Sentenza N. 136 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
22/06/1971
Data deposito/pubblicazione
22/06/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
ultimo comma, 199, primo comma, 500 e 199, terzo comma, del codice di
procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 3 novembre 1969 dal pretore di Torino nel
procedimento penale a carico di Cortazza Alberto, iscritta al n. 16 del
registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n.50 del 25 febbraio 1970;
2) ordinanza emessa il 12 giugno 1970 dal tribunale di Milano nel
procedimento penale a carico di Coen Wally, iscritta al n. 270 del
registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 254 del 7 ottobre 1970.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 maggio 1971 il Giudice relatore
Ercole Rocchetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco
Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Il pretore di Torino, con ordinanza emessa il 3 novembre 1969
nel procedimento penale a carico di Cortazza Alberto ed in sede di
esame sull’ammissibilità dell’impugnazione ex art. 207 del codice di
procedura penale, ha proposto questione di legittimità costituzionale
degli artt. 472, ultimo comma, e 199, primo comma, dello stesso codice,
in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione.
Secondo il giudice a quo, l’art. 472, ultimo comma, cod. proc.
pen., col disporre che “la lettura del dispositivo costituisce la
notificazione per tutte le parti che sono state o che debbono
considerarsi presenti nel dibattimento, anche se non presenti alla
lettura” violerebbe innanzi tutto il diritto di difesa tutelato
dall’art. 24, comma secondo, della Costituzione. Ciò perché
renderebbe all’imputato, la cui presenza al dibattimento è solo
presunta, più difficile l’impugnazione, il cui esercizio, oltre che al
suo difensore, spetta anche a lui personalmente.
Inoltre, lo stesso articolo del codice di procedura penale,
equiparando, nel caso, la situazione dell’imputato assente, ma da
considerarsi presente, a quella dell’imputato effettivamente presente,
e non a quella del contumace, violerebbe il principio di eguaglianza
tutelato dall’art. 3, comma primo, della Costituzione, perché
tratterebbe in modo eguale situazioni differenziate e in modo
differenziato situazioni analoghe.
Con la stessa ordinanza, il pretore di Torino solleva anche
questione di legittimità costituzionale dell’art. 199, comma primo e
terzo, cod. proc. pen. che, assegnando all’imputato termini per
l’impugnazione più brevi di quelli concessi al p.m., violerebbe il
diritto di eguaglianza e quello di difesa (artt. 3 e 24 Cost.), in
quanto contraddirebbe alla equiparazione processuale tra la difesa e
l’accusa.
L’ordinanza è stata notificata, comunicata e pubblicata nelle
forme di legge.
Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato che, con
deduzioni del 16 marzo 1970, ha chiesto che la Corte dichiari infondate
le questioni come sopra proposte.
L’Avvocatura ha motivato la sua richiesta, per quanto concerne la
questione che investe l’art. 472, ultimo comma, cod. proc. pen.,
rilevando che la così detta quasi presenza dell’imputato è
configurata sulla base di una volontà negativa da lui espressa, sia
pure tacitamente, ma inequivocabilmente, circa il suo diritto di
partecipazione all’udienza.
Quanto alla questione che investe l’art. 199 cod. proc. pen. e che
concerne i termini differenziati per l’impugnazione tra difesa ed
accusa, sostiene poi l’Avvocatura non esservi eguaglianza tra le due
posizioni processuali, mentre il maggior termine concesso all’accusa è
giustificato dall’essere quest’ultima strutturata in ufficio.
2. – Con ordinanza emessa il 12 giugno 1970, nel corso del
procedimento penale a carico di Coen Wally, il tribunale di Milano ha
sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 500 e
199, comma terzo, del codice di procedura penale, con riferimento
all’art. 24, comma secondo, della Costituzione.
Ritiene il giudice a quo che l’art. 500, prescrivendo che
all’imputato contumace la sentenza va notificata per estratto e l’art.
199, comma terzo, aggiungendo che per lui il termine di impugnazione
decorre dal giorno della notificazione di esso – anziché da data più
certa, come sarebbe ad esempio quella della notifica dell’ordine di
carcerazione – violerebbe il diritto di difesa tutte le volte che al
contumace la notifica dell’estratto di sentenza è eseguita col rito
degli irreperibili, perché esso, non dà alcun affidamento di
effettiva e tempestiva conoscenza dell’atto da parte dell’interessato.
Anche questa ordinanza è stata, notificata, comunicata e
pubblicata, ma nel relativo giudizio avanti questa Corte nessuno si è
costituito.
Data la parziale identità dell’oggetto delle questioni proposte
con le due ordinanze, i relativi giudizi vengono riuniti e decisi con
unica sentenza.
1. – La prima di tali questioni investe l’art. 472, ultimo comma,
del codice di procedura penale, che, conferendo alla lettura della
sentenza validità di notificazione anche per le parti non presenti
alla lettura stessa, ma da considerarsi però presenti al dibattimento,
violerebbe, secondo la prima ordinanza, il diritto di difesa
dell’imputato tutelato dall’art. 24, comma secondo, della Costituzione.
L’imputato sarebbe menomato nel suo diritto di difesa perché, potendo,
nel caso della così detta quasi presenza, anche ignorare la data e il
contenuto della sentenza, egli sarebbe privato della conoscenza degli
elementi necessari per proporre l’impugnazione, il cui esercizio è
riconosciuto, oltre che al suo difensore, anche a lui personalmente.
La questione non è fondata.
Il codice di procedura penale considera in vari articoli la
posizione dell’imputato che, per quanto non presente di fatto
all’intero dibattimento o a parte di esso, debba tuttavia considerarsi
presente a tutti gli effetti, fra cui appunto quello previsto dall’art.
472 citato.
Esaminando i vari casi, si rileva che in tutti ricorre, come dato
costante, un elemento, che è quello della sicura conoscenza, da parte
dell’imputato, dell’esistenza del giudizio e della data, almeno
iniziale, del dibattimento.
Così avviene nel caso dell’art. 125, in cui l’imputato, allorché
gli è consentito, si fa rappresentare con mandato speciale dal
difensore, o nel caso dell’art. 427, secondo comma, relativo
all’imputato detenuto che si rifiuta di assistere all’udienza, o di
quello libero che (art. 497, secondo comma), pur essendo impedito,
chiede o consente che si procede in sua assenza, ovvero, dopo aver reso
l’interrogatorio (art. 428, primo comma), si assenta o non interviene a
una successiva udienza o ancora, essendo detenuto (art. 427, terzo
comma), evade nel corso dell’udienza o viene allontanato (art. 434,
quarto comma) per ordine del giudice o del pubblico ministero.
Ora, la conoscenza della data del dibattimento pone l’imputato
nella condizione di poter assumere informazioni, pur che lo voglia,
intorno a tutte le vicende di esso, come di apprendere il contenuto
della sentenza allorché essa verrà emanata. La possibilità di fatto
che l’imputato ha di tenersi al corrente di quanto lo interessa in
merito alla proposizione del gravame esclude pertanto ogni menomazione
del suo diritto di difesa.
D’altra parte, le conseguenze, anche nel caso che egli trascuri di
assumere le informazioni di cui si è detto, sono per l’imputato stesso
di scarsa o nulla rilevanza, giacché egli, durante l’assenza (artt.
427 e 428), è rappresentato dal suo difensore, che, in ogni caso, ha
il potere di interporre impugnazione (art. 192, ultimo comma) anche con
riserva di motivi, da depositarsi poi entro venti giorni dalla
comunicazione del deposito della sentenza (art. 201).
E poiché l’imputato ha anche facoltà di rinunciare all’appello
proposto dal difensore (art. 193), è ovvio che egli è sempre
tutelato, sia che non intenda proporre impugnazione, sia nel caso che
lo voglia. In quest’ultimo caso il lungo termine concesso per la
presentazione dei motivi lo pone in condizione di poter far sempre
valere, fornendoli in tempo utile al difensore, tutte le ragioni e gli
elementi che egli ritiene validi per la sua difesa. Così che il suo
apporto personale all’attività processuale è da considerarsi, in ogni
caso, salvaguardato.
2. – La seconda delle questioni proposte investe lo stesso art.
472, ma con riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione.
Secondo l’ordinanza, la situazione dell’imputato così detto
assente o quasi presente, dovrebbe essere equiparata non a quella
dell’imputato presente, bensì all’altra dell’imputato contumace.
Anche tale questione non è fondata, in quanto non vi è identità
di situazione nei due casi.
Il contumace che, a differenza dell’assente, non ha manifestato
alcuna volontà negativa in ordine alla comparizione e alla presenza in
udienza, può, in estrema ipotesi, anche ignorare l’esistenza del
giudizio o anche soltanto la data del dibattimento. Il che, per le
ragioni avanti esposte, non può invece mai verificarsi per l’imputato
assente.
La differenza di trattamento nei due casi, in ordine al modo
prescelto per determinare la conoscenza legale della data e del
contenuto della sentenza, è quindi giustificata.
3. – La terza delle questioni proposte investe l’art. 199 del
codice di procedura penale che, col concedere all’imputato solo tre
giorni e al pubblico ministero venti o trenta giorni, per proporre
impugnazione, porrebbe in essere, secondo il giudice a quo, una
disparità di trattamento che contraddirebbe “alla equiparazione tra
difesa e accusa che dovrebbe caratterizzare (alla luce dell’art. 24,
secondo comma, della Costituzione) il processo penale”. Dal che
dovrebbe dedursi che, a causa di tale difformità di trattamento,
l’art. 199 violerebbe, col già richiamato art. 24, anche l’art. 3,
primo comma, della Costituzione.
Neanche tale questione può ritenersi fondata.
Innanzi tutto la Corte rileva che, per quanto concerne il pubblico
ministero, questo è organo di giustizia, preposto, nell’interesse
generale, alla difesa dell’ordinamento, con il compito di provvedere
alla persecuzione dei reati.
Ciò detto, rileva ancora che i maggiori termini concessi al
pubblico ministero per proporre impugnazione trovano giustificazione
razionale nella strutturazione stessa dell’organo di accusa in ufficio,
il quale, per attendere, tra le altre incombenze, all’esame delle
sentenze che pervengono a quell’organo dalle magistrature della
circoscrizione, ha evidentemente bisogno di un maggior termine di
quanto non occorra all’imputato per decidere intorno al suo personale
ed unico interesse.
Del che, e cioè della razionalità della disposizione, è riprova
il fatto che il pubblico ministero ha lo stesso termine dell’imputato
nel caso che il rappresentante dell’ufficio che propone l’impugnazione
sia quello stesso che è intervenuto all’udienza o appartenga alla
stessa sede dell’organo giudiziario che ha emesso la sentenza. L’art.
199 determina infatti il termine in venti giorni solo per
l’impugnazione del procuratore della Repubblica contro i provvedimenti
emessi in udienza dal pretore e di trenta per le impugnazioni del
procuratore generale contro i provvedimenti emessi in udienza da
qualsiasi giudice della sua circoscrizione, diverso (però) dalla Corte
di appello.
4. – Quarta, ed ultima questione proposta, è quella concernente
gli artt. 500 e 199, terzo comma, del codice di procedura penale nel
loro combinato disposto.
Sostiene il giudice a quo che, se per l’imputato contumace il
termine per proporre impugnazione decorre dalla notifica della
sentenza, dovrebbe ritenersi violato il diritto di difesa quando tale
notifica avvenga nelle forme degli irreperibili (art. 170), perché
essa origina solo una presunzione e non dà affidamento di una reale
conoscenza.
Quel diritto, secondo lo stesso giudice, verrebbe invece meglio
tutelato se il termine per l’impugnazione si facesse decorrere dalla
notifica di altro atto, come ad esempio l’ordine di carcerazione, che,
determinando l’arresto per l’esecuzione della pena, non potrebbe mai
restare ignorato dall’imputato.
Nemmeno tale questione può ritenersi fondata.
La Corte ha avuto recentemente ad occuparsi, nella sentenza n. 54
del corrente anno, della notifica della sentenza all’imputato
contumace, ed ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 3 del
d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, nella parte in cui prescrive che il
decreto di irreperibilità emesso nel giudizio di primo grado cessa di
aver efficacia solo con la trasmissione al giudice competente per il
giudizio di appello e non con la pronuncia del giudice di primo grado.
Così disponendo la Corte ha ritenuto che, prima di procedere alla
notifica della sentenza con le forme previste per gli imputati
irreperibili, debbano essere rinnovate le ricerche e occorre che venga
emesso un nuovo decreto di irreperibilità, aggiungendo in tal modo una
ulteriore garanzia a quelle già previste dalla legge.
E poiché queste, così completate, devono considerarsi le maggiori
possibili, nell’interesse dell’imputato, in un ordinamento che non
voglia abdicare, anche in casi marginali, alla tutela dell’ordine
sociale turbato dal delitto, i diritti costituzionali, all’imputato
stesso garantiti dall’art. 24, secondo comma, non possono ritenersi,
nel caso, violati.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimiti costituzionale
degli artt. 472, ultimo comma, 199, primo comma, 500 e 199, terzo
comma, del codice di procedura penale, solevate, con le ordinanze in
epigrafe, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHBLE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.