valore degli immobili corrispondente allo scopo
perseguito con la sua istituzione, e ad evitare la possibilità di
applicazioni distorte e lesive della parità tributaria. Le ordinanze
di rimessione hanno denunciato le disposizioni degli artt. 6, 14 e 15
del d.P.R. n. 643/1972, e dell’art. 8 della legge n. 904/1977, in
riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione: questa Corte ritiene
di dover dichiarare la illegittimità delle sole disposizioni che
concernono la determinazione definitiva della base imponibile, ossia la
formazione del valore imponibile netto, mediante detrazioni percentuali
fisse commisurate al numero degli anni, o frazioni d’anno, considerati
per il calcolo della differenza tra valore finale e valore iniziale.
Sono infatti le disposizioni dell’art. 14 del d.P.R. del 1972 e
dell’art. 8 della legge del 1977 quelle che direttamente regolano la
misura delle detrazioni annue in rapporto al periodo considerato per la
determinazione del valore differenziale, e pertanto solo queste
disposizioni possono essere investite dalla pronuncia di
incostituzionalità, pur rimanendo ovviamente in facoltà del
legislatore di attuare una più congrua disciplina normativa in ordine
alla incidenza dell’elemento temporale con eventuale intervento anche
su altre disposizioni della legge.
Non occorre, infine, ripetere qui le considerazioni già svolte per
cui la Corte ritiene di dover riferire la pronuncia di
incostituzionalità al principio enunciato dall’art. 3, primo comma,
della Costituzione.
11. – Non fondate sono invece le altre questioni sollevate da
alcune ordinanze, sopra ricordate al n. 3. Salvo quanto si è già
osservato circa le date di riferimento per la determinazione del valore
iniziale, la disparità di trattamento denunciata dalla commissione
tributaria di primo grado di Pisa con riguardo alle speciali
disposizioni concernenti le aree fabbricabili non sussiste. Le norme
transitorie che hanno regolato il passaggio dall’imposta sul plusvalore
delle aree a quella oggi in vigore (al par di quelle dettate dalla
legge n. 246 del 1963 in rapporto alla soppressione del contributo di
miglioria generica), possono aver determinato effetti diversi nei
confronti dei contribuenti assoggettati all’applicazione del vecchio o
del nuovo tributo, ma ciò tuttavia non comporta disparità di
trattamento lesiva del principio di eguaglianza, nemmeno per quanto
concerne l’eventuale diversa misura delle aliquote, in conseguenza di
una imposizione correlata alla oggettiva situazione di diritto e di
fatto delle aree site in territorio di comuni diversi; mentre nel caso
di utilizzazione edificatoria delle aree appare ineccepibile il
criterio stabilito dall’art. 6, sesto comma, del d.P.R. n. 643 del 1972
(modificato dal d.P.R. n. 688 del 1974 e dalla legge n. 694/1975), per
la separata liquidazione dell’imposta sull’incremento di valore delle
aree e rispettivamente dei fabbricati.
Per quanto concerne la disposizione dell’art. 15 del d.P.R. n.
643/1972 che attribuisce ai comuni la determinazione delle aliquote da
applicarsi per la liquidazione del tributo in relazione agli immobili
siti nel loro territorio, è appena il caso di ricordare che trattasi
di imposta il cui gettito è attribuito ai comuni, e che la legge non
soltanto ha fissato i precisi limiti minimi e massimi entro i quali
debbono essere stabilite le aliquote percentuali, ma ha altresì
indicato all’art. 16 i criteri a cui i comuni debbono attenersi nel
deliberare la misura delle aliquote, disciplinando anche il
procedimento di adozione, controllo e pubblicazione delle relative
deliberazioni consiliari. L’apprezzamento rimesso alla discrezionale
valutazione dei comuni, in misura molto ristretta e con prefissione di
criteri direttivi, lungi dal poter comportare lesione dei principi di
eguaglianza e di capacità contributiva, è precisamente diretto allo
scopo di consentire una maggiore aderenza alla realtà delle situazioni
locali, che possono giustificare l’adozione di aliquote diverse, nei
limiti invalicabili stabiliti dalla legge.
La Commissione tributaria di Gorizia ha in alcune ordinanze
denunciato anche gli artt. 2,4,7 e 16 del d.P.R. n. 643/1972, senza
peraltro addurre alcuna motivazione in ordine a queste disposizioni.
Questa Corte ha già dichiarato non fondata la questione di
legittimità degli artt. 2, primo comma, e 7, in riferimento all’art.
76 Cost. (sentenza 2 febbraio 1978, n. 8), e non scorge motivo che
possa condurre, allo stato, alla richiesta declaratoria di
incostituzionalità.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 16
dicembre 1977, n. 904, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53
Cost., dalla Commissione tributaria di secondo grado di Udine, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 14 del d.P.R.
26 ottobre 1972, n. 643, e dell’art. 8 della legge 16 dicembre 1977, n.
904, nella parte in cui le disposizioni concernenti il calcolo
dell’incremento di valore imponibile netto determinano – in relazione
al periodo di formazione dell’incremento stesso – ingiustificate
disparità di trattamento tra i soggetti passivi del tributo;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 2, 4, 6, 7, 15 e 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643,
sollevate dalle ordinanze di cui in epigrafe in riferimento agli artt.
3, 42, 47 e 53 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 novembre 1979.
F.to: LEONETTO AMADEI – EDOARDO
VOLTERRA – GUIDO ASTUTI – MICHELE
ROSSANO – LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO
ROEHRSSEN – ORONZO REALE – BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere