Sentenza N. 129 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
10/07/1981
Data deposito/pubblicazione
10/07/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
24/06/1981
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO
ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI –
Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE
– Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
Repubblica, del Presidente del Senato della Repubblica e del Presidente
della Camera dei deputati nei confronti della Corte dei conti – Sezione
I giurisdizionale, notificati il primo il 19 novembre 1980 e gli altri
due il 1 dicembre 1980, rispettivamente depositati nella Cancelleria
della Corte costituzionale in data 25 novembre, 5 e 17 dicembre 1980 e
iscritti ai nn. 32, 33 e 34 del registro conflitti 1980, per conflitti
di attribuzione sorti a seguito dei decreti 30 ottobre 1979-19 febbraio
1980, con i quali è stato prescritto ai Tesorieri dei tre organi
ricorrenti di presentare nel termine di sei mesi i conti relativi alle
gestioni degli anni dal 1969 al 1977.
Udito nell’udienza pubblica del 13 maggio 1981 il giudice relatore
Livio Paladin;
uditi gli avvocati Aldo Sandulli, per il Presidente della
Repubblica, Vezio Crisafulli, per il Presidente del Senato della
Repubblica, e Paolo Barile, per il Presidente della Camera dei
deputati.
1. – Con altrettanti decreti emessi il 30 ottobre 1979, su istanza
del Procuratore generale, la Sezione I giurisdizionale della Corte dei
conti ha prescritto ai tesorieri della Camera dei deputati, del Senato
della Repubblica e della Presidenza della Repubblica il termine di mesi
sei per la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni
dal 1969 al 1977.
Nei decreti in questione si premette che, “ai sensi dell’art. 103
Cost., la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di
contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”; e
pertanto “giudica, con giurisdizione contenziosa” – ai sensi dell’art.
44 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 “sui conti dei tesorieri, dei
ricevitori, dei cassieri e degli agenti incaricati di riscuotere, di
pagare, di conservare e di maneggiare danaro pubblico o di tenere in
custodia valori e materie di proprietà dello Stato”. Di qui la
conseguenza – messa in luce da questa Corte, nella sentenza n. 114 del
1975 – che “è principio generale del nostro ordinamento che il
pubblico danaro proveniente dalla generalità dei contribuenti e
destinato al soddisfacimento dei pubblici bisogni debba essere
assoggettato alla garanzia costituzionale della correttezza della sua
gestione, garanzia che si attua con lo strumento del rendiconto
giudiziale”: cui non è consentito sottrarsi a nessun ente gestore di
mezzi di provenienza pubblica e a nessun agente contabile che abbia
comunque maneggio di danaro e di valori di proprietà dell’ente”. Nei
riguardi dei contabili degli stessi organi costituzionali dello Stato,
pur dotati “di uno specialissimo regime di autonomia”, dovrebbe dunque
affermarsi “l’obbligo della resa del conto delle loro gestioni ad un
giudice indipendente ed imparziale”, quale la Corte dei conti; senza di
che ne discenderebbe “un privilegio anacronistico”, tanto meno
giustificabile in quanto “afferente la posizione giuridica di soggetti
svolgenti attività meramente strumentali” (o facenti parte “di un
apparato burocratico di regime giuridico eguale a quello di ogni altro
apparato dell’Amministrazione dello Stato, previsto proprio per tenere
indenne il titolare della suprema carica dello Stato da incombenze di
gestione e dalle connesse responsabilità d’ordine amministrativo o
contabile”, come si verificherebbe nel caso del Segretariato generale
della Presidenza della Repubblica). Ed il sindacato sul comportamento
di tali soggetti non implicherebbe alcuna menomazione delle prerogative
spettanti alla Camera dei deputati, al Senato della Repubblica ed al
Capo dello Stato.
Depositati il 19 febbraio 1980, i predetti decreti sono stati
quindi inviati – con note del direttore della segreteria presso la
Procura generale della Corte dei conti, datate 21 marzo 1980 – alla
Presidenza della Repubblica, nonché alle Presidenze della Camera dei
deputati e del Senato della Repubblica, affinché si provvedesse “alla
notificazione giudiziale nei confronti del Tesoriere”.
2. – In relazione a tali atti, ha sollevato conflitto di
attribuzione il Presidente della Repubblica, con ricorso depositato il
18 luglio 1980 (al quale ha preso parte, “per quanto di ragione”,
sottoscrivendolo e “formulando le medesime richieste”, il Segretario
generale della Presidenza), perché venga “dichiarato il difetto di
potere della Corte dei conti ad esercitare la giurisdizione contabile
nei confronti del tesoriere della Presidenza della Repubblica”,
annullando il decreto 30 ottobre 1979-19 febbraio 1980 della Sezione I
giurisdizionale, la relativa istanza 2 novembre 1978 del Procuratore
generale, la nota 21 marzo 1980 della Procura generale della Corte,
nonché “ogni altro atto preordinato, connesso e conseguenziale”.
Posto che fra i poteri dello Stato rientrerebbero tanto la
Presidenza della Repubblica quanto la Corte dei conti, nell’esercizio
della funzione giurisdizionale, il ricorso argomenta l’ammissibilità
dell’azione anche “sotto il profilo oggettivo”: dal momento che la
Presidenza della Repubblica agirebbe “a salvaguardia della propria
autonomia costituzionale”, risultante da una serie di norme della
Costituzione (come quelle dettate negli artt. 87, 88, 90, 91, “nonché
dai principi consuetudinari relativi alla posizione degli organi
costituzionali, che partecipano della sovranità”.
Nel merito, il ricorso contesta che quella contabile sia una
giurisdizione “costituzionalmente riservata” alla Corte dei conti e sia
stata comunque definita dalla Costituzione, anziché formare oggetto –
come già rilevato da questa Corte – di “puntuali specificazioni
legislative”. Per contro, la Corte dei conti pretenderebbe di
assoggettare alla propria giurisdizione i tesorieri degli organi
costituzionali, in virtù di una diretta ed immediata applicazione
dell’art. 103 Cost.; per di più sostenendo la natura “meramente
amministrativa” dell’apparato della Presidenza della Repubblica e delle
relative attività. Ma, in realtà, il Segretariato di tale Presidenza
(con i suoi uffici e servizi) non potrebbe esser ridotto ad una di
quelle” Amministrazioni dello Stato”, cui si riferisce il testo unico
n. 1214 del 1934. Non a caso, né prima né dopo che entrasse in
vigore la Costituzione repubblicana, gli agenti degli organi dello
Stato non inquadrati nella pubblica amministrazione, quali gli organi
costituzionali (ivi compresa la Real Casa) non sarebbero mai stati
sottoposti al giudizio di conto. Lo vieterebbe il principio
costituzionale non scritto, “ma ricavabile e ricavato dal sistema”, che
garantisce l’autonomia e l’inviolabilità della Presidenza della
Repubblica; laddove la sottoposizione al giudizio di conto
implicherebbe la verifica di tutti gli atti della gestione che stanno a
monte delle poste contabili e ne condizionano la regolarità.
Con ciò stesso, però, il giudizio di conto comprometterebbe
quella riservatezza che rappresenta – si afferma – “un aspetto
assolutamente essenziale e imprescindibile” della funzione
presidenziale (ivi compreso l’organismo “ausiliario” costituito dal
Segretariato generale). Né gioverebbe richiamare gli assunti della
sentenza n. 114 del 1975, che riguarderebbe – in via di principio – la
sola gestione contabile degli enti locali, già tradizionalmente
sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, senza potersi
estendere agli organi sovrani, come questa Corte avrebbe più volte
precisato, in particolar modo nella sentenza n. 143 del 1968.
Conclusivamente, nel ricorso si accenna che analoghe considerazioni
varrebbero a risolvere il problema della cosiddetta autodichia degli
organi costituzionali: rispetto alla quale, tuttavia, il problema
dell’esenzione dal giudizio di conto si presenterebbe in termini del
tutto diversi, dal momento che nessuna norma costituzionale darebbe
fondamento alla pretesa della Corte dei conti.
3. – Con ricorso depositato il 18 luglio 1980 ha sollevato
conflitto anche il Presidente della Camera dei deputati, previa
deliberazione dell’Ufficio di presidenza, datata 19 giugno e quindi
adottata dall’intera Assemblea nella seduta del 2 luglio 1980:
chiedendo che questa Corte neghi alla Corte dei conti la spettanza del
“potere di giurisdizione contabile nei confronti della Camera dei
deputati” e di conseguenza annulli il decreto 19 febbraio 1980 della
Sezione I giurisdizionale e la nota 21 marzo 1980 della Procura
generale della Corte stessa.
Nel ricorso si assume che l’esercizio della giurisdizione contabile
cui la Corte dei conti avrebbe così dato inizio, configurerebbe
“un’ipotesi di lesione delle competenze e dell’autonomia
costituzionalmente garantite alla Camera dei deputati”. Posto che la
Camera disporrebbe della legittimazione attiva a sollevare conflitto di
attribuzione tra i poteri dello Stato, in quanto “organo costituzionale
all’interno del sistema bicamerale”, e che la Sezione I giurisdizionale
della Corte dei conti sarebbe passivamente legittimata, in quanto
“titolare in via esclusiva del potere di giurisdizione contabile”, il
ricorso argomenta che sussisterebbero anche i presupposti oggettivi
d’un conflitto. La Camera dei deputati sarebbe infatti sottoposta ad un
“ordine proveniente da un potere esterno”: ordine che ne violerebbe
l’indipendenza, garantita “dal sistema costituzionale” e, in
particolare, dagli artt. 55, 56, 63-69 e 72 della Costituzione.
In realtà, il secondo comma dell’art. 103 Cost., nell’affidare
alla Corte dei conti la competenza in materia di contabilità pubblica,
avrebbe avuto “come punto di riferimento la funzione della Corte stessa
quale organo di controllo sulla utilizzazione del pubblico danaro”, in
base al secondo comma dell’art. 100. La tesi che la giurisdizione
contabile si estenda ai tesorieri delle assemblee parlamentari
condurrebbe invece “all’assurda conseguenza che le Camere sarebbero
sottoposte al controllo del medesimo organo a mezzo del quale esse
esercitano il potere costituzionale di controllo del Governo e delle
pubbliche amministrazioni”. Non a caso, la stessa Corte dei conti
avrebbe finora pacificamente escluso dalla giurisdizione contabile –
come risulterebbe, per esempio, dalle relazioni sul rendiconto
generale dello Stato per il 1966 e per il 1967 – gli atti contabili
della Camera. Il giudizio di conto implicherebbe necessariamente,
infatti, un giudizio sulla gestione; ed un tale esercizio della
giurisdizione contabile potrebbe addirittura coinvolgere “decisioni che
le Camere ritengano invece di mantenere segrete”. Inoltre, poiché il
regolamento della Camera (con particolare riguardo agli artt. 12 e 66)
disciplinerebbe compiutamente l’erogazione della spesa, ne verrebbe
lesa l’autonomia regolamentare di tale Assemblea.
Del resto, anche dalla disciplina legislativa e regolamentare
vigente in materia di contabilità pubblica si ricaverebbe la
sottrazione degli organi costituzionali in genere, e della Camera dei
deputati in specie, alla giurisdizione contabile della Corte dei conti.
Il citato testo unico n. 1214 del 1934 concernerebbe la sola
“amministrazione governativa in senso tecnico”; mentre il regolamento
di procedura dettato dal r.d. 13 agosto 1933, n. 1038 (come pure il
testo unico n. 2440 del 1923 ed il r.d. n. 827 del 1924) sarebbe
coerentemente riferito ai soli “agenti comunque collegati ad organi del
potere esecutivo”.
Questa stessa Corte avrebbe più volte ribadito “che gli organi
costituzionali non sono in alcun modo sottoposti al controllo e alla
giurisdizione contabile”. In tal senso il ricorso richiama la
motivazione delle sentenze n. 143 del 1968 e n. 110 del 1970 (nonché
le decisioni n. 17 del 1965 e n. 33 del 1968).
Infine, il ricorso fa notare che “l’esistenza di un giudizio
esterno all’organo costituzionale implica la possibilità di ordini e
di sanzioni, non solo nei confronti dei tesorieri, ma anche degli
uffici della Camera dei deputati”. Oltre alla resa del conto, la Corte
dei conti potrebbe infatti condannare gli agenti contabili della Camera
ad una pena pecuniaria ed alla compilazione d’ufficio del conto
medesimo; potrebbe proporne la sospensione e la destituzione; potrebbe
ancora, in fase istruttoria, ordinare la produzione di atti ed accedere
agli uffici per acquisire ulteriori elementi di giudizio.
4. – Analogo conflitto è stato altresì sollevato dal Presidente
del Senato della Repubblica, previa deliberazione 17 giugno 1980 del
Consiglio di presidenza, adottata dall’intera Assemblea nella seduta
del 2 luglio 1980.
Il ricorso, depositato anch’esso il 18 luglio 1980, rinnova alla
Corte la richiesta di “dichiarare che non spetta alla Corte dei conti
(Sezione I giuridizionale per le materie di contabilità pubblica) il
potere di estendere la giurisdizione contabile al tesoriere del Senato
della Repubblica”, annullando di conseguenza il decreto 30 ottobre
1979-19 febbraio 1980 e ” per quanto possa occorrere” – la predetta
nota del 21 marzo 1980.
Sulla base di argomentazioni consimili a quelle svolte per il
Presidente della Camera, anche la difesa del Senato sostiene la
legittimazione attiva di tale Assemblea e la legittimazione passiva
della Corte dei conti: quest’ultima costituirebbe bensì “un complesso
organizzatorio strutturalmente unitario”; ma le attribuzioni assegnate
dalla legge alle varie sue componenti sarebbero tra loro “distinte e
differenziate”. D’altronde, sussisterebbe il requisito oggettivo del
conflitto, sia perché la Sezione I giurisdizionale della Corte dei
conti addurrebbe a fondamento della propria pretesa l’art. 103 Cost.,
sia perché il Senato rivendicherebbe invece la propria autonomia
contabile, “in forza di principi costituzionali da sempre osservati”,
recepiti e presupposti dagli artt. 55, 56 e 63-69 Cost., nonché
specificati dal regolamento dell’Assemblea in questione.
Nel merito, ferma restando la rigorosa esclusione di qualsiasi
controllo della Corte dei conti sulla erogazione delle spese previste
nel bilancio del Senato, il ricorso osserva che la stessa giurisdizione
contabile non sarebbe provvista di una incondizionata “capacità
espansiva”, ma incontrerebbe un limite nell’indipendenza degli organi
partecipi del potere sovrano. In tal senso andrebbe letta la citata
sentenza n. 114 del 1975, richiamata dall’impugnato decreto della
Sezione I giurisdizionale. Senza di che – si afferma – ne discenderebbe
“una sorta di sindacato sugli organi politici ordinatori delle spese”,
anche a tacere degli oneri connessi ad “adempimenti disposti da
Commissioni d’inchiesta e destinati a rimanere segreti” (o
dell’approvazione dello stesso bilancio preventivo in seduta segreta).
D’altra parte, i poteri di ingerenza nella gestione del bilancio
esplicabili dal magistrato contabile sarebbero ” praticamente
indeterminati” (già in forza dell’art. 28 del ricordato regolamento di
procedura del 1933). Sicché ne deriverebbe “una serie di obblighi di
facere in capo agli organi del Senato preposti alla gestione del
bilancio e al governo del personale”, che potrebbero addirittura
contrastare con “specifici poteri” spettanti al Senato medesimo ed
implicherebbero comunque “interferenze nei rapporti tra il Senato e i
suoi dipendenti”.
5. – Ai sensi dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953, “riservato
ogni definitivo giudizio sull’ammissibilità e sul merito dei ricorsi”,
questi sono stati dichiarati ammissibili con ordinanza n. 150 del 1980
(fatta eccezione per la “partecipazione dei Segretario generale della
Presidenza al giudizio promosso dal Presidente della Repubblica”).
Conseguentemente, la predetta ordinanza e i relativi ricorsi sono stati
tutti notificati alla Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti,
in data 19 novembre da parte del Presidente della Repubblica, in data 1
dicembre 1980 da parte dei Presidenti della Camera e del Senato.
Per altro, la Sezione I giurisdizionale non si è costituita nel
presente giudizio. Hanno invece depositato memorie le difese della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; mentre la difesa del
Presidente della Repubblica si è limitata ad addurre – “a fini di
documentazione” – le vigenti norme regolamentari, concernenti il
servizio di tesoreria (e i relativi controlli) presso il Segretariato
generale della Presidenza.
a) Riaffermata la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi
del conflitto, la memoria riguardante la Camera dei deputati insiste
nell’assunto che la giurisdizione contabile non potrebbe estendersi –
in base al tuttora vigente art. 44 del r.d. 1214 del 1934 – anche nei
confronti degli organi costituzionali. “La capacità espansiva e
sostanzialmente innovativa” dell’art. 103, secondo comma, della
Costituzione non implicherebbe – come avvertito da questa stessa Corte,
nella sentenza n. 102 del 1977 – né l'”assoluta … generalità”
ditale previsione, né la “sua immediata operatività in tutti i casi”.
Nemmeno il “legislatore futuro” potrebbe del resto “varcare il limite
costituito dall’autonomia-indipendenza della Camera dei deputati”. Tale
limite opererebbe, invece, “anche nei confronti della funzione
giurisdizionale”: con particolare riguardo all’ordinamento contabile
della Camera, nell’ambito del quale non si potrebbero comunque
distinguere la funzione ” gestionale” e la funzione di “maneggio”.
Sotto questo aspetto, gli assunti della Sezione I giurisdizionale
della Corte dei conti sarebbero errati, poiché “l’obbligo di
rendiconto vincolerebbe direttamente funzioni esercitate
congiuntamente non solo da funzionari ma anche da parlamentari”; mentre
il giudizio di conto si estenderebbe – corrispondentemente – “a
sindacare … le finalità giustificative delle spese”, coinvolgendo ad
un tempo il comportamento dei funzionari e quello dei parlamentari
stessi. Dal regolamento di amministrazione e contabilità della Camera
risulterebbe, infatti, che “tutto il procedimento, dal momento della
gestione … a quello dell’effettivo pagamento, si svolge con la
costante presenza, accanto ai funzionari, dei deputati Questori”. Ciò
starebbe a significare che “non soltanto la gestione dei fondi è nelle
mani dell’organo politico, ma che lo è anche la fase successiva del
maneggio del denaro e dei valori”: donde una serie di “inammissibili
interferenze funzionali”, che la pretesa della Corte dei conti verrebbe
a determinare nei confronti della Camera dei deputati.
b) A loro volta, le note illustrative per il Senato della
Repubblica, ricostruita la lunga vicenda delle pretese della Corte dei
conti nei riguardi degli organi costituzionali, premettono che la linea
di condotta della Sezione I giurisdizionale potrebbe non esser
condivisa dall’intera Corte.
In ogni caso, dal regolamento di amministrazione e contabilità del
Senato si ricaverebbero fin d’ora puntuali garanzie di correttezza
nella gestione del pubblico denaro: sia nei confronti del competente
istituto di credito, sia nei rapporti fra funzionari, senatori questori
e Presidente del Senato stesso. Per contro, “anche se formalmente
rivolte al contabile”, le disposizioni della Corte dei conti si
risolverebbero sempre – in realtà – “in obblighi imposti
all’Amministrazione da cui il contabile dipende”. “L’applicazione al
Senato dei principi che la Corte dei conti ha affermato …
implicherebbe perciò l’obbligo da parte del Senato stesso di
modificare sul punto il proprio regolamento di amministrazione e,
conseguentemente, la Convenzione con la Banca”, rinunciando – in
particolar modo – “al controllo giornaliero sull’esecuzione degli
ordinativi di riscossione e dei mandati di pagamento”. Più in
generale, ne deriverebbe necessariamente “una sorta di soggezione
dell’Assemblea, dei suoi organi politici e degli uffici amministrativi
da loro dipendenti ad un estraneo potere”: con la conseguente lesione
“della indipendenza e dell’autonomia organizzatoria costituzionalmente
garantita al Senato”.
1. – I ricorsi per conflitto di attribuzione, proposti dal
Presidente della Repubblica, dal Presidente della Camera dei deputati e
dal Presidente del Senato della Repubblica, nei confronti della Sezione
I giurisdizionale della Corte dei conti, riguardano i contemporanei ed
analoghi decreti, datati 30 ottobre 1979 e depositati il 19 febbraio
1980, con cui tale Sezione ha prescritto ai tesorieri della Presidenza
della Repubblica, della Camera e del Senato il termine di mesi sei per
la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969
al 1977. Pertanto i tre giudizi, già riuniti mediante l’ordinanza n.
150 del 1980, si prestano ad essere decisi con unica sentenza.
2. – Nella predetta ordinanza, “riservato ogni definitivo giudizio
sull’ammissibilità e sul merito dei ricorsi”, la Corte li ha
dichiarati ammissibili, in applicazione dell’art. 37, terzo comma,
della legge n. 87 del 1953. Le argomentazioni allora svolte vanno
confermate in questa fase del procedimento, tanto più che sul punto
non sono state sollevate eccezioni di sorta.
Sotto il profilo soggettivo, può dunque ripetersi che non è
dubbia la legittimazione a promuovere conflitti di attribuzione tra i
poteri dello Stato, spettante ai Presidenti delle Camere, sulla base di
conformi deliberazioni delle rispettive assemblee parlamentari; poiché
l’una e l’altra sono “competenti a dichiarare definitivamente la
volontà del potere cui appartengono” (come stabilito dall’art. 37,
primo comma, della legge n. 87 del 1953), con particolare riguardo ai
casi in cui si tratti di attribuzioni rivendicate in nome
dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascun ramo del Parlamento. Del
pari, legittimato è il Presidente della Repubblica, che ricorre
anch’esso per salvaguardare la propria autonomia, sostenendo che il
Segretariato generale della Presidenza svolgerebbe compiti serventi
rispetto alla “funzione presidenziale”, costituzionalmente garantita,
non già rispetto ad una “funzione amministrativa” genericamente
assunta. Né può contestarsi la legittimazione passiva della Sezione I
giurisdizionale della Corte dei conti: anche nell’ambito della
giurisdizione contabile, quello giurisdizionale è un potere “diffuso”
(cfr. la sentenza n. 231 del 1975), sicché ogni sua componente,
nell’esercizio di funzioni giurisdizionali delle quali si ritenga
titolare, può essere parte di conflitti.
Sotto il profilo oggettivo, è ben vero che la Sezione I
giurisdizionale della Corte dei conti – non costituitasi negli attuali
giudizi – non ha inteso determinare una situazione di conflitto,
ledendo l’indipendenza e l’autonomia dei ricorrenti, che anzi i decreti
impugnati affermano esplicitamente di voler lasciare integre; e lo
conferma la circostanza che i decreti stessi impongono la presentazione
dei conti ai tesorieri e non agli organi costituzionali di appartenenza
(sebbene la notificazione giudiziale sia stata effettuata per il
tramite delle rispettive Presidenze).
Tuttavia, ciò non toglie che i ricorrenti considerino invece
menomata, qualora la giurisdizione contabile si estenda ai loro
tesorieri (ed agli altri agenti del tipo indicato dall’art. 44 del r.d.
12 luglio 1934, n. 1214), una sfera di competenza costituzionalmente
tutelata. Tale prospettazione è sufficiente a dimostrare che “esiste
la materia di un conflitto” (in base all’art. 37, quarto comma, della
legge n. 87 del 1953), anche se nei casi in esame non si controverte
circa la spettanza di una stessa attribuzione, ma circa l’estensione
della giurisdizione propria della Corte dei conti, nel rapporto con
l’autonomia organizzativa e funzionale rivendicata dai tre organi
costituzionali che hanno sollevato conflitto.
È infatti consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, il
criterio per cui la figura dei conflitti di attribuzione, sia tra lo
Stato e le Regioni sia tra i poteri dello Stato, “non si restringe alla
sola ipotesi di contestazione circa l’appartenenza del medesimo potere,
che ciascuno dei soggetti contendenti rivendichi per sé, ma si estende
a comprendere ogni ipotesi in cui dall’illegittimo esercizio di un
potere altrui consegua la menomazione di una sfera di attribuzioni
costituzionalmente assegnate all’altro soggetto” (cfr. la sentenza n.
110 del 1970).
3. – Nel merito, i decreti impugnati si fondano sulla comune
premessa che l’art. 103, secondo comma, della Costituzione riservi ed
attribuisca senz’altro alla Corte dei conti la giurisdizione in
qualunque materia di contabilità pubblica: elevando a principio di
generalissima portata, riferibile anche ai tesorieri degli organi
costituzionali ricorrenti, la disposizione dell’art. 44 del r.d. n.
1214 del 1934, per cui la Corte dei conti giudica “sui conti dei
tesorieri, dei ricevitori, dei cassieri e degli agenti incaricati di
riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare danaro pubblico o
di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato”. A
sostegno della sua tesi, la Sezione I giurisdizionale richiama la
sentenza di questa Corte n. 114 del 1975, per desumerne – come già si
è ricordato in narrativa – che lo strumento del rendiconto giudiziale”
e l’apposito “giudizio sul conto” debbano trovare immediata
applicazione nei riguardi di tutti coloro che maneggino danaro o
custodiscano valori o materie, nell’ambito degli ordinamenti della
Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato
della Repubblica.
Senonché la giurisprudenza finora elaborata da questa Corte,
quanto alla giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di
contabilità pubblica, non conforta la tesi della Sezione I
giurisdizionale. In primo luogo, non è pertinente il richiamo della
sentenza n. 114 del 1975, poiché tale decisione ha risolto un problema
ben lontano da quello in esame, dichiarando l’illegittimità
costituzionale di una legge della Regione Trentino-Alto Adige, nella
parte in cui questa rendeva eventuali anziché necessari i giudizi sui
conti degli agenti contabili dei rispettivi enti locali, e facendo
valere in tal senso la specifica esigenza di non determinare “una
palese situazione di disparità di trattamento … rispetto agli agenti
contabili degli enti locali del restante territorio nazionale”; sicché
i citati assunti della motivazione non possono venire universalizzati,
estrapolandoli dal contesto della decisione stessa.
In secondo luogo, questa Corte ha più volte ritenuto – a partire
dalla sentenza n. 110 del 1970 – che “il principio dell’art. 103
conferisca capacità espansiva alla disciplina dettata dal testo unico
del 1934 per gli agenti contabili dello Stato, consentendone
l’estensione a situazioni non espressamente regolate in modo
specifico”. Ma in quella stessa pronuncia si avverte che l’espandersi
della giurisdizione costituzionalmente attribuita alla Corte dei conti,
lungi dall’essere incondizionato, deve considerarsi circoscritto
“laddove ricorra identità oggettiva di materia, e beninteso entro i
limiti segnati da altre norme e principi costituzionali”. Ed in questi
termini si è ancor più chiaramente espressa la sentenza n. 102 del
1977: nella quale la Corte – sia pure dichiarando inammissibili le
proposte questioni di legittimità costituzionale delle norme sulla
responsabilità civile degli amministratori e dipendenti degli enti
locali – ha in sostanza escluso che il precetto stabilito dal secondo
comma dell’art. 103 Cost. sia caratterizzato da una “assoluta (e non
tendenziale) generalità “e sia dunque dotato d’immediata operatività
in tutti i casi”.
In terzo luogo, determinante è la contrapposizione che la
ricordata sentenza n. 110 del 1970 ha operato, di fronte alla
giurisdizione contabile della Corte dei conti, fra le attribuzioni
delle assemblee regionali e quelle spettanti alle assemblee
parlamentari. Nell’argomentare che le prime si svolgono “a livello di
autonomia”, mentre le seconde sono collocate “a livello di sovranità”,
la Corte ne ha infatti ricavato che “deroghe alla giurisdizione …
sono ammissibili soltanto nei confronti di organi immediatamente
partecipi del potere sovrano dello Stato, e perciò situati al vertice
dell’ordinamento, in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca
parità”. Pur precisando che deroghe del genere sono “sempre di stretta
interpretazione”, tale sentenza respinge pertanto – in un modo
inequivoco – la meccanica assimilazione fra i tesorieri dei Consigli
regionali e quelli degli organi costituzionali; e fa trasparire, almeno
per quanto riguarda le Camere del Parlamento, l’opposta convinzione che
i loro agenti contabili rimangano esenti dall’apposito giudizio di
conto, in nome delle “prerogative riservate agli organi supremi dello
Stato”.
4. – Questo orientamento va ora tenuto fermo, nel risolvere i casi
in esame.
A tale fine, dev’essere anzitutto analizzato l’intero complesso
delle fonti normative e delle norme Vigenti in materia. Al riguardo i
decreti impugnati presuppongono, infatti, che nessun ostacolo si
frapponga all’esercizio della giurisdizione contabile nei confronti dei
tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati
e del Senato della Repubblica: salvo un “privilegio anacronistico”, che
soltanto di fatto li svincolerebbe dall’obbligo di rendere il conto
delle loro gestioni, senza alcun fondamento suscettibile di
giustificare la conseguente disapplicazione degli artt. 103 Cost. e 44
del r.d. n. 1214 del 1934. Ma i termini della questione non sono così
semplici.
Occorre considerare, al contrario, che la disciplina dettata dalle
norme costituzionali scritte, quanto al regime organizzativo e
funzionale degli apparati serventi gli organi costituzionali, non è
affatto compiuta e dettagliata. Ad integrazione di esse ed in
corrispondenza alle peculiari posizioni degli organi medesimi, si sono
dunque affermati principi non scritti, manifestatisi e consolidatisi
attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o
comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe):
vale a dire, nella forma di vere e proprie consuetudini costituzionali.
Tale, in particolar modo, è stato ed è il caso dei rapporti fra gli
organi costituzionali in esame e la Corte dei conti quale giudice
sull’attività gestoria degli agenti contabili dell’amministrazione
dello Stato. Effettivamente, sotto il vigore dello Statuto albertino,
per quanto risulta a questa Corte, non si è mai dubitato che i
tesorieri della Real Casa e delle due Camere del Parlamento fossero
esentati dalla giurisdizione contabile. Né quell'”antica prassi”, alla
quale accennano esplicitamente i decreti concernenti i tesorieri della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, è stata interrotta
dall’instaurazione dell’ordinamento repubblicano: sia perché i
soggetti che diversamente avrebbero dovuto presentare il conto non
hanno ritenuto di essere obbligati a siffatti adempimenti; sia perché
la Corte dei conti – con la sola eccezione d’una serie di note del 15
gennaio 1968, che per altro non hanno avuto alcun seguito – non ha
rivolto loro alcuna intimazione, riconoscendo in sostanza di non poter
esercitare in questo campo la sua giurisdizione.
D’altronde, non sarebbe fondato sostenere che si tratti di una
prassi irrilevante dal punto di vista del diritto costituzionale.
L’esenzione dei loro agenti contabili dai giudizi di conto rappresenta,
viceversa, il diretto riflesso della spiccata autonomia di cui tuttora
dispongono i tre organi costituzionali ricorrenti. Tale autonomia si
esprime anzitutto sul piano normativo, nel senso che agli organi in
questione compete la produzione di apposite norme giuridiche,
disciplinanti l’assetto ed il funzionamento dei loro apparati serventi;
ma non si esaurisce nella normazione, bensì comprende – coerentemente
– il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte
riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne
l’osservanza. Rispetto alla materia del presente conflitto, ciò
significa da un lato che spetta alle Camere del Parlamento ed alla
Presidenza della Repubblica dettare autonomamente le disposizioni
regolamentari che ognuno di tali organi ritenga più opportune per
garantire una corretta gestione delle somme affidate ai rispettivi
tesorieri; e comporta d’altro lato che rientri nell’esclusiva
disponibilità di detti organi, senza di che la loro autonomia verrebbe
dimezzata, l’attivazione dei corrispondenti rimedi, amministrativi od
anche giurisdizionali.
Relativamente alle assemblee parlamentari, è dunque in tal senso
che va inteso il primo comma dell’art. 64 Cost., per cui “ciascuna
Camera adotta il proprio regolamento”; ed è questa la chiave del
problema in esame, indipendentemente dai molti altri articoli della
Costituzione, su cui fanno leva i ricorsi della Camera dei deputati e
del Senato della Repubblica. Ma la conclusione non può essere diversa
nei riguardi della Presidenza della Repubblica, malgrado per essa non
sussista alcuna previsione costituzionale analoga a quella concernente
i regolamenti parlamentari. Al di là del testo dell’ultimo comma
dell’art. 83 Cost., che si limita a rinviare alla legge la
determinazione dell'”assegno” e della “dotazione” spettanti ai
Presidente della Repubblica, è infatti indiscusso in dottrina che
anche quest’organo abbisogni di un proprio apparato, non solo e non
tanto per amministrare i beni rientranti nella “dotazione” stessa,
quanto per consentire un efficiente esercizio delle funzioni
presidenziali, garantendo in tal modo la non-dipendenza del Presidente
rispetto ad altri poteri dello Stato; sicché il Segretariato generale
della Presidenza della Repubblica non può essere riduttivamente
configurato – come invece si legge nel relativo decreto della Sezione I
giurisdizionale della Corte dei conti – quale “apparato burocratico di
regime giuridico eguale a quello di ogni altro apparato
dell’amministrazione dello Stato”. Non a caso, il secondo comma
dell’art. 3 della legge 9 agosto 1948, n. 1077, dispone che “il
Segretario generale della Presidenza della Repubblica è nominato e
revocato con decreto del Presidente della Repubblica”, sia pur
“controfirmato dal Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il
Consiglio dei ministri”; ed è il Presidente della Repubblica che
approva – in virtù del terzo comma del citato articolo – il cosiddetto
“regolamento interno” ed i “provvedimenti relativi al personale”, sia
pure su proposta del Segretario generale. Per quanto non siano
completamente assimilabili ai regolamenti delle Camere, anche i
regolamenti approvati a questa stregua dal Presidente della Repubblica
debbono considerarsi sorretti da un implicito fondamento costituzionale
(in vista del quale la legge n. 1077 del 1948 assume sul punto – come
è stato chiarito già nel corso dei lavori preparatori di essa – un
carattere ricognitivo piuttosto che attributivo); tanto più che fonti
del genere, se così non fosse, non potrebbero legittimamente inserirsi
nell’attuale sistema degli atti normativi dello Stato.
Da tutto questo consegue che il problema dei rapporti fra il
giudice contabile, la Presidenza della Repubblica e le Camere del
Parlamento non può essere risolto limitandosi a notare che la Carta
costituzionale non introduce in proposito alcuna esplicita deroga,
rispetto a quella norma di generalissima portata che si vorrebbe
desumere dal secondo comma dell’art. 103 Cost. Vero è, viceversa, che
l’esenzione dai giudizi di conto s’inserisce in un regime
fondamentalmente comune a tutti gli organi costituzionali ricorrenti,
rinsaldato da una lunga tradizione e radicato nell’autonomia spettante
agli organi stessi.
5. – I tre ricorsi vanno pertanto accolti.
In via di principio, la giurisdizione sui conti giudiziali è retta
da un impulso d’ufficio, determinante processi di tipo inquisitorio,
che prescindono dalle istanze delle amministrazioni; ed anzi presenta –
allo stato attuale dell’ordinamento – un carattere necessario e
continuo, risolvendosi inevitabilmente in tanti giudizi quanti sono i
conti che periodicamente si susseguono. Pur investendo le sole gestioni
degli agenti contabili (dalle quali debbono restar distinte – a questi
specifici effetti – le gestioni degli ordinatori della spesa), i
predetti giudizi di conto non sono pertanto compatibili con le autonome
valutazioni, costituzionalmente spettanti alla Presidenza della
Repubblica, alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica.
Ma da ciò non discende per nulla, circa gli agenti contabili degli
organi in questione, che non venga assicurata una corretta gestione del
danaro pubblico, nonché degli altri valori e materie di proprietà
dello Stato. Nell’ambito degli apparati della Presidenza della
Repubblica e delle assemblee parlamentari, puntuali garanzie sono
offerte fin d’ora dalle rispettive norme regolamentari (si vedano, in
particolar modo, gli articoli 27, 28 e 65 del regolamento di
contabilità per i servizi del Segretariato generale della Presidenza
della Repubblica, approvato con decreto presidenziale 11 settembre
1980, n. 42; gli artt. 9, 25 lett. g), 26, 27, 28, 32, 37 e 39 del
regolamento di amministrazione e contabilità del Senato della
Repubblica, adottato il 23 ottobre 1940; gli artt. 9, 32, 33, 35 e 38
del corrispondente regolamento di amministrazione e contabilità della
Camera dei deputati).
Né si può dire che l’esonero dai giudizi di conto necessari valga
ad escludere i rapporti in esame dalla giurisdizione in genere. Anche a
non voler considerare la giurisdizione penale, che nei riguardi dei
tesorieri degli organi costituzionali ricorrenti non soffre eccezioni
di sorta, residuano pur sempre le azioni esercitabili dagli stessi
interessati. Ma non compete alla Corte precisare in questa sede quali
siano i procedimenti, utilizzabili ad iniziativa di parte, che meglio
si armonizzino con le posizioni peculiari della Presidenza della
Repubblica e delle assemblee parlamentart.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spetta alla Sezione I giurisdizionale della Corte
dei conti il potere di sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della
Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato
della Repubblica; e, di conseguenza, annulla i decreti emessi il 30
ottobre 1979, con cui la Sezione I giurisdizionale ha prescritto ai
tesorieri stessi il termine di mesi sei per la presentazione dei conti
relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977, nonché le
corrispondenti note 21 marzo 1980 del direttore della segreteria presso
la Procura generale della Corte dei conti.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1981.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
MICHELE ROSSANO – ANTONINO DE STEFANO
– LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO ROEHRSSEN
– ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO
PALADIN – ARNALDO MACCARONE – ANTONIO
LA PERGOLA – GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere