Sentenza N. 146 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
03/12/1969
Data deposito/pubblicazione
03/12/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/11/1969
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
terzo comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, contenente
disposizioni sulla stampa, e 502, primo e secondo comma, del Codice di
procedura penale, promossi con le seguenti ordinanza:
1) ordinanza emessa il 15 ottobre 1968 dal tribunale di Milano nel
procedimento penale a carico di Russo Alfio, iscritta al n. 266 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969;
2) ordinanza emessa il 15 gennaio 1969 dal tribunale di Palermo nel
procedimento penale a carico di Maggio Giuseppe e Vito, e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 2 aprile 1969;
3) ordinanza emessa il 12 marzo 1969 dal tribunale di Napoli nei
procedimenti penali riuniti a carico di Amato Olimpia ed altri,
iscritta al n. 205 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 18 giugno 1969.
Visti gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 ottobre 1969 il Giudice relatore
Nicola Reale;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel corso del giudizio penale promosso col rito direttissimo dal
Procuratore della Repubblica di Milano, il tribunale, accogliendo
l’eccezione proposta dal difensore dell’imputato contumace, con
ordinanza del 15 ottobre 1968, ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 21, terzo comma, della legge 8
febbraio 1948, n. 47, e 502, primo e secondo comma, del Codice di
procedura penale, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 25,
primo comma, della Costituzione.
Il tribunale ha osservato che lo speciale procedimento direttissimo
per i reati commessi col mezzo della stampa segue la disciplina dettata
in generale dall’art. 502 del Codice di procedura penale, per quanto in
particolare riguarda la scelta dell’organo giudicante da parte del
P.M., con la sola deroga che alla traduzione dell’imputato è
sostituita la di lui citazione, non richiedendosene necessariamente lo
stato di detenzione.
Al P.M. è data potestà di richiedere il giudizio davanti a
qualsiasi delle sezioni del tribunale, nella udienza che egli stesso
può determinare nei termini stabiliti dalle disposizioni impugnate.
Pertanto, in considerazione dell’avvicendamento dei magistrati nei
collegi e del numero delle sezioni in cui il tribunale possa risultare
diviso, la discrezionalità accordata al P.M. risulterebbe cosi ampia
da apparire non compatibile con i principi costituzionali della
inviolabilità della difesa e del giudice naturale. Principi i quali
non consentirebbero che alcuna delle parti possa, in concreto,
interferire sulla designazione dell’organo giudicante, con grave
turbamento dell’equilibrio del contraddittorio e con l’effetto che
l’imputato sia distolto dal giudice precostituito in base alla legge
processuale ed in armonia con l’ordinamento giudiziario.
Anche nel diritto processuale penale, infatti, deve ritenersi
valido il principio di ordine generale (cui si riferiscono del resto
gli artt. 19 e 20 del regolamento per l’esecuzione del codice di
procedura penale approvato con R.D. 28 maggio 1931, n. 603) che
attribuisce la formazione dei ruoli delle udienze delle sezioni al
Presidente del tribunale. Soltanto nei giudizi direttissimi la garanzia
di imparzialità di detto organo verrebbe elusa, sostituendosi ad esso
la iniziativa del P.M.
In rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri,
l’Avvocatura generale dello Stato, con atto di intervento del 16
gennaio 1969 ha dedotto che la disciplina del giudizio direttissimo,
per la persecuzione dei reati commessi col mezzo della stampa,
configurato dalla dottrina come atipica, rispetto alle linee del
procedimento preveduto dagli articoli 502 e seguenti del Codice di
procedura penale, specialmente in relazione alla modalità della
citazione dell’imputato non detenuto, non sarebbe in contrasto col
diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione. Diritto il
cui esercizio non trova ostacolo nel rito direttissimo, non influendo
su di esso l’assenza della fase istruttoria e la sostituzione, alla
formale contestazione del reato, del sommario interrogatorio
dell’imputato prima del giudizio.
Né sussiste contrasto, deduce la difesa del Presidente del
Consiglio, fra la normativa impugnata e l’art. 25 della Costituzione.
Il problema, per quanto riguarda la pretesa scelta della sezione,
si presenta invero solo per i tribunali ripartiti in più sezioni, ma
anche per questi solo formalmente, dato che per prassi osservata negli
uffici giudiziari, sarebbe sempre una stessa sezione ad occuparsi dei
reati di stampa.
Circa poi la scelta dei giudici, l’Avvocatura rileva che la
potestà conferita al P.M. dall’art. 502 del Codice di procedura
penale, non importa alcuna interferenza di detto organo nella
assegnazione dei magistrati ad una sezione o collegio giudicante, la
quale resta invece di esclusiva competenza del Presidente.
D’altro lato la distribuzione dei processi tra le diverse sezioni
da parte del Presidente non costituisce esercizio dei poteri di
giurisdizione, ma solo espressione di organizzazione, amministrativa e
regolamentare, e non è quindi illegittimo che vi provveda
eccezionalmente, ed in misura ben più limitata il P.M., le cui
possibilità di scelta, nella pratica, si ridurrebbero a ben poco.
Questi non è in grado di influire, invero, sulla nomina del giudice,
né sulla destinazione alla sezione cui, di regola, i processi di
stampa affluiscono, né, se non di riflesso, sulla composizione della
sezione che deve giudicare.
L’Avvocatura ha concluso quindi perché la questione sia dichiarata
infondata sotto entrambi i profili prospettati dal tribunale di Milano.
2. – Con altra ordinanza pronunziata il 15 gennaio 1969, nel
procedimento direttissimo a carico dei signori Giuseppe e Vito Maggio,
imputati del reato di diffamazione aggravata a mezzo della stampa (art.
595, terzo comma, del Cod. pen. e art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47)
il tribunale di Palermo ha sollevato analoga questione di legittimità
costituzionale dell’art. 502 del Codice di procedura penale.
Se, ha osservato il tribunale di Palermo, ogni sezione costituisce
potenzialmente giudice naturale rispetto ai reati commessi nell’ambito
della circoscrizione giudiziaria, nei limiti della competenza
funzionale, spetta tuttavia al Presidente del tribunale e non al P.M.
designare quella delle sezioni, egualmente competenti, che deve in
concreto giudicare.
In questo giudizio non si è costituita alcuna delle parti private,
né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri.
3. – La stessa questione è stata, infine, sollevata con ordinanza
12 marzo 1969 del tribunale di Napoli, nel corso del giudizio penale a
carico di varie persone imputate della contravvenzione prevista
dall’art. 725 del Codice penale, in relazione all’art. 21 della legge
sulla stampa, per aver posto in vendita pubblicazioni contrarie alla
decenza.
Premesso che la nozione del giudice naturale precostituito per
legge non può identificarsi con l’organo giudiziario competente, con
astrazione delle persone dei giudici che lo compongono, questo ultimo
tribunale, dal principio, enunciato nella sentenza n. 156 del 1963
della Corte costituzionale, per il quale, in omaggio alla garanzia del
giudice naturale, non può provvedersi alla composizione dell’ufficio
giudicante in alcun caso in vista del singolo processo, ha tratto la
conclusione che il precetto costituzionale è violato anche nel caso in
cui sia data facoltà di scegliere, in relazione ad una “regiudicanda”
già insorta, uno fra più collegi costituiti ed estrattamente
competenti.
Il che si verificherebbe nell’ipotesi in esame, in applicazione
dell’art. 502 del Codice di procedura penale.
Né, ha osservato il tribunale, la violazione dell’art. 25 della
Costituzione verrebbe meno, se la scelta della sezione o del collegio
giudicante, fosse attribuita al Presidente del tribunale, secondo
quanto dispone, per i giudizi diversi dai direttissimi, l’art. 20 del
citato regolamento per l’esecuzione del codice di procedura penale,
giacché anche in questo caso la mancanza dei criteri obiettivi
potrebbe indurre “a scelte ispirate da esigenze e finalità diverse da
quelle di giustizia”.
Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei Ministri, nel cui interesse l’Avvocatura generale dello
Stato ha depositato, il 13 maggio 1969, deduzioni e conclusioni
analoghe a quelle di cui alla prima delle riferite ordinanze.
1. – Le tre ordinanze possono essere riunite e decise con unica
sentenza.
Tutte infatti sollevano la questione se l’art. 502 del Codice di
procedura penale – applicabile al procedimento direttissimo per reati
commessi a mezzo della stampa (art. 21, terzo comma, legge 8 febbraio
1948, n. 47) – sia in contrasto col principio del giudice naturale
affermato nell’art. 25, primo comma, della Costituzione, nelle parti in
cui consente che il pubblico ministero, nei tribunali divisi in più
sezioni, determini la sezione e l’udienza nella quale presentare o far
comparire l’imputato per il giudizio dibattimentale.
L’ordinanza del tribunale di Milano estende la censura di
illegittimità anche al citato art. 21, terzo comma, della legge sulla
stampa, nonché al secondo comma dell’art. 502.
Il tribunale di Milano e quello di Palermo assumono che la garanzia
della precostituzione del giudice, derivante in concreto dal fatto che
alla designazione della sezione o del collegio provvede, di norma, un
organo imparziale qual’è il Presidente del tribunale, sarebbe elusa
nei procedimenti direttissimi, dato che, in questi, la designazione
stessa avverrebbe per discrezionale iniziativa del pubblico ministero e
cioè di una delle parti della causa.
Il tribunale di Napoli, invece ha argomentato la non manifesta
infondatezza della questione dal fatto che la designazione del giudice
per la cognizione di reati col rito direttissimo, non trova nella legge
alcun limite legale o direttiva che ne assicuri l’obiettività ed
imparzialità: ciò tanto nell’art. 502 del Codice di procedura penale,
che attribuisce tale designazione al Procuratore della Repubblica, cui
spetta l’iniziativa dell’azione penale, quanto nell’ipotesi che fosse
chiamato a provvedervi il Presidente del tribunale, nell’esercizio dei
suoi poteri di direzione ed organizzazione del servizio giudiziario.
Nell’ordinanza del tribunale di Milano la legittimità dell’art.
502, primo e secondo comma, del Codice di procedura penale, è posta in
dubbio, anche in relazione al principio della inviolabilità della
difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), sotto il profilo, complementare
al precedente, che la censurata facoltà di scelta dell’organo
giudicante, attribuita al pubblico ministero, leda l’equilibrio del
contraddittorio fra le parti del processo penale, rendendo deteriore la
posizione dell’imputato.
2. – Le questioni non sono fondate.
Il procedimento direttissimo, disciplinato dagli artt. 502-505 del
Codice di procedura penale, nel caso dei giudizi speciali, è informato
a criteri di rapidità e immediatezza, preordinati alla esigenza di
esemplarità del giudizio. Esso è introdotto dal pubblico ministero,
con richiesta di dibattimento contestuale alla presentazione
dell’imputato, nelle ipotesi (soggette a verifica da parte del giudice)
che l’imputato sia stato arrestato in flagranza di reato o che il reato
stesso sia stato commesso durante lo stato di detenzione o di
internamento per misura di sicurezza e che, inoltre, la prova risulti
agevole, senza cioè che occorra procedere a speciali indagini. È
richiesto senza indugio, se il tribunale siede in udienza penale,
ovvero, esclusa tale possibilità, nel termine perentorio di cinque
giorni dall’arresto.
Da tali requisiti si discosta l’istituto nei casi preveduti in
varie leggi speciali come quella sulla stampa, le quali prescrivono che
per determinate categorie di reati si procede sempre, e non a
discrezione del pubblico ministero, col rito direttissimo, ed anche se
l’imputato non sia detenuto. In questa ultima ipotesi la di lui
citazione a giudizio è disposta dal Procuratore della Repubblica.
La possibilità prospettata nelle tre ordinanze che il pubblico
ministero presenti l’imputato, in stato di costrizione fisica o a
seguito di suo decreto di citazione, davanti a quella delle sezioni del
tribunale che egli ritenga disponibile, in considerazione delle
esigenze del servizio, per lo svolgimento del dibattimento, non è
espressamente disciplinata dalle norme impugnate. Essa è, tuttavia,
praticamente configurabile soltanto in quei tribunali il cui organico
prevede una pluralità di sezioni o comunque l’assegnazione di
magistrati in numero superiore a quello richiesto per la composizione
del collegio o dei collegi giudicanti, in guisa da consentire
l’avvicendarsi di detti magistrati nello svolgimento dei compiti
istituzionali.
In riferimento a tale possibilità è appunto denunziata la lesione
del principio del giudice naturale. Tale principio esige anzitutto,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il giudice sia istituito
in base a criteri generali fissati in anticipo (sent. 29 del 1958, 1
del 1965) e non in vista di determinate controversie; con riferimento
cioè a fattispecie astratte e non già a posteriori, in relazione ad
una regiudicanda già insorta (sent. 88 del 1962, 130 del 1963, 156 del
1963).
Esso esclude che sia lo stesso giudice a creare discrezionalmente
ipotesi di spostamento della competenza (sent. 122 del 1963) e che
l’accertamento dei presupposti legali relativi dipenda da valutazioni
non suscettibili di sindacato ad iniziativa ed a tutela delle parti
(sent. 130 del 1963).
Orbene va ricordato che nel sistema positivo, a salvaguardia del
detto principio, anche per gli uffici giudiziari con pluralità di
sezioni e di magistrati addetti, esiste un complesso di norme volte a
contemperare l’obiettività ed imparzialità dei giudizi con le
esigenze della continuità e prontezza delle funzioni giurisdizionali,
pur nei casi di mutamenti, di vacanze e di impedimenti.
In particolare, quando il tribunale è costituito in più sezioni,
sono annualmente designate (con apposite tabelle) le sezioni alle quali
vengono devoluti promiscuamente o separatamente i diversi affari
contenziosi civili e penali e si effettua la destinazione a ciascuna
sezione dei vari magistrati, nel numero richiesto dalle esigenze del
servizio.
Altre norme (delle quali è stata esclusa la illegittimità con la
già menzionata sentenza n. 156 del 1963) prescrivono come si debba
procedere a colmare i vuoti permanenti o temporanei che, per cause
svariate, possono determinarsi negli uffici giudiziari, mediante
provvedimenti a loro volta di carattere permanente (assegnazione di
nuovi magistrati) o contingente e temporaneo (supplenze, sostituzioni,
applicazioni).
Sono, poi, normalmente prestabiliti i giorni in cui ciascuna
sezione terrà udienza nel corso dell’anno e turni di servizio dei
giudici addetti a ciascun ufficio.
Tanto premesso sembra evidente che le norme impugnate, in quanto
abilitano in casi eccezionali il pubblico ministero a disporre
direttamente la presentazione o la citazione dell’imputato a giudizio
davanti al tribunale e implicitamente consentono che lo stesso pubblico
ministero diriga, discrezionalmente, la richiesta del giudizio
dibattimentale ad una delle sezioni ed eventualmente ad uno dei collegi
in cui la sezione dell’ufficio giudiziario sia articolata, non
contrastano con la garanzia del giudice naturale, quale giudice
imparziale precostituito.
Pervero, atteso che la composizione di ogni sezione e di ogni
collegio risulta fatta secondo l’ordinamento e non appositamente per la
decisione su ogni reato già commesso, non manca, anche nell’ipotesi
dell’art. 502, l’elemento della preventiva individuazione del giudice,
che deve postularsi legata a criteri di obiettività e imparzialità,
quale che sia la composizione del collegio chiamato alla decisione ed
esclusa qualsiasi incidenza su di questa della scelta operata dal
pubblico ministero. Essa è fatta nell’esercizio di un potere che, a
parte la sua natura, è ben più limitato di quello spettante al
Presidente del tribunale, a norma dell’art. 20 del regolamento per
l’esecuzione del Codice di procedura penale, o esercitato dai
presidenti delle singole sezioni, circa la formazione dei ruoli e
l’assegnazione dei procedimenti ai collegi: attribuzioni queste ultime
di natura meramente ordinatoria, la cui discrezionalità risulta
necessaria ad assicurare l’efficienza della funzione giurisdizionale.
Né ai fini del decidere può avere rilevanza il distinguere fra
l’ipotesi di presentazione dell’imputato detenuto all’udienza della
sezione del tribunale e l’ipotesi di citazione dell’imputato libero,
trattandosi di manifestazioni diverse dello stesso potere attribuito al
pubblico ministero dall’art. 502 del Codice di procedura penale, cioè
di modalità diverse dell’esercizio dell’azione penale, quale è
configurato nell’ambito del rito direttissimo.
Gli argomenti sopra esposti invalidano nella specie l’affermazione
che la scelta del pubblico ministero manchi di obiettività, in quanto
si assume provenga da una delle parti in causa.
Va rilevato, infine, che se in dipendenza della scelta compiuta dal
pubblico ministero si profilasse per l’imputato il pericolo di un
giudizio non imparziale, varrebbero ad eliminarlo, ricorrendo le
ipotesi di legge, i rimedi previsti dall’ordinamento. Essi sono uguali,
del resto, a quelli che potrebbero essere resi necessari da scelte del
presidente e risultano invocabili fra l’altro nei casi di
incompatibilità, come pure in quelli che impongono la remissione del
procedimento o la astenzione o la ricusazione del giudice.
3. – Per i motivi suesposti deve escludersi la illegittimità sia
dell’art. 502, primo comma (e ovviamente, per analogia di ragioni,
anche del secondo comma) del Codice di procedura penale sia dell’art.
21, comma terzo, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in riferimento
all’art. 25, primo comma, della Costituzione.
Gli stessi motivi portano a ritenere che la potestà spettante al
pubblico ministero non può essere intesa nemmeno come antagonista al
diritto di difesa e incidente negativamente sullo equilibrio del
contraddittorio penale. Ne consegue la infondatezza anche dell’analoga
questione sollevata, in rapporto all’art. 24, secondo comma, della
Costituzione, dalla ordinanza del tribunale di Milano.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 502, primo e secondo comma, del Codice di procedura penale e
dell’art. 21, terzo comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47,
contenente disposizioni sulla stampa, sollevate dalle ordinanze
indicate in epigrafe, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e
25, primo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 novembre 1969.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.