Sentenza N. 142 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
22/06/1971
Data deposito/pubblicazione
22/06/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promossi con le
seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 1 agosto 1970 dal tribunale di Massa
sull’istanza di fallimento proposta dall’Istituto nazionale della
previdenza sociale nei confronti di Lazzini Sandrino, iscritta al n.
276 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 267 del 21 ottobre 1970;
2) ordinanza emessa il 21 ottobre 1970 dal tribunale di Napoli
sull’istanza di fallimento proposta da Belli Vincenzo nei confronti di
Montano Armando, iscritta al n. 358 del registro ordinanze 1970 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 329 del 30
dicembre 1970.
Visti gli atti di costituzione dell’INPS e d’intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 18 maggio 1971 il Giudice relatore
Nicola Reale;
uditi l’avv. Antonio Giorgi, per l’INPS, ed il sostituto avvocato
generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Con decreto 28 aprile 1970 il tribunale di Massa respingeva
l’istanza di fallimento proposta dall’Istituto nazionale della
previdenza sociale nei confronti di Lazzini Sandrino, affermando essere
il debitore insolvente piccolo imprenditore non soggetto a procedura
fallimentare.
Contro tale pronunzia l’Istituto nazionale della previdenza sociale
interponeva reclamo, ai sensi dell’art. 22 della legge fallimentare,
alla Corte di appello di Genova, la quale, con decreto 3 luglio 1970,
accogliendo l’istanza, rimetteva gli atti al tribunale predetto per la
pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento.
Con ordinanza emessa il 1 agosto successivo, premesso che il
debitore, successivamente al decreto della Corte d’appello, aveva
chiesto di essere nuovamente sentito onde aver modo di provare con
ulteriori mezzi la propria qualità di artigiano piccolo imprenditore,
il tribunale ha sollevato di ufficio, in riferimento all’art. 24,
secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 22, ultimo comma, della
ricordata legge fallimentare (approvata col r.d. 16 marzo 1942, n.
267).
Ritenuta la rilevanza della questione, il tribunale ha osservato
che, a seguito della pronunzia della Corte di appello, esso resterebbe
vincolato ad emanare la sentenza dichiarativa del fallimento, senza
possibilità di procedere a nuova istruzione e prendere in esame le
deduzioni del debitore, anche se volte a precisare modificazioni della
situazione di fatto, successive al procedimento di reclamo ed incidenti
sulla legalità della stessa dichiarazione di fallimento.
Da ciò il dubbio che l’art. 22, primo comma, della legge
fallimentare, in quanto escluda nella fase di rinvio davanti al
tribunale la difesa del debitore, non sia compatibile con l’art. 24,
secondo comma, della Costituzione.
In riferimento al principio della indipendenza del giudice, il
tribunale ha motivato che la norma denunziata, in contrasto col
principio della esclusività della competenza funzionale dello stesso
tribunale in ordine alla dichiarazione di fallimento, precluderebbe in
concreto la verifica delle condizioni per la pronunzia di tale
provvedimento, al quale soltanto l’ordinamento attribuisce funzioni
costitutive dello stato di fallimento. Il tribunale dovrebbe sottostare
alla decisione della Corte di appello, subendo menomazione della sua
indipendenza: tale decisione avrebbe infatti il contenuto di un ordine
di procedere alla dichiarazione di fallimento, senza peraltro
costituire giudicato sui punti di fatto e di diritto esaminati.
Costituitosi in giudizio, con deduzioni 30 ottobre 1970, l’Istituto
nazionale della previdenza sociale ha concluso, in via preliminare, per
l’inammissibilità della questione, in quanto sarebbe stata sollevata
nel corso non di “un vero e proprio giudizio contenzioso”, ma di “un
procedimento che si svolge esclusivamente in camera di consiglio”.
Nel merito ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Non sussisterebbe, ha osservato, la violazione dell’art. 24,
secondo comma della Costituzione, posto che il debitore, la cui difesa
può subire limitazioni nell’ambito della procedura di fallimento,
avrebbe in ogni caso il potere di impugnare la sentenza del tribunale
onde ottenerne la revoca, adducendo la prova che, dopo la comparizione
in camera di consiglio davanti alla Corte d’appello, il proprio stato
di insolvenza è venuto meno.
Il fatto poi che la sentenza dichiarativa di fallimento venga
emessa, nel caso di accoglimento del reclamo, non direttamente dalla
Corte d’appello, ma ne sia demandata la pronunzia al tribunale, non
importerebbe diminuzione di difesa del debitore; al contrario
rappresenterebbe un’ulteriore misura a suo favore, dato che, in tal
guisa, non gli sarebbe sottratto un grado di giurisdizione in caso di
opposizione.
Circa il secondo profilo, la difesa dell’INPS ha contestato il
fondamento della questione, rilevando che l’art. 22 della legge
fallimentare, nella parte impugnata, non si discosterebbe
sostanzialmente dallo schema legale della ripartizione delle competenze
fra Corte di cassazione e giudice di rinvio (la cui costituzionalità
è stata affermata nella sentenza n. 50/1970 di questa Corte) o da
quello della rimessione della causa al giudice di primo grado da parte
del giudice di appello, per ragioni di giurisdizione o di competenza
(art. 353 c.p.c.) o negli altri casi indicati dall’art. 354 del codice
di procedura civile.
Al decreto sopra ricordato, obietta la difesa dell’INPS, dovrebbe
essere riconosciuta la peculiare funzione preclusiva delle
contestazioni sui presupposti della dichiarazione di fallimento
nell’ambito della fase di accertamento dello stato di insolvenza, in
quanto rimedio contro la reiterazione di istanze di fallimento, cui
facciano seguito altrettanti decreti negativi del tribunale.
Analoghe argomentazioni e conclusioni ha svolto anche l’Avvocatura
generale dello Stato, con atto di intervento depositato in
rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri.
L’Avvocatura ha dedotto, in particolare, che il procedimento di
reclamo, di cui all’art. 22 legge fallimentare, è informato al
rispetto della competenza funzionale del tribunale con il solo
temperamento che la decisione della Corte d’appello, vincolando il
primo giudice, elimina ogni possibilità di conflitto virtuale fra i
due organi.
Il vincolo, che da tale sistema deriva, discenderebbe dal fatto che
la dichiarazione di fallimento è configurata, nel caso in esame, come
pronunzia soggettivamente complessa, nel cui ambito alla Corte
d’appello, in sede di reclamo, spetta accertare il concorso dei
presupposti di fatto e di diritto, al tribunale dichiarare con
efficacia costitutiva il fallimento.
Tale configurazione escluderebbe, altresì, che dall’art. 22,
ultimo comma, possa derivare lesione del diritto di difesa. Questo
diritto può essere proficuamente esercitato con la comparizione del
debitore, richiesta da detta norma anche nel procedimento di reclamo,
e, esaurendosi in questo l’accertamento dei presupposti della
dichiarazione di fallimento, non sarebbero giustificate ulteriori
indagini da parte del tribunale mentre eventuali contrarie circostanze
potrebbero essere dedotte nel giudizio di opposizione.
La stessa questione è stata sollevata di ufficio anche nel corso
di un analogo procedimento fallimentare, con ordinanza 21 ottobre 1970
del tribunale di Napoli, in riferimento all’articolo 101, secondo
comma, della Costituzione.
Lo stesso tribunale ha ritenuto, inoltre, che l’art. 22 della legge
fallimentare contrasti anche con l’art. 3 della Costituzione. Nel caso
preveduto dalla detta disposizione, il tempo intercorrente fra
l’accertamento delle condizioni della dichiarazione di fallimento da
parte della Corte d’appello e la successiva emanazione della sentenza
ad opera del tribunale risulterebbe maggiore che non nell’ipotesi nella
quale, in mancanza di reclamo, l’intero procedimento si concluda
davanti allo stesso organo di primo grado. Il che importerebbe la
possibilità, maggiore ovviamente nel primo caso che non nel secondo,
che nelle more processuali si verifichino mutamenti della situazione
patrimoniale del debitore ed anche la cessazione dello stato di
insolvenza. Donde la disparità di trattamento fra situazioni
sostanzialmente parallele e differenziate soltanto da circostanze
formali inerenti alla particolare disciplina dettata dalla norma
denunziata.
Nessuna delle parti si è costituita in questo giudizio né ha
spiegato intervento l’Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza
del Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Le due cause, avendo ad oggetto questioni identiche o fra loro
connesse, devono essere riunite ai fini di unica decisione.
2. – Con le ordinanze dei tribunali di Massa e Napoli è sollevata
la questione di costituzionalità dell’art. 22 del r.d. 16 marzo 1942,
n. 267 (c.d. legge fallimentare), per la parte (comma terzo) in cui
dispone che se la Corte d’appello accoglie il ricorso per la
dichiarazione di fallimento in riforma della decisione contraria del
tribunale, rimette a quest’ultimo gli atti onde proceda alla
dichiarazione di fallimento. Questa norma, si assume, vincolando il
tribunale a pronunziare sentenza sulla base dei soli accertamenti e
delle valutazioni compiute dalla Corte, importerebbe menomazione della
indipendenza del giudice di primo grado nei confronti di quello di
appello, e ciò in contrasto con l’art. 101, secondo comma, della
Costituzione, per cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Il tribunale di Massa ha, inoltre, sollevato il dubbio che la
ricordata norma della legge fallimentare contrasti anche con l’art. 24,
secondo comma, della Costituzione, in quanto, nel caso di accoglimento
del reclamo da parte della Corte d’appello, il tribunale è tenuto a
dichiarare il fallimento senza che al debitore sia data facoltà di
essere nuovamente ascoltato in camera di consiglio e di dedurre nuove
difese, anche in ordine a sopravvenute circostanze che modifichino la
situazione considerata nelle precedenti fasi processuali e nei
provvedimenti già ammessi.
In relazione all’accennata fattispecie, il tribunale di Napoli
denunzia altresì la violazione del principio di uguaglianza (art. 3
Cost.), rilevando che a causa della diversità di svolgimento e durata
della procedura fallimentare, e cioè a seconda che intervenga o meno
la fase di reclamo davanti alla Corte d’appello, risulterebbero
diverse, in concreto, e più ampie nella prima ipotesi, le possibilità
per il debitore di far valere le proprie ragioni nel corso della
procedura per la dichiarazione di fallimento.
3. – L’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte
creditrice costituita nel presente giudizio, ha eccepito la
inammissibilità delle questioni in quanto sollevate nel corso di
procedimento in camera di consiglio e non in un procedimento
contenzioso.
L’eccezione deve, però, essere disattesa.
Non occorre prendere in esame la vasta problematica prospettata
dalla dottrina circa la natura del procedimento fallimentare e delle
sue varie fasi, posto che, come ha chiarito la giurisprudenza di questa
Corte (da ultimo con la sentenza n. 53 del 1968), il termine “giudizio”
di cui agli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e
23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, va inteso, ai fini
dell’ammissibilità delle questioni, nel senso lato di ogni
procedimento, anche di volontaria giurisdizione, che abbia corso
davanti ad un giudice.
4. – Nel merito le questioni non sono fondate.
In riferimento all’art. 101, secondo comma, della Costituzione si
deve ritenere, infatti, che il principio della indipendenza del
giudice, ben lungi dall’escludere la pluralità di gradi di
giurisdizione, preordinata, nel sistema processuale, ai fini di
giustizia ed all’esigenza della esattezza delle decisioni, ne postula,
anzi, il coordinamento.
D’altra parte, come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 50
del 1970 con riferimento al giudizio di rinvio a seguito di pronunzia
di cassazione, la sentenza del giudice si mantiene sotto l’imperio
della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo
convincimento avendo riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza
emessa nella stessa causa.
Per analoghe ragioni deve escludersi che contrasti col menzionato
precetto costituzionale l’art. 22 della legge fallimentare nella parte
in cui prevede che la pronunzia sul fallimento risulti costituita dalla
decisione della Corte d’appello e da quella del tribunale fallimentare,
quali organi aventi funzioni giurisdizionali di diverso grado, volte
peraltro a momenti distinti della decisione: la prima in merito
all’accertamento dei fatti e delle condizioni di legge, la seconda in
ordine alla dichiarazione costitutiva dello stato di debitore fallito.
Senza che sia necessario entrare nel vivo delle critiche mosse in
sede dottrinale alla scelta legislativa, l’attribuzione al tribunale
della suddetta esclusiva funzione appare ispirata, come ha ricordato
l’Avvocatura dello Stato, al rispetto della competenza funzionale di
detto organo nella materia in esame e al proposito di armonizzare la
competenza circa la dichiarazione di fallimento con il regime
processuale della opposizione, che il debitore può proporre al fine di
ottenerne la revoca.
5. – Né sussiste contrasto dell’art. 22 della legge citata con il
principio della garanzia della difesa in giudizio (articolo 24, secondo
comma, Cost.).
Al debitore è dato svolgere deduzioni a proprio vantaggio, sia di
fatto che di ordine tecnico-giuridico, e a tal fine deve essere
disposta la sua comparizione in camera di consiglio, cosi davanti al
tribunale, in sede di esame dell’istanza di fallimento (art. 15 legge
fallimentare, nel testo risultante dalla parziale dichiarazione di
incostituzionalità di cui alla sentenza di questa Corte n. 141 del
1970), come davanti alla Corte d’appello a norma del secondo comma del
predetto art. 22.
In considerazione della speditezza e celerità della procedura,
rispondente all’interesse generale della tutela dei creditori nei
confronti dell’imprenditore insolvente, non è sembrato al legislatore
apprezzabile l’esigenza di nuove difese da parte di quest’ultimo:
difese che ovviamente non potrebbero costituire reiterazione di
deduzioni già svolte nelle precedenti sedi. Né può fondatamente
osservarsi che il debitore resti in tal modo sfornito di tutela di
fronte all’eccezionale evenienza (estranea peraltro ai giudizi di
rilevanza enunciati nelle fattispecie in oggetto) di circostanze che ne
modifichino sostanzialmente la situazione patrimoniale e ne escludano
lo stato di insolvenza.
A prescindere dall’opinione autorevolmente espressa in dottrina che
dà loro eccezionalmente rilievo anche in sede di rinvio degli atti al
tribunale, tali circostanze, infatti, possono essere addotte nel
giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento, che può essere
promosso, ai sensi dell’art. 18, dal debitore e da qualunque
interessato e nel corso del quale, come hanno ritenuto la dottrina e la
giurisprudenza, il provvedimento della Corte d’appello non costituisce
vincolo di sorta alla piena cognizione del tribunale.
6. – Quanto all’ulteriore eventualità delineata dal tribunale di
Napoli che un diverso trattamento possa verificarsi nei confronti dei
debitori, in relazione al diverso concreto svolgersi delle procedure
fallimentari, e cioè alla maggiore o minore durata di esse, la Corte
ritiene che non sia configurabile, sul piano normativo, alcuna lesione
del principio di uguaglianza.
Non possono, infatti, avere rilievo, ai fini del giudizio di
costituzionalità, asserite divergenze riscontrabili in sede
applicativa della norma impugnata quali conseguenze eventuali e di mero
fatto di situazioni giuridiche per se stesse non suscettibili di
censura, allorché tali divergenze non siano rapportabili a fattispecie
normative incompatibili con l’ordinamento costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 22 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (cosi detta legge
fallimentare), sollevate, con le ordinanze di cui in epigrafe, in
riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 101, secondo comma,
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale Palazzo
della Consulta, il 16 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – EZIO CRISAFULLI –
NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.