Sentenza N. 134 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
22/06/1971
Data deposito/pubblicazione
22/06/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
settimo comma, e 11, primo e secondo comma, del testo unico delle
disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali approvato con d.P.R. 30 giugno 1965,
n. 1124, promosso con ordinanza emessa il 18 dicembre 1968 dal
tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Casile Domenico,
la società Industria Grafica (SAIG) e l’INAIL, iscritta al n. 340 del
registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 256 dell’8 ottobre 1969.
Visti gli atti di costituzione di Casile Domenico, della SAIG e
dell’INAIL e l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 marzo 1971 il Giudice relatore
Costantino Mortati;
uditi l’avv. Luciano Ventura, per il Casile, l’avv. Carlo Fornario,
per la SAIG, l’avv. Massimo Ungaro, per l’INAIL, ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Nel corso della causa civile promossa da Casile Domenico, operaio
tipografo, contro il suo datore di lavoro, soc. SAIG, per ottenere il
risarcimento dei danni conseguenti alla malattia professionale
derivatagli per inosservanze colpose di norme previdenziali, valutabili
a questo fine come illecito penale nonostante l’intervenuta amnistia, e
nella quale è volontariamente intervenuto l’INAIL per ottenere la
distrazione a proprio favore di una somma pari a quanto erogato a
vantaggio dell’assistito, il tribunale di Roma ha sollevato – con
ordinanza in data 18 dicembre 1968 – questione di legittimità
costituzionale delle norme che prevedono il diritto di regresso
dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro civilmente responsabile,
le quali venivano in applicazione ai fini della decisione da adottare
sulla domanda dell’interveniente.
Precisamente il tribunale si è chiesto se siano incostituzionali,
per violazione degli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione: a) l’art. 10,
sesto e settimo comma, del testo unico approvato con decreto
presidenziale 30 giugno 1965, n. 1124, per il quale non si fa luogo a
risarcimento per gli infortuni sul lavoro (né, in virtù del rinvio di
cui all’art. 131, per le malattie professionali) quando il giudice
riconosca che esso non ascende a somma maggiore dell’indennità
liquidata dall’Istituto assicuratore e che, ove si faccia luogo a
risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede tale
indennità; b) l’art. 11, primo e secondo comma, del testo unico
stesso, nella parte in cui prevede il diritto di regresso dell’Istituto
assicuratore anche nei confronti del datore di lavoro per le somme
pagate a titolo d’indennità e per le spese accessorie e stabilisce che
la sentenza che accerta la responsabilità civile è sufficiente a
costituire l’Istituto assicuratore in credito verso la persona
civilmente responsabile.
Tale questione è apparsa al tribunale non manifestamente infondata
in considerazione del fatto che la disciplina legislativa in esame,
originariamente giustificata dal carattere “transattivo” che essa
presentava tra le opposte esigenze dei datori di lavoro e dei
lavoratori, avrebbe successivamente mutato la sua ragion d’essere in
virtù del riconoscimento, compiuto dall’art. 38 della Costituzione,
dell’interesse pubblico alla previdenza ed all’assistenza sociale.
Mentre infatti la legislazione anteriore alla Costituzione regolava
il rapporto assicurativo come un rapporto unico a carattere triangolare
che collegava inscindibilmente datore di lavoro, prestatore d’opera e
l’INAIL, con reciproche agevolazioni ed oneri, essa sarebbe stata
radicalmente modificata per effetto dei sopravvenuti principi della
Costituzione del 1948, con conseguente scissione del rapporto
assicurativo, che lega il lavoratore agli istituti cui spetta adempiere
alla funzione previdenziale per quanto concerne gli infortuni sul
lavoro, dal rapporto di responsabilità, che eventualmente vincoli al
lavoratore il datore di lavoro o il terzo responsabile per colpa
dell’infortunio.
Attualmente, perciò, le prestazioni assicurative spetterebbero al
lavoratore in virtù di un suo diritto autonomo, completamente
indipendente dal sistema prescelto dal legislatore per finanziare gli
istituti assicuratori. Tale eliminazione della base transattiva a
struttura triangolare del rapporto assicurativo ha trovato una
riaffermazione nella sentenza n. 22 del 1967 della Corte costituzionale
che, esaminando la questione di costituzionalità dell’art. 4 del regio
decreto n. 1765 del 1935, ha esteso la responsabilità del datore di
lavoro anche al caso di accertata colpevolezza del commesso (e non solo
del preposto) ed ha altresì riconosciuto al giudice civile il potere
di accertare incidentalmente la sussistenza del reato, anche se estinto
per prescrizione, con la conseguenza di un radicale mutamento
dell’equilibrio economico su cui poggiava il rapporto assicurativo.
Da tali considerazioni deriva che, pur dovendosi ammettere, sulla
base dell’art. 1916, quarto comma, del codice civile, il diritto
dell’INAIL di surrogazione, fino alla concorrenza di quanto esposto,
verso i terzi responsabili, sembra invece inficiata di
incostituzionalità la disposizione che gli accorda altresì il diritto
di regresso nei confronti del datore di lavoro, il quale è parte del
rapporto assicurativo, dato che paga i relativi contributi, e non
terzo, come invece va ritenuto il lavoratore, ormai estraneo al
rapporto assicurativo dal momento che trae il diritto all’assistenza
direttamente dall’art. 38 della Costituzione.
La disciplina vigente, infine, appare al tribunale di dubbia
costituzionalità sotto il profilo della violazione dell’art. 3, primo
comma, da due distinti punti di vista: a) in primo luogo, in quanto
stabilisce, rispetto all’ipotesi dell’assicurazione per gli infortuni
sul lavoro, un trattamento più oneroso per il privato assicurato di
quello stabilito in via generale dall’art. 1916, codice civile; b) in
secondo luogo, in quanto stabilisce una differenza di trattamento fra
il lavoratore infortunato ed il comune danneggiato il quale vede
ridotto il proprio risarcimento di quanto abbia percepito dall’istituto
solo in quanto questi effettivamente eserciti il diritto di
surrogazione con la prescritta formale domanda rivolta nei confronti
del terzo responsabile, mentre il lavoratore vede ridotto ope legis il
proprio risarcimento. Analogo ragionamento vale altresì per la norma
che stabilisce la compensazione dell’indennità corrisposta dall’INAIL
con il risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro in
conseguenza della responsabilità penale sua o del commesso.
Si sono costituite avanti la Corte le parti del processo a quo ed
è intervenuto in causa il Presidente del Consiglio dei ministri.
L’attore Casile ha presentato una comparsa nella quale si limita a
concludere per l’accoglimento della questione così come proposta dal
tribunale di Roma.
La convenuta SAIG chiede anch’essa che la questione sia accolta
nella parte relativa all’art. 11, primo e secondo comma, e deduce
invece l’infondatezza di essa nella parte relativa all’art. 10, sesto
e settimo comma, del decreto presidenziale n. 1124 del 1965.
L’illegittimità dell’art. 11, primo e secondo comma, deriverebbe dalla
disparità di trattamento che tale norma determina rispetto all’art.
1916, codice civile, nello stabilire la surrogazione per il danno
causato da fatto illecito, non già nei confronti del terzo
responsabile, ma nei confronti dell’assicurato. Sarebbe altresì
irragionevole sottoporre il datore di lavoro, a differenza del comune
assicurato, alla restituzione di quanto corrisposto dall’assicuratore
dopo che egli ha già pagato i contributi.
L’INAIL deduce l’infondatezza dell’intera questione osservando che
la Costituzione non ha affatto innovato il preesistente sistema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, per cui risulta fuori luogo il
richiamo all’art. 38 della Costituzione. Né vi è disparità di
trattamento, ai fini della responsabilità per danni, del datore di
lavoro rispetto agli altri soggetti, giacché egli è coperto
dall’assicurazione obbligatoria nei casi cui essa si riferisce, mentre
in quelli da essa esclusi (di colpa penale sua, o del commesso) deve
rimborsare le indennità corrisposte e integrare se del caso il
risarcimento al danneggiato.
Né ricorre una sperequazione nel fatto che il comune assicurato,
danneggiato dal fatto altrui, possa eventualmente avvantaggiarsi
dell’inerzia o della benevolenza dell’assicuratore che trascuri di
esercitare il diritto di surroga, non sembrando iniquo che il
legislatore attribuisca all’assicurante e non all’infortunato il
vantaggio di questa ipotetica liberalità, essendo il primo a
sopportare per legge l’onere finanziario dell’assicurazione.
Al contrario, un indebito arricchimento deriverebbe al lavoratore
dall’accoglimento del punto di vista del tribunale giacché egli
beneficerebbe, oltre che dell’indennizzo assicurativo (procuratogli dal
datore di lavoro attraverso il pagamento dei premi di assicurazione),
anche dell’integrale risarcimento (pagato anch’esso dal datore di
lavoro).
Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha concluso per
l’infondatezza della questione muovendo dall’osservazione che il
rapporto intercorrente fra lavoratore, datore di lavoro ed INAIL in
ordine all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro
non è generalmente configurato come un’assicurazione contro la
responsabilità civile del datore di lavoro, ma come un mezzo di tutela
del lavoratore che può agire jure proprio nei confronti dell’Istituto
assicuratore per il conseguimento delle prestazioni, indipendentemente
dal fatto che il datore di lavoro risulti sollevato da responsabilità
che eventualmente ricadano su di lui.
La limitazione della responsabilità civile del datore di lavoro è
giustificata dalla difficoltà di determinarla in alcune ipotesi di
infortunio che si vuole siano comunque coperte dall’assicurazione
(donde la qualifica del sistema come “transattivo”) ma non esclude la
responsabilità per colpa penale onde evitare che essa si risolva in un
disincentivo rispetto all’attuazione delle misure di prevenzione
antinfortunistiche.
La sussistenza della responsabilità in tali ipotesi non significa
però che l’imprenditore venga a rispondere due volte dei danni causati
dalla sua colpa, una prima volta in sede di pagamento dei contributi
assicurativi ed una seconda volta in sede di rimborso dell’indennità
pagata dall’istituto. In realtà i premi dovuti dall’imprenditore
debbono corrispondere all’effettivo onere finanziario dell’istituto ed
è ovvio che in tale onere non rientrino le somme che esso riesce a
recuperare dai datori di lavoro nei casi di esclusione del c.d. esonero
dalla responsabilità civile: in questi casi l’assicurazione è volta
esclusivamente a garantire il lavoratore dai rischi di insolvibilità
del datore di lavoro, di difficoltà di accertamento, di eccessiva
lunghezza dei procedimenti giudiziari e simili; ma il premio dovuto
dall’assicurante sarà comunque commisurato all’effettivo onere
finanziario che deriva all’istituto dall’assunzione del rischio.
La tesi dell’incompatibilità di questo sistema con la Costituzione
repubblicana è stata respinta dalla Corte nella sentenza n. 22 del
1967 che ha colpito soltanto gli “spigoli più aguzzi” della normativa
vigente, confermandone invece le linee fondamentali. Nello stesso
ordine di idee è da contestare la fondatezza anche dell’attuale
questione, non potendosi ammettere che l’art. 38 della Costituzione
abbia conferito al lavoratore un nuovo ed autonomo diritto alle
prestazioni assicurative in caso di infortunio, più ampio o diverso da
quello che già gli apparteneva. L’art. 38 ha lasciato al legislatore
piena libertà di determinare i modi in cui rendere operante tale
diritto ed in questa libertà è compresa anche la facoltà di
conservare il sistema preesistente.
Ancor più evidente poi, secondo l’Avvocatura dello Stato, è
l’infondatezza della violazione degli artt. 3 e 35 della Costituzione,
per escludere la quale è sufficiente il richiamo alla citata sentenza
n. 22. Né sussiste differenza di trattamento tra le norme
previdenziali e le norme del codice civile, entrambe costituendo
attuazione di identici principi generali.
Le posizioni dell’attore Casile e dell’INAIL sono state
ulteriormente illustrate nelle rispettive memorie depositate il 25
febbraio 1971. Il primo, concentrando le sue censure sul penultimo
comma dell’art. 10 della legge, che limita l’obbligo di risarcimento
del datore di lavoro responsabile, deduce che tale norma contrasta col
principio relativo al diritto del danneggiato di conseguire l’integrale
risarcimento dal responsabile; e con quello in base al quale non può
esservi “compensatio lucri cum pretio” quando il lucro deriva da causa
creditoria diversa da quella che ha determinato il danno.
La difesa del Casile afferma che l’INAIL attualmente provvede alle
prestazioni assicurative utilizzando i beni che gli sono forniti,
materialmente dagli industriali, ma per un obbligo legale stabilito
dallo Stato, e quindi attraverso un meccanismo parafiscale il cui onere
grava in definitiva su tutta la collettività e non soltanto sugli
industriali stessi. Di conseguenza la previsione del regresso risulta
incompatibile con la struttura del servizio che ha carattere
pubblicistico e rilievo costituzionale.
L’INAIL richiama invece il principio per cui un fatto dannoso, le
cui conseguenze debbano, per legge o per contratto, essere indennizzate
da un responsabile o da un assicuratore, non può mai costituire fonte
di lucro per l’avente diritto all’indennizzo, e fa presente come
l’assetto dato dal legislatore all’assicurazione infortuni comporti di
necessità l’adozione di regole come quelle impugnate. Sarebbe infatti
proprio l’accoglimento del punto di vista avversario che determinerebbe
una iniqua ed incostituzionale disparità di trattamento a carico del
datore di lavoro imponendogli di far ottenere all’infortunato tanto le
prestazioni assicurative quanto l’integrale risarcimento del danno
civilistico.
Abolire il diritto di regresso dell’INAIL significherebbe inoltre
istituire una speciale assicurazione contro la responsabilità civile
degli imprenditori per quella parte del risarcimento, da essi in
ipotesi dovuto, che corrisponde all’importo delle prestazioni percepite
per legge dal danneggiato; ma una tale garanzia, pur astrattamente
configurabile, non può essere istituita attraverso una pronuncia di
incostituzionalità delle norme impugnate e non senza che venga
predisposta la copertura degli oneri aggiuntivi che essa implicherebbe.
Richiamate ed illustrate con ulteriori argomentazioni le precedenti
difese, l’INAIL conclude invocando la sentenza n. 22 del 1967 di questa
Corte, laddove essa ebbe ad affermare che nessuna illegittimità
costituzionale o ingiusta sperequazione può ravvisarsi – a parte
quelle specificamente indicate ed eliminate con la pronuncia stessa –
nel complessivo “sistema previdenziale assicurativo in materia di
infortuni sul lavoro, del quale l’art. 4 è parte integrante” e secondo
il quale “nessuna eccezione più si oppone all’impero del diritto
comune allorché l’infortunio risulti dovuto a colpa grave del datore,
penalmente sanzionata”, e quindi comportante per lui l’obbligo
dell’integrale risarcimento del danno.
1. – La questione sollevata dal tribunale di Roma in ordine
all’art. 10, sesto e settimo comma, del testo unico approvato con
d.P.R. n. 1124 del 1965 (secondo cui dall’importo della somma spettante
al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento va detratta
l’indennità percepita dall’istituto assicuratore), nonché al
successivo art. 11, primo e secondo comma (che consente all’istituto
assicuratore di esperire l’azione di regresso nei confronti del datore
di lavoro civilmente responsabile) nella considerazione che essi
violino gli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione, deve ritenersi
infondata.
2. – Per la migliore valutazione delle censure formulate
nell’ordinanza si rende opportuno, anche in presenza delle differenti
interpretazioni datene dalle parti, ricordare che la sentenza della
Corte n. 22 del 1967, nel respingere l’eccezione di incostituzionalità
sollevata nei confronti dell’art. 4, r.d. n. 1765 del 1935
(corrispondente all’art. 10 del citato testo unico del 1965), ebbe ad
osservare come il sistema introdotto con la legge infortunistica non
ingiustificatamente sia ispirato a criteri non in tutto uniformi a
quelli del diritto comune: infatti ha riguardo alle speciali condizioni
nelle quali si svolge l’attività del lavoratore, e quindi non viola
sotto quest’aspetto l’art. 3; mentre d’altra parte non è neppure in
contrasto con l’art. 38 poiché questo, limitandosi a porre solo
principi generali relativi ad ogni specie di prestazioni previdenziali,
non esclude che la legge ne disciplini variamente le attuazioni, allo
scopo di meglio adeguarle alle particolarità delle singole specie in
cui le prestazioni medesime si ripartiscono, curando la predisposizione
dei correlativi mezzi finanziari. È riservato poi alla
discrezionalità del legislatore provvedere all’eventuale diversa
strutturazione del sistema che riesca meglio favorevole al lavoratore,
adeguando ad essa le modalità del finanziamento.
Da quanto allora statuito si traggono elementi sufficienti per
respingere la tesi enunciata nell’ordinanza secondo cui, in virtù
dell’art. 38 della Costituzione, il rapporto assicurativo avrebbe
perduto il carattere triangolare collegante fra loro i soggetti i quali
entrano a costituirlo, e si sarebbe invece sdoppiato, eliminando per il
lavoratore la qualità di parte del rapporto medesimo e facendolo
divenire titolare di un diritto autonomo derivabile dall’articolo
predetto. Si deve invece riaffermare che, nei comuni casi di
infortunio, non viola la Costituzione il principio mutualistico cui si
informa il sistema, che, mentre garantisce al lavoratore un indennizzo
per ogni specie di infortunio, senza riguardo al fattore causale,
sottrae poi il datore all’azione di danno da parte dell’infortunato.
3. – L’anzidetta regola subisce un’eccezione, ai sensi dell’art.
10, secondo comma, allorché, come nella specie, l’evento dannoso
risalga a colpa del datore, penalmente sanzionabile, riprendendo allora
vigore la norma di diritto comune in materia di responsabilità civile,
sia pure con quelle differenziazioni poste, come si vedrà, a tutela
del lavoratore leso da tale comportamento colposo.
La disciplina di legge dettata per siffatte ipotesi viene
denunciata sotto i due punti di vista che si sono prima ricordati, in
quanto, per una parte, ritenuta dannosa al lavoratore e, per l’altra,
ingiusta nei riguardi del datore. Converrà iniziare l’esame da
quest’ultima censura che l’ordinanza considera preminente, se non
pregiudiziale, nel presupposto che, una volta dichiarata
l’incostituzionalità dell’azione di regresso prevista dall’art. 11
contro il datore, verrebbe meno l’ostacolo alla pretesa del lavoratore
di ricevere l’intero risarcimento, senza riguardo all’indennità posta
a carico dell’INAIL e da questo erogata.
Si assume che l’ammissione, contro il datore di lavoro in colpa,
dell’azione di regresso da parte dell’Istituto assicuratore determini
una violazione dell’art. 3 della Costituzione, operando a suo danno una
sostanziale ingiustizia e ponendolo in condizione deteriore rispetto a
chi abbia dato vita ad un rapporto assicurativo con un istituto
privato; ciò per il fatto che in quest’ultimo caso all’istituto che ha
pagato l’indennità è consentito di surrogarsi nei diritti
dell’assicurato (fino alla concorrenza dell’indennità) solamente verso
i terzi responsabili del danno, secondo dispone l’art. 1916 del codice
civile, mentre nel caso in esame l’art. 11 consente l’azione anche
contro il datore di lavoro, che non riveste figura di terzo.
È da osservare come il riferito ragionamento del tribunale trovi
una smentita in quella parte della stessa ordinanza in cui si sostiene
che i contributi pagati dal datore obbligatoriamente assicurato coprono
solo i rischi addebitabili a colpa presunta e sono ad essi commisurati.
Appare infatti evidente che, una volta inteso in tal modo il rapporto
assicurativo, se ne dovrebbe dedurre che ogni specie di rischio non
riconducibile al fortuito, o a presunzione di colpa, perché derivato
dall’accertato fatto illecito penalmente punibile del datore di lavoro,
dovrebbe essere considerato estraneo al rapporto medesimo e configurato
in modo non diverso da quello addebitabile all’opera di un terzo, con
conseguente assoggettamento ad analoga disciplina (differenziata
tuttavia per la diversità della natura dell’azione ex art. 11, che
riveste carattere di regresso, rivolta a reintegrare l’Istituto di
quanto erogato per conto e in vece del datore, rispetto all’altra di
surrogazione ex articolo 1916: diversità che assume anche riflessi
pratici sui quali non è qui da indugiare).
È appunto nella rilevata peculiarità dell’assicurazione
obbligatoria in forma mutualistica per danni in occasione della
prestazione di attività lavorativa che deve rinvenirsi la ragione
della non applicabilità alla medesima dei principi stabiliti per i
rapporti assicurativi regolati dal diritto comune (principi secondo i
quali l’assicuratore rimane vincolato – per i sinistri cagionati anche
da colpa grave del contraente – in virtù o di patto espresso, a
termine dell’art. 1900, o ope legis, secondo l’art. 1917 che riguarda
la speciale assicurazione per responsabilità civile; con la sola
esclusione pertanto di quella dovuta a fatto doloso volontariamente
messo in atto dall’assicurato).
Il che, mentre corrisponde alla rilevata specificità del rapporto
assicurativo per gli infortuni sul lavoro, adempie anche allo scopo
pratico di incentivare l’adempimento dell’obbligo del datore di
adottare ogni misura idonea a prevenire i sinistri.
Non occorre, a questo punto, indugiare nella critica
dell’osservazione dell’ordinanza circa l’ingiustizia che si fa derivare
dal duplice obbligo che l’art. 11 imporrebbe al datore, da una Parte di
risarcire il danneggiato e dall’altra di rimborsare l’INAIL di quanto
da esso erogato, poiché in realtà l’obbligo è uno solo: quello
dell’integrale risarcimento a favore della vittima della di lui colpa,
mentre la bipartizione fra due destinatari è conseguenza del favor
voluto accordare al lavoratore con l’addossare in ogni caso
all’istituto le prestazioni previdenziali, le quali assumono perciò
carattere di anticipazione rispetto all’assolvimento dell’obbligo a
carico del responsabile. Obbligo il cui adempimento non trova
corrispondenza nei contributi, dato che la naturale destinazione di
questi è solo di costituire la contropartita delle erogazioni a carico
dell’INAIL per ogni altra specie di rischio inerente all’attività
imprenditoriale dell’assicurato, per il quale non ricorra il suo
comportamento colpevole.
4. – Del pari prive di fondamento devono ritenersi le deduzioni
rivolte contro quelle disposizioni dell’art. 10 che limitano l’obbligo
del risarcimento a carico del datore di lavoro solo alla parte del
danno non coperta dall’indennità erogata dall’INAIL, e Pertanto
escludono la possibilità del cumulo fra le due specie di erogazioni a
favore del lavoratore. Si sostiene che tali norme violino i principi
generali secondo i quali vi sarebbe, da una parte, diritto ad ottenere
dal responsabile l’integrale risarcimento, e dall’altra il divieto
della compensatio lucri cum damno, quando, come si afferma accadere
nella specie, il lucro derivi da causa creditoria diversa da quella che
ha determinato il danno. È facile opporre che è regola generale
consacrata nell’art. 2043 del codice civile, che il risarcimento da
fatto illecito deve essere corrispondente al danno effettivamente
subito, da effettuarsi secondo le valutazioni stabilite nell’art. 1223,
che le limita alla perdita subita ed al mancato guadagno, senza poter
mai divenire fonte di lucro per il danneggiato, secondo risulta anche
dall’art. 1910, del codice civile.
Né può allegarsi in contrario la diversità della causa
creditoria, poiché, se è vero che nella specie all’assicurato sono
conferite due pretese, verso l’INAIL, oltre che verso il responsabile,
anziché solamente verso quest’ultimo (come a stretto rigore dovrebbe
avvenire), ciò è disposto, come si è già rilevato, a favore
dell’infortunato cui si vuole garantire in ogni caso (anche guando il
risarcimento ritardi, o non riesca ad ottenersi) il diritto alle
prestazioni assistenziali. Queste, se trovano un titolo autonomo nel
rapporto assicurativo di cui è parte il lavoratore, si effettuano
tuttavia in temporanea sostituzione delle erogazioni che, a causa del
medesimo evento dannoso, sono poste a carico del datore, e pertanto non
possono cumularsi con esse, se non a patto di determinare un indebito
arricchimento. Questa considerazione è sufficiente a mostrare
l’inconcludenza dei riferimenti che l’ordinanza fa a casi di utilità
provenienti all’infortunato per titoli diversi da quello discendente
dal danno, e per i quali quindi è giusto che non possano incidere sul
risarcimento (ma se mai solo sulla commisurazione del suo ammontare).
Quanto poi ai rilievi della difesa di parte, secondo cui dalla
constatazione che al bilancio dell’INAIL concorrono fondi erogati dallo
Stato si dovrebbe far discendere il diritto del lavoratore
all’integrale risarcimento ove si verifichi l’insolvenza del datore,
basterà osservare l’irrilevanza dell’ipotesi formulata nel caso
presente in cui, non ricorrendo una situazione di insolvenza, la
pretesa fatta valere si risolverebbe nell’ottenimento di prestazione in
misura superiore al danno subito.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 10, sesto e settimo comma, e 11, primo e secondo comma, del
testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria degli
infortuni sul lavoro, approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124,
sollevata, con ordinanza del tribunale di Roma, in riferimento agli
artt. 3, 35 e 38 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.