Sentenza N. 127 del 1966
Corte Costituzionale
Data generale
29/12/1966
Data deposito/pubblicazione
29/12/1966
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/12/1966
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI
– Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO
MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott.
LUIGI OGGIONI, Giudici,
primo comma, del Codice di procedura penale, nell’inciso “in quanto
sono applicabili”, e dell’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 6 luglio 1965 dal Tribunale di Ferrara nel
procedimento penale a carico di Chendi Giuseppe, iscritta al n. 210 del
Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 326 del 31 dicembre 1965;
2) ordinanza emessa il 30 dicembre 1965 dal Tribunale di Varese nel
procedimento penale a carico di Comodo Marcantonio, iscritta al n. 8
del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 64 del 12 marzo 1966;
3) ordinanza emessa il 25 gennaio 1966 dal Pretore di Pieve di
Cadore nel procedimento penale a carico di Aigner Alfons, iscritta al
n. 25 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 64 del 12 marzo 1966.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 19 ottobre 1966 la relazione del
Giudice Antonio Manca;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
1. – Dall’ordinanza emessa dal Tribunale di Ferrara il 6 luglio
1965, risulta che, nel corso del procedimento penale a carico di Chendi
Giuseppe, l’interrogatorio dell’imputato era stato assunto il 27
febbraio 1964, mentre il deposito era stato disposto oltre un anno
dopo, cioè il 9 marzo 1965, con decreto notificato il 10 marzo. Donde
la violazione dell’art. 304 quater del Codice di procedura penale
(come modificato dalla legge 18 giugno 1955, n. 517), con la
conseguente nullità degli atti predetti.
Il Tribunale muove dal presupposto dell’applicabilità, in base
alle sentenze di questa Corte 11 e 52 del 1965, dell’accennata
disposizione ai procedimenti istruiti (come nella specie) col rito
sommario. Ed, in relazione a tale presupposto, ritiene che, nel caso,
si presentava pregiudiziale la questione circa gli effetti delle
sentenze della Corte costituzionale riguardo ai giudizi in corso:
effetti che, nel senso della retroattività, col solo limite della cosa
giudicata, discenderebbero specialmente dalla natura dichiarativa
inerente alle sentenze stesse.
Il Tribunale rileva che tale retroattività, sia pure entro certi
limiti, sarebbe riconosciuta anche dalla Corte di cassazione, non
soltanto riguardo ai giudizi civili, ma, in via di principio, anche per
quelli penali, dalla sentenza a Sezioni unite 27 ottobre 1962.
Osserva tuttavia che, con questa ultima decisione, si sarebbe data
all’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, una
interpretazione che sembrerebbe in contrasto con il primo comma
dell’art. 136 della Costituzione. In quanto cioè, nonostante la
dichiarazione di illegittimità, resterebbe integra la validità degli
atti processuali compiuti anteriormente ad una sentenza del giudice
ordinario emessa in primo grado, o ad altri provvedimenti, anche se non
coperta la prima dal giudicato, o non divenuti gli altri comunque
irrevocabili.
A tale soluzione, secondo l’ordinanza, la Corte di cassazione
sarebbe pervenuta applicando, per analogia, l’art. 72 delle norme di
attuazione del Codice di procedura penale, e il principio tempus regit
actum desunto dall’art. 11 delle preleggi. Questa interpretazione
dell’art. 136, mediante la norma della legge ordinaria, porrebbe in
luce il contrasto che, a quanto si assume, sarebbe ravvisabile fra le
disposizioni del citato art. 30 ed il precetto costituzionale; poiché
questo avrebbe una portata più larga circa gli effetti delle sentenze
di questa Corte, fermo restando il limite stabilito dal giudicato.
Donde la non manifesta infondatezza della questione come sopra
profilata.
L’ordinanza è stata ritualmente notificata, comunicata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 1965, n. 326.
In questa sede è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha
depositato le deduzioni il 13 agosto 1965.
La difesa dello Stato accenna preliminarmente al dubbio circa
l’ammissibilità della questione, in quanto riguardante una
disposizione della legge 11 marzo 1953, n. 87. Tale legge, pur essendo
legge ordinaria, avrebbe, secondo una opinione dottrinale, carattere
rafforzato rispetto alle altre leggi, poiché sarebbe stata emanata per
attuare la disciplina costituzionale concernente il funzionamento di
questa Corte, in base all’art. 1 della legge costituzionale 11 marzo
1953, n. 1.
Nel merito, l’Avvocatura, in sostanza, pone in rilievo che la Corte
di cassazione, nella ricordata sentenza, avrebbe riconosciuto l’effetto
generale erga omnes e la efficacia retroattiva delle sentenze di questa
Corte, in conformità degli artt. 136, primo comma, della Costituzione
e 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (dei quali la
disposizione dell’art. 30 della legge n. 87 non rappresenterebbe che
una ulteriore conforme precisazione, sia pure con diversa
formulazione), e ne avrebbe altresì fatto corretta applicazione nel
caso allora esaminato.
Il principio della retroattività, inerente alla dichiarazione di
illegittimità, infatti, importerebbe, nell’applicazione ai giudizi in
corso, anche un problema dei limiti entro i quali il principio stesso
dovrebbe essere contenuto, in relazione ai rapporti giuridici già
sorti ed agli atti già compiuti prima dell’emanazione della sentenza.
Problema che, peraltro, esulerebbe dall’ambito del giudizio di
costituzionalità, dovendosi ritenere rimesso alla competenza del
giudice ordinario; al fine di evitare, si aggiunge, che si pervenga a
conseguenze non conformi ad una equilibrata valutazione delle esigenze
pratiche.
Conclude quindi chiedendo che la questione, sollevata dal
Tribunale, se non inammissibile, sia dichiarata non fondata.
2. – Dall’ordinanza 30 dicembre 1965 del Tribunale di Varese
risulta che, nel procedimento penale a carico di Comodo Marcantonio,
istruito con rito sommario, era stata dedotta la nullità della perizia
riguardante la parte offesa, perché espletata senza l’osservanza delle
disposizioni degli artt. 304 bis, ter e quater del Codice di procedura
penale.
Il Tribunale ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
87, ritenendola assorbente rispetto alla predetta eccezione di nullità
e non manifestamente infondata.
Anche in questa ordinanza si osserva, in proposito, che la citata
disposizione, secondo un indirizzo giurisprudenziale più volte
confermato dalla Corte di cassazione in sede penale (sentenze 24 aprile
1964, 1 e 6 luglio 1965), sarebbe stata intesa nel senso
dell’inapplicabilità delle pronunzie di questa Corte agli atti
istruttori già compiuti nel vigore della disposizione dichiarata
illegittima. Ciò, in applicazione del principio tempus regit actum ai
sensi degli artt. 65 del decreto 28 maggio 1931, n. 602, e 16 del
decreto 8 agosto 1955, n. 666, rispettivamente concernenti le norme
transitorie del Codice di procedura penale e delle modificazioni
apportate dalla legge 18 giugno 1955, n. 517.
Anche secondo il Tribunale di Varese, in base all’accennata
interpretazione del citato articolo 30, si verrebbe a determinare una
situazione normativa in contrasto sia con il diritto alla difesa (art.
24), sia con l’art. 136 della Costituzione, in relazione all’articolo
1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1.
L’ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 1966, n. 64.
In questa causa non vi è costituzione di parti.
3. – Con ordinanza, emessa il 25 gennaio 1966, nel corso del
procedimento penale, istruito col rito sommario, a carico di Aigner
Alfons, il Pretore di Pieve di Cadore ha rilevato che l’imputato era
stato rinviato a giudizio senza il previo deposito degli atti nella
cancelleria ai sensi dell’art. 372 del Codice di procedura penale.
Tale mancato deposito importerebbe (secondo la eccezione dedotta dalla
parte privata) violazione del diritto di difesa, in base ai principi
affermati dalla ricordata sentenza di questa Corte n. 52 del 1965.
Il Pretore ha pure osservato che, siccome nel dispositivo di detta
sentenza, la dichiarazione di incostituzionalità sarebbe limitata alla
ritenuta inapplicabilità (in base all’art. 392 del Codice di
procedura penale) degli artt. 304 bis, ter e quater, tale dichiarazione
non sarebbe estensibile all’ipotesi del deposito degli atti preveduto
dal citato art. 372; e siccome inoltre questa ipotesi sarebbe analoga,
ma non subordinata a quella, oggetto della decisione citata, per gli
effetti dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, ha ritenuto di dover
sollevare, per ciò che attiene al deposito degli atti, autonoma (così
si esprime l’ordinanza) questione di legittimità costituzionale,
ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, dell’art. 392 del
Codice di procedura penale, nella parte oggetto della precedente
sentenza di questa Corte, ed in riferimento all’art. 24, secondo comma,
della Costituzione.
Rileva inoltre il Pretore che, nel procedimento penale anzidetto,
istruito col rito sommario, era stata espletata una perizia sulla parte
lesa, senza l’osservanza delle disposizioni dei citati artt. 304 bis,
ter e quater. In proposito ricorda la giurisprudenza della Corte di
cassazione sopra menzionata e la più recente sentenza dell’11 dicembre
1965 (n. 6 del 1966) dalla quale si desumerebbe una applicazione ex
nunc delle dichiarazioni di illegittimità. E pertanto, con
argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle esposte nelle
ordinanze sopra menzionate, ha sollevato la questione di legittimità
anche dell’art. 30, terzo comma, della più volte ricordata legge 11
marzo 1953, n. 87. L’ordinanza si sofferma anche sulla diversa
formulazione della detta norma, rilevando che non si tratterebbe di una
differenza soltanto formale e trascurabile, in quanto, in base a
quest’ultima disposizione si potrebbe ritenere che la norma dichiarata
illegittima potesse permanere nell’ordinamento restando, soltanto
paralizzata nell’applicazione, mentre la disposizione dell’art. 136
avrebbe una portata più estesa, nel senso dell’inefficacia della norma
fin dall’origine. Il che renderebbe possibile che la dichiarata
illegittimità della norma stessa incidesse anche sugli atti già
compiuti prima della pronunzia di incostituzionalità.
Pure in questa ordinanza si rileva che questa disposizione potrebbe
importare una applicazione restrittiva delle sentenze dichiarative
dell’incostituzionalità, in contrasto con la portata del primo comma
dell’articolo 136 e con l’articolo 24, secondo comma, della
Costituzione.
L’ordinanza ritualmente notificata e comunicata è stata pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 1966, n. 64.
Anche in questa non vi è costituzione di parti.
4. – Nella causa nella quale si è costituita, l’Avvocatura dello
Stato ha depositato una memoria, in data 4 maggio 1966, a conferma ed
illustrazione delle conclusioni, con riferimenti alle varie opinioni
manifestate nella dottrina.
Dopo avere ricordato altre sentenze della Corte di cassazione, non
menzionate nell’atto di intervento e, in particolare, la sentenza a
Sezioni unite dell’11 dicembre 1965 (n. 6 del 1966), la difesa dello
Stato dà atto, in particolare, che, sulla questione relativa alla
retroattività, o meno, delle sentenze di questa Corte, la dottrina,
pressoché unanime, è orientata in senso difforme da quello adottato
nei vari casi concreti esaminati e decisi dal supremo organo della
giurisdizione ordinaria; nel senso, cioè, dell’applicabilità al
giudizio in corso salvo l’irrevocabilità degli atti. La Cassazione,
osserva la difesa dello Stato, per quanto riguarda in specie le norme
attinenti agli atti processuali del procedimento penale, porrebbe la
distinzione fra l’incidenza “diretta” della pronunzia di
incostituzionalità, e quindi l’applicabilità agli atti da compiere o
in corso di compimento, e l’incidenza “indiretta” circa gli atti già
compiuti prima della dichiarazione di illegittimità della norma.
Per altro, come è stato già rilevato nelle deduzioni, secondo la
tesi esposta dall’Avvocatura, tali ragioni dottrinali, che non
sarebbero condivise da una parte autorevole della stessa dottrina, non
potrebbero comunque avere influenza nella decisione dell’attuale
controversia. Si tratterebbe, infatti, soltanto di vedere se
l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte di cassazione, sia
da rapportarsi, o no, ad una corretta interpretazione del terzo comma
dell’art. 30 della legge n. 87. Questa disposizione, infatti, si
conferma, nonostante la diversa formulazione, avrebbe contenuto
sostanzialmente identico a quello del precetto costituzionale, del
quale, se mai, rappresenterebbe una evoluzione legislativa, cioè un
allargamento in relazione agli effetti delle dichiarazioni di
incostituzionalità, e non già un’involuzione a carattere restrittivo,
come riterrebbe il Tribunale. Ed a tale identità di contenuto si
sarebbe riferita anche la Corte di cassazione sia nella sentenza del 27
ottobre 1962, sia, ancor più esplicitamente, nella più recente
sentenza dell’11 dicembre 1965. Ciò risulterebbe chiarito anche,
oltre che dal complesso della motivazione, da quella parte della
medesima, nella quale si è ritenuta la manifesta infondatezza della
questione di incostituzionalità del citato terzo comma, rilevando che
una eventuale dichiarazione di illegittimità della predetta
disposizione, non escluderebbe che l’interprete dovesse pervenire alle
stesse conclusioni adottate in detta sentenza, in base esclusivamente
alle disposizioni delle leggi costituzionali.
L’Avvocatura conferma quindi la tesi già prospettata, nel senso
che anche se, per ipotesi, la Corte di cassazione non avesse
correttamente risoluto il problema di sua competenza, concernente
l’interpretazione del terzo comma dell’art. 30 della legge n. 87, ciò
non potrebbe dar luogo ad un conflitto per contrasto con l’art. 136
della Costituzione od altro precetto costituzionale.
Le tre cause, sussistendo identità di questione, possono essere
riunite e decise con unica sentenza.
1. – L’ordinanza n. 25 del 1966, come si è in precedenza
accennato, ha rilevato che, nel corso del procedimento, istruito con il
rito sommario, l’imputato era stato rinviato a giudizio senza il previo
deposito degli atti, ai sensi dell’art. 372 del Codice di procedura
penale. Ha quindi sollevata, sotto tale aspetto, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 392, primo comma, dello stesso
Codice, il quale, con l’inciso “in quanto applicabili” renderebbe
possibile non estendere all’istruttoria sommaria il predetto art. 372
dettato per quella formale. Il che importerebbe violazione del diritto
di difesa garantito dal secondo comma dell’art. 24 della Costituzione.
La questione non è fondata.
Come si nota anche nell’ordinanza, la sentenza di questa Corte n.
52 del 1965, con riguardo alla questione allora prospettata, ha
dichiarato l’illegittimità della disposizione, ora nuovamente
impugnata, in relazione agli articoli 304 bis, ter e quater del Codice
di procedura penale (modificato dalla legge 18 giugno 1955, n. 517),
concernenti i diritti dell’imputato nello svolgimento dell’istruttoria
sommaria. Ma, con tale pronunzia, si è dichiarata soltanto
parzialmente l’illegittimità dell’inciso anzidetto, lasciando peraltro
inalterata, nella sua struttura e nelle sue finalità, l’istruzione col
rito sommario così come delineata dal Codice processuale; e lasciando
quindi tuttora operante la norma per la parte non concernente la
questione proposta.
Ora, non è contestabile che il deposito degli atti e dei documenti
nella cancelleria, prescritto dall’art. 372, all’atto della chiusura
dell’istruttoria formale, sia dettato anch’esso a garanzia della
difesa, come chiaramente dimostra il secondo comma dello stesso
articolo. È peraltro da osservare che tale deposito non manca
nell’istruttoria sommaria, poiché l’articolo 397, ultimo comma,
dispone che la richiesta di citazione, da parte del pubblico ministero,
è depositata nella cancelleria competente, e, con essa, sono trasmessi
gli atti del procedimento. Ciò ovviamente al fine di porre in grado
la difesa di prenderne conoscenza. Il che trova conferma anche
nell’art. 323 (modificato dalla legge del 18 giugno 1955), il quale,
per quanto riguarda la nomina del consulente tecnico, ammette che può
essere richiesta, dalla parte interessata o dal suo difensore, fino a
cinque giorni prima della data fissata per il dibattimento.
Non si può pertanto disconoscere che, nell’accennata ipotesi, il
diritto alla difesa viene rispettato, in relazione al carattere ed alla
finalità di quel tipo di istruttoria, e che quindi non è dato
riscontrare, sotto tale aspetto, alcuna violazione del precetto
costituzionale, nella parte impugnata dell’art. 392, sopra citato.
2. – La questione principale della controversia concerne, come in
precedenza si è riferito, il terzo comma dell’art. 30 della legge 11
marzo 1953, n. 87, secondo il quale le norme dichiarate
incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo
alla pubblicazione delle decisioni di questa Corte.
Si assume, nelle ordinanze di rimessione, che questa disposizione
(emanata in base all’art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953,
n. 1), per l’attuazione delle norme costituzionali (art. 136 della
Costituzione e art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948), data
anche la diversità di formulazione rispetto al primo comma dell’art.
136 (“cessa di avere efficacia”), renderebbe possibile una
interpretazione restrittiva degli accennati precetti:
un’interpretazione cioè che, circa l’incidenza delle pronunzie di
incostituzionalità sui procedimenti in corso davanti agli organi
giurisdizionali, escluderebbe tale incidenza relativamente agli atti di
istruzione penale, compiuti, come nella specie, col rito sommario,
prima della pubblicazione della sentenza sopra indicata, senza
l’osservanza delle garanzie del diritto di difesa, prevedute dai citati
artt. 304 bis, ter e quater.
3. – L’Avvocatura dello Stato deduce preliminarmente
l’inammissibilità della questione, sul riflesso che la disposizione
impugnata sarebbe compresa in una legge ordinaria, la quale,
trattandosi di legge di attuazione di norme costituzionali, avrebbe
carattere “rinforzato” rispetto alle altre leggi, tale da escludere il
controllo di costituzionalità.
L’assunto è contrario alla costante giurisprudenza di questa Corte
(sentenze nn. 14, 15, 16 e 20 del 1956 e 15 del 1957) e l’eccezione
deve essere perciò respinta.
4. – Nel merito la questione non è fondata.
La difesa dello Stato muove dal presupposto che la norma impugnata
sebbene con formulazione diversa da quella del primo comma dell’art.
136 della Costituzione, ne costituisca tuttavia una chiarificazione ed
una precisazione, senza restringerne la portata. Non contesta, d’altra
parte, che la dottrina, quasi unanime, riconosce al precetto della
Costituzione, collegato con l’art. 1 della legge costituzionale n. 1
del 1948, efficacia obiettiva erga omnes.
Rileva peraltro che siffatta estensione alle situazioni
verificatesi anteriormente alla pubblicazione della sentenza,
implicherebbe anche un problema di limiti, sino a qual punto cioè
l’efficacia, così detta retroattiva, delle sentenze di questa Corte
reagisca sulle accennate situazioni: problema che, in quanto
concernente lo svolgimento, in concreto, del procedimento in base alle
regole del Codice processuale, non darebbe luogo ad una questione di
costituzionalità, ma, soltanto, all’interpretazione ed applicazione
della legge ordinaria, nell’ambito della competenza degli organi
giurisdizionali.
Senonché è da obiettare che la questione proposta investe il
problema relativo agli effetti delle sentenze che dichiarano
l’illegittimità costituzionale di una norma di legge: problema, che
deve essere perciò esaminato nel complesso unitario della disciplina
che regola tali effetti (art. 136, primo comma, della Costituzione in
relazione all’art. 1 della legge costituzionale 1948, n. 1 ed all’art.
30, terzo comma, della legge di attuazione n. 87 del 1953). Rimane
ovviamente devoluta, alla competenza degli organi giurisdizionali,
l’applicazione in concreto dei principi che da tale interpretazione
derivano.
5. – Com’è noto il primo comma del citato art. 136, con
modificazioni di forma e con l’aggiunta “dal giorno successivo alla
pubblicazione delle decisioni”, ha riprodotto il terzo comma dell’art.
128 del progetto; ed il primo comma del progetto stesso è divenuto
l’art. 1 della legge costituzionale del 9 febbraio 1948, n. 1. E
mentre, nell’art. 136, si dispone che, con la dichiarazione di
illegittimità costituzionale, la norma cessa di avere efficacia dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione, nell’art. 1 della
legge del 1948 si precisa che la questione di legittimità
costituzionale, non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, può
essere sollevata di ufficio o ad istanza di parte, nel corso di un
giudizio, davanti ad organi giurisdizionali.
È pure noto che, nell’Assemblea costituente, non furono
approfonditi (salvo qualche accenno in un intervento) i vari problemi
che sarebbero potuti insorgere in dipendenza della dichiarazione di
illegittimità. Ed i primi commentatori della Costituzione, fondandosi
anche sulla formulazione letterale del primo comma dell’art. 136 si
orientarono nel senso che la dichiarazione stessa producesse effetti
analoghi a quelli dell’abrogazione, con le conseguenze inerenti a tale
istituto. Per altro non appariva allora chiaro che, nonostante la
formulazione della norma costituzionale, tuttavia il riconoscimento
(secondo anche l’orientamento del legislatore costituente) del
carattere generale, obiettivo ed erga omnes degli effetti derivanti
dalla dichiarata illegittimità di una norma, mal si conciliava con le
regole che disciplinano l’abrogazione, per la quale, come è noto,
rimane pienamente valida la norma abrogata fino all’entrata in vigore
di quella abrogante. In contrario di ciò che si verifica (come anche
attualmente ritiene la dottrina quasi unanime), nel caso di
dichiarazione di illegittimità, in quanto questa colpisce la norma fin
dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e rendendola
inapplicabile ai rapporti giuridici. Sostanziale diversità di
situazioni, quindi, che è stata già posta in luce dalla
giurisprudenza di questa Corte in varie sentenze (nn. 1 del 1956, 43
del 1957, 4 del 1959, 11 e 12 del 1960, 1 del 1962, 77 del 1963 e 38
del 1965), rilevandosi (sentenza n. 1 del 1956) che “i due istituti
dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale non sono
identici fra loro, si muovono su piani diversi con effetti diversi e
con competenze diverse”. Principi questi che hanno indotto questa Corte
ad ammettere il controllo di costituzionalità anche rispetto a norma
già abrogata, quando ne permanessero gli effetti nel vigore della
nuova Costituzione. Da ciò e dal carattere sostanzialmente
invalidante della dichiarazione di illegittimità deriva la conseguenza
(pure accolta dalla dottrina quasi unanime) che la dichiarazione stessa
produce conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento. Con
incidenza quindi, in coerenza con gli effetti di tale istituto, anche
sulle situazioni pregresse, verificatesi nello svolgimento del giudizio
nel quale è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di
costituzionalità, salvo il limite invalicabile del giudicato, con le
eccezioni espressamente prevedute dalla legge, e salvo altresì il
limite derivante da situazioni giuridiche comunque divenute
irrevocabili.
Con riferimento all’istituto dell’annullamento appunto (come
risulta dall’ampia relazione della Commissione della Camera dei
Deputati ad illustrazione dell’art. 30 della legge n. 87), è stata
inserita la disposizione del terzo comma: disposizione che, come pure
risulta dalla citata relazione, è stata dettata “per eliminare i dubbi
che erano stati sollevati nell’interpretazione dell’art. 136 della
Costituzione e che derivano appunto dall’aver considerato come rapporti
di diritto transitorio quelli derivanti dalle dichiarazioni di
incostituzionalità”.
6. – Senonché, come si è già accennato in precedenza, nelle
ordinanze di rimessione, con particolare riguardo all’attuale giudizio,
si assume che dalla norma impugnata, potrebbe desumersi, in via di
interpretazione, una restrizione del precetto costituzionale, circa gli
effetti delle sentenze che dichiarano l’illegittimità di una norma; e
quindi un impedimento all’applicazione delle garanzie di difesa (artt.
304 bis, ter e quater del Codice di procedura penale) per gli atti
istruttori compiuti, prima della ricordata sentenza di questa Corte (n.
52 del 1965), senza l’osservanza di tali garanzie. In quanto cioè gli
atti istruttori sarebbero regolati dal principio tempus regit actum.
Ritiene peraltro la Corte che l’assunto sia infondato.
Pur ammettendo, infatti, l’esistenza nell’ordinamento di un tale
principio, ricollegato a quello più generale della normale non
retroattività delle leggi che modificano o sostituiscono quelle
precedenti, al principio stesso non può farsi richiamo nel caso di
specie, il quale, come si è detto, è retto da principi diversi; da
quelli cioè che disciplinano l’annullamento.
È d’altra parte da osservare che il terzo comma dell’art. 30
della legge n. 87, contrariamente a quanto si assume, nel suo contenuto
sostanziale, non diverge, in alcun modo, dal precetto costituzionale,
come anche ritengono concordemente la dottrina e la giurisprudenza.
L’opinione contraria contrasta con gli intendimenti che ne hanno
determinato l’emanazione, quali risultano dalla sopra citata relazione
e dalle dichiarazioni del Presidente della Commissione parlamentare,
nel senso “che la formula adoperata nel citato terzo comma è
interpretativa e integrativa di quella costituzionale, in quanto
chiarisce che la pronunzia di illegittimità vale per tutti i processi
in corso”.
Non giova in contrario richiamarsi, come fanno le ordinanze di
rinvio, alla diversa formulazione del terzo comma dell’art. 30,
rispetto all’art. 136 della Costituzione. Questo infatti stabilisce,
in linea generale ed obiettiva, quale sia la conseguenza
nell’ordinamento della pronunzia di incostituzionalità: il terzo comma
in contestazione ne precisa gli effetti nel processo in corso, ai fini
della disapplicazione conseguente alla dichiarata illegittimità.
Pertanto, così interpretata, e soltanto in tal senso, la Corte non
ritiene illegittima la disposizione che ha formato oggetto del presente
giudizio.
7. – Quanto si è finora esposto, porta quindi a concludere che le
disposizioni circa il diritto alla difesa, non soltanto sono
applicabili all’istruttoria sommaria, com’è stato già deciso, ma lo
sono altresì agli atti istruttori compiuti con tale rito, prima della
pubblicazione della sentenza di questa Corte più volte menzionata (n.
52 del 1965), come effetto della dichiarazione di illegittimità
dell’art. 392, primo comma, del Codice di procedura penale, salvi i
limiti’ già precisati.
Si tratta, invero, di disposizioni, alle quali fa riferimento il n.
3 dell’art. 185 del Codice di procedura penale (modificato dalla legge
n. 517 del 1955), che attengono all’intervento, all’assistenza ed alla
rappresentanza dell’imputato nella istruzione. Esse riguardano bensì
atti di carattere processuale, ma appunto, per i loro riflessi sulle
garanzie della difesa, possono incidere su tutto il processo. Il che
è fatto palese dal modo con cui le ha considerate il legislatore, in
quanto, nella citata norma, dispone che la loro violazione dà luogo a
nullità insanabile, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del
procedimento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 392, primo comma, del Codice di procedura penale riguardo
all’inciso “in quanto sono applicabili”, in relazione all’art. 372
dello stesso Codice, ed in riferimento all’art. 24, secondo comma,
della Costituzione;
b) respinta l’eccezione di inammissibilità dedotta dall’Avvocatura
dello Stato,
dichiara non fondata, nei sensi esposti nella motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, terzo comma,
della legge 11 marzo 1953, n. 87, in riferimento agli artt. 24, secondo
comma, e 136, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1966.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.