Sentenza N. 148 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
08/05/1996
Data deposito/pubblicazione
08/05/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/05/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA,
prof. Giuliano VASSALLI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando
SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo
CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY;
comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con
ordinanza emessa l’11 gennaio 1995 dal tribunale di Pistoia sul
reclamo proposto da Gentilini Franco contro il curatore del
fallimento della UNO s.r.l. ed altri, iscritta al n. 539 del
registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1995;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 1996 il giudice
relatore Fernando Santosuosso.
società fallita (la UNO s.r.l.) pendente davanti al tribunale di
Pistoia, il curatore del fallimento forniva al giudice delegato dati
circa la sussistenza di fondati elementi di responsabilità a carico
degli ex amministratori e degli ex sindaci della società fallita.
Sulla base di questi elementi, con istanza dell’8 novembre 1994, il
curatore chiedeva al giudice delegato di autorizzarlo ex art. 146,
secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), ad
esercitare le azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393 e
2394 del codice civile nei confronti degli amministratori e dei
sindaci della società fallita. Gli prospettava anche l’opportunità
che il giudice delegato disponesse ex art. 146, terzo comma, della
legge fallimentare le misure cautelari che gli apparivano necessarie.
2. – Con decreto del 15 novembre 1994, il giudice delegato
autorizzava il curatore ad esperire l’azione di responsabilità.
Inoltre, recependo le ulteriori prospettazioni del curatore, riteneva
necessario garantire con misure cautelari l’efficacia del giudizio
che, con la sua autorizzazione, il curatore stava per esperire.
Pertanto disponeva il sequestro conservativo dei beni mobili e
immobili nei confronti dei predetti ex amministratori e sindaci e
fissava l’udienza del 29 novembre 1994 per l’audizione delle parti in
vista della conferma, della modifica o della revoca del decreto. Con
ordinanza del 9 dicembre 1994 il giudice delegato confermava il
decreto nei confronti di alcuni soggetti, mentre lo revocava o lo
dichiarava inefficace nei confronti di altri.
3. – Uno degli amministratori della società fallita, Gentilini
Franco, presentava reclamo al tribunale ex art. 669-terdecies del
codice di procedura civile, assumendo che l’art. 146, terzo comma,
della legge fallimentare sarebbe stato abrogato dagli artt. 669-bis e
669-quaterdecies del codice di procedura civile, sicché il giudice
delegato sarebbe incompetente a disporre il sequestro. In subordine –
per il caso che il tribunale avesse rigettato la tesi suesposta – il
reclamante avanzava eccezione di illegittimità costituzionale
dell’art. 146, terzo comma, della legge fallimentare in riferimento
al potere di iniziativa di ufficio che tale disposizione attribuisce
al giudice delegato. All’udienza dell’11 gennaio 1995 i procuratori
del ricorrente e della curatela discutevano sulle questioni oggetto
del reclamo.
4. – Il tribunale di Pistoia – aderendo all’indirizzo
interpretativo attualmente prevalente, ma non unico, in materia – ha
escluso che il potere del giudice delegato di disporre ante causam, a
tutela del credito della massa dei creditori sulla scorta degli artt.
2393 e 2394 del codice civile, il sequestro conservativo dei beni
degli ex amministratori e degli ex sindaci della società fallita
previsto dall’art. 146 della legge fallimentare, sia stato abrogato
dalla nuova normativa in materia di misure cautelari.
Riteneva, invece, non manifestamente infondata la questione
sollevata circa la legittimità costituzionale dell’art. 146, terzo
comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, osservando che
l’attribuzione al giudice di un potere di iniziativa costituisce una
deroga al principio della domanda che garantisce l’imparzialità del
giudizio, poiché assicura il rispetto della normale dialettica
processuale, e ritenendo che una deroga in questa materia si
giustifichi solo quando il risultato mirato dal legislatore non sia
perseguibile con altri strumenti. Pertanto, con ordinanza dell’11
gennaio 1995 rimetteva gli atti alla Corte costituzionale.
5. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in
giudizio e, rilevando che nel caso in esame la deroga agli ordinari
principi sulla competenza cautelare ante causam riguarda soltanto la
pronuncia della misura cautelare – la quale, anziché al presidente
del tribunale, è devoluta alla competenza del giudice delegato –
chiedeva che la questione sollevata fosse dichiarata inammissibile o,
in subordine, che fosse dichiarata infondata.
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 146, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), nella parte in cui prevede che, prima dell’inizio
della causa di merito, le misure cautelari strumentali rispetto
all’azione di responsabilità contro gli amministratori e sindaci
possono essere disposte d’ufficio dal giudice delegato al fallimento
anziché su ricorso del curatore secondo le norme ordinarie, in
riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, coordinato con l’art.
3, e 101, secondo comma, della Costituzione”.
2. – Ai fini della rilevanza della questione occorre osservare che
– come correttamente motiva lo stesso giudice rimettente – non può
ravvisarsi una “istanza in senso proprio” (con tutti i requisiti
formali e sostanziali previsti per l’atto introduttivo di altri
procedimenti) nella generica sollecitazione di misure cautelari fatta
dal curatore nell’atto con cui richiedeva l’autorizzazione ad agire
in giudizio. La libertà delle forme che governa l’attività
processuale non toglie che la domanda di parte, in quanto diretta ad
instaurare un determinato giudizio nei confronti di un terzo, debba
consentire a quest’ultimo di esercitare il diritto di difesa e va
pertanto specificamente determinata nei suoi elementi essenziali.
D’altra parte, osserva ancora il giudice a quo, “allorquando
l’iniziativa è officiosa, l’eventuale richiesta di terzi degrada a
mera denuncia”.
3. – Nel merito la questione non è fondata.
Il tribunale rimettente prende le mosse dall’orientamento – al
quale aderisce – di quella parte della giurisprudenza secondo cui,
anche dopo l’entrata in vigore della generale disciplina unitaria dei
procedimenti cautelari (artt. da 669-bis a 669-quaterdecies cod.
proc. civ.), è ancora vigente il terzo comma dell’art. 146 della
legge fallimentare, il quale attribuisce al giudice delegato un
potere di iniziativa nel disporre le misure cautelari, costituendo
una delle ipotesi in cui il nostro ordinamento processuale fa
eccezione al principio della domanda di parte.
Ritiene tuttavia il tribunale che tale norma contrasti con i
precetti costituzionali degli articoli 3, 24, secondo comma, e 101,
secondo comma, della Costituzione, poiché la predetta eccezione alla
regola generale non sarebbe sorretta da una effettiva e inderogabile
giustificazione (quella dell’interesse pubblico della massa dei
creditori), potendo “lo stesso risultato essere garantito attraverso
diversi strumenti tecnici”.
Secondo l’ordinanza di rimessione la norma, come sopra interpretata
in modo non implausibile, determinerebbe la violazione del principio
di ragionevolezza ed un vulnus alla tutela giurisdizionale poiché,
anche in questa ipotesi, si verificherebbe quanto già affermato
dalla Corte costituzionale con sentenza n. 133 del 1993, e cioè una
“deroga alla regola di terzietà del giudice” ed alla “normale
dialettica processuale, sia perché la domanda introduttiva del
giudizio, formulata dallo stesso giudice, prefigura il contenuto
della decisione, sia perché il contraddittorio non si instaura in
condizioni di parità tra le parti del rapporto sostanziale, bensì
tra queste, da un lato, e il giudice dall’altro”.
4. – Va subito precisato a quest’ultimo proposito che la
fattispecie oggetto della sentenza costituzionale, alla quale si
richiama il giudice a quo, aveva ad oggetto un potere d’impulso
processuale nell’ambito di una normativa in cui l’anomalia
dell’attore-giudice era il riflesso dell’anomalia della veste di
amministratore-giudice allora riconosciuta al commissario per gli usi
civici.
Nel presente caso, invece, il giudice delegato non “formula la
domanda introduttiva del giudizio”, ma emette un provvedimento
consequenziale all’istanza del curatore di essere autorizzato ad
introdurre il giudizio di responsabilità; e, una volta ritenuta la
necessità di garantire con misure cautelari l’efficacia del giudizio
che il curatore chiede di introdurre, il giudice delegato dà avvio
ad un contraddittorio che, sia pure con alcune connotazioni peculiari
alla procedura concorsuale, si svolge tra le parti portatrici degli
interessi contrapposti del rapporto sostanziale.
5. – A prescindere dal riferimento fatto al citato precedente di
questa Corte, le censure sollevate con l’ordinanza di rimessione non
possono essere condivise.
Il diritto alla tutela giurisdizionale è ascrivibile tra i
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale ed è
connesso al principio di democrazia nell’assicurare per qualsiasi
controversia un giudice e un giudizio (sentenza n. 18 del 1982); ma
tale diritto non risulta violato in materia processuale quando gli
strumenti apprestati dalla legge, sia pure con diverse modulazioni
dipendenti dall’adattamento alla struttura di ciascun procedimento,
salvaguardino nella sua essenza l’esercizio del diritto stesso (ex
plurimis sentenze nn. 214 del 1974, 27 del 1966 e 5 del 1965).
Più recentemente la Corte ha avuto diverse occasioni – specie in
materia penale – di sottolineare l’importanza dei principi
dell’imparzialità e della terzietà del giudice, per la salvaguardia
dei diritti di difesa e della uguaglianza dei cittadini, che hanno
fondamento negli articoli 3, 24 e 101 della Costituzione (sentt. nn.
455 del 1994, 133 del 1993, 299 del 1992, 502 e 390 del 1991).
6. – La delicata materia cautelare – in cui questa Corte è
intervenuta numerose volte specie per le misure penali – assume anche
nel settore civile particolare rilievo, dal momento che essa può
incidere in modo grave, sia pure provvisoriamente, su diritti dei
soggetti passivi, sulla base di una istruttoria sommaria e senza
sicurezza di eliminazione totale degli effetti, una volta rimossi i
provvedimenti stessi. Questo potere, pertanto, specie se consentito
per iniziativa officiosa, assume carattere eccezionale anche per i
giudici ordinari, e viene del tutto escluso per gli arbitri (art. 818
cod. proc. civ.). Il legislatore ha poi ritenuto di dovere
disciplinare unitariamente i procedimenti cautelari civili (prima
regolati in modo disomogeneo e frammentario) con la novella del 1990,
che si connotaper il rispetto del contraddittorio e degli altri
strumenti di difesa, e risponde all’esigenza (v. Relazione 23
febbraio 1990 della Commissione giustizia del Senato) di “evitare
che, a fronte di una crescente domanda di provvedimenti implicanti
cognizione sommaria, le differenze strutturali e le lacune delle
rispettive discipline si traducano in una abnorme ampiezza dei
confini delle opzioni ermeneutiche”.
7. – La specifica disciplina fallimentare – pur dopo numerosi
interventi della giurisprudenza costituzionale (tra le altre:
sentenze nn. 201 e 100 del 1993; 570, 567, 408 e 204 del 1989; 127 e
46 del 1975), ispirati ad una corretta aderenza del processo
fallimentare ai principi costituzionali, soprattutto per il rispetto
del diritto di difesa (in particolare le sentenze nn. 538 del 1990;
120 e 102 del 1986; 155 e 151 del 1980; 110 del 1972; 142 e 141 del
1970) – è caratterizzata da aspetti pubblicistici e dalla
tendenziale esigenza di maggiore speditezza del processo.
In questo contesto, sono affidati al giudice delegato vari poteri
(direttivi, decisori e di controllo), nell’esercizio dei quali non è
stata ravvisata violazione dei precetti costituzionali
dell’imparzialità e dell’indipendenza del giudice delegato, quando
ciò risponda all’esigenza di assicurare il rapido svolgimento ed il
miglior rendimento dell’attività giurisdizionale, senza pregiudicare
le decisioni del tribunale, e quando il giudice sia in grado di
operare con assoluta obiettività (sentenze nn. 158 e 94 del 1975).
In coerenza con le predette caratteristiche del processo
fallimentare e delle funzioni del giudice delegato, il nostro sistema
prevede alcuni interventi officiosi; a proposito dei quali,
limitatamente al profilo costituzionale e con riguardo alla peculiare
questione che forma oggetto specifico del presente giudizio, si rende
necessaria qualche precisazione.
8. – L’art. 146 della legge n. 267 del 1942 attribuisce al giudice
delegato un potere autorizzatorio ed uno cautelare, entrambi
strumentali a quel giudizio di responsabilità che non soggiace alla
vis attractiva fallimentare ed ha soggetti diversi rispetto a quelli
della procedura concorsuale. Per la sua genericità, la norma stessa
ha dato luogo ad una serie di questioni, oggetto di ampio dibattito
dottrinale e di interpretazioni giurisprudenziali discordi. Si è
fatto, tra l’altro, notare che l’esercizio di un potere eccezionale
ed officioso nel procedimento giudiziario implica che esso sia
ravvisabile nei casi tassativi in cui la norma chiaramente lo
preveda, debba essere interpretato restrittivamente ed applicato con
le garanzie offerte dall’ordinamento; inoltre si è rilevato che la
legge non configura una competenza del giudice delegato in tema di
misure cautelari quando allo stesso sia analogamente richiesta
l’autorizzazione all’esercizio di azioni revocatorie fallimentari.
In ogni caso, chiarire l’effettiva portata dell’art. 146, terzo
comma, della legge fallimentare (che non precisa – a differenza
dell’art. 151, sesto comma – se il potere di disporre le misure
cautelari sia esercitabile ex officio o su istanza di parte), e
stabilire quali effetti siano derivati alla vigenza della norma
denunziata a seguito della sopravvenuta legge n. 353 del 1990,
contenente la disciplina generale dei procedimenti cautelari, resta
affidato all’interpretazione del giudice ordinario e specialmente del
supremo organo di nomofilachia.
9. – In questa sede quindi non è consentito prendere posizione sui
problemi di coordinamento tra la normativa generale e quella
speciale, e ciò non sarebbe comunque necessario dal momento che,
anche a ritenere officioso il potere di disporre misure cautelari di
cui si discute e non applicabile la sopravvenuta disciplina del 1990,
tale interpretazione non appare a questa Corte viziata da una
esasperata concezione pubblicistica che menomi il diritto di tutela
giurisdizionale costituzionalmente garantito.
Va infatti ribadito, anzitutto, che il principio di iniziativa
processuale di parte (art. 2907 del cod. civ.) ammette eccezioni,
sempre che queste non determinino ingiustificate limitazioni al
diritto di difesa. Inoltre, pur se la norma denunziata sia
interpretata come sopra, non è esatta la censura di illegittimità
in quanto al giudice delegato verrebbe in tal modo attribuito il
potere di introdurre, e contestualmente concludere, il procedimento
cautelare. In realtà, l’intervento eccezionale del giudice delegato
per tutelare urgentemente interessi della massa dei creditori può
considerarsi compatibile con la salvaguardia dei principi
costituzionali ritenendo che alla tempestiva limitazione della sfera
giuridica dei soggetti gravati dalla misura cautelare subentri
l’immediata restaurazione di un sufficiente rispetto del
contraddittorio.
Come, invero, si deduce chiaramente dalla stessa rapida sequenza
degli atti processuali posti in essere nel caso di specie, il giudice
dispone le opportune misure cautelari attraverso una serie di
garanzie per il diritto di difesa, sia pure con adattamenti specifici
alla peculiare materia: a) tale potere viene esercitato
“nell’autorizzare l’azione di responsabilità” (art. 146, terzo
comma), e cioè prima della instaurazione del giudizio di merito,
sulla base della dettagliata istanza del curatore circa gli elementi
emersi sulla responsabilità degli amministratori e sul periculum in
mora; b) anche se la misura viene disposta d’ufficio, il giudice
convoca subito le parti per sentirle e decidere conseguentemente se
confermare, modificare o revocare la misura stessa (nella specie, il
giudice delegato – sulle dichiarazioni delle parti – confermava il
decreto nei confronti di alcuni soggetti, mentre lo revocava e lo
dichiarava inefficace nei confronti di altri); c) avverso questi
provvedimenti sono ammessi i normali mezzi di impugnazione, a
cominciare dall’immediato reclamo al collegio; d) quest’ultimo
riesamina ogni aspetto alla luce della discussione dei soggetti
interessati, ed emette una decisione che produce le normali
conseguenze, non esclusa quella relativa alla soccombenza di una
delle parti.
10. – Può allora conclusivamente ritenersi che, nell’esercizio di
questo potere, il giudice delegato, pur tenendo conto degli elementi
risultanti dall’istanza del curatore e con l’ulteriore ausilio di
sommarie e dirette informazioni, agisca non come attore, ma nella sua
veste giurisdizionale e quindi super partes valutando i requisiti che
devono essere la sicura base di qualsiasi provvedimento cautelare (il
fumus boni juris ed un effettivo periculum in mora), sentendo le
parti – seppure dopo l’adozione del provvedimento per non
pregiudicare l’attuazione della misura stessa – e sempre con la
garanzia dei successivi mezzi di impugnazione.
Anche ai fini di questo successivo riesame, il giudice deve
motivare sulla ricorrenza in concreto dei requisiti che legittimano
il provvedimento, nonché sugli elementi di fatto e di diritto (da
versare negli atti del giudizio principale) che giustificano quelle
misure cautelari da lui ritenute “opportune”. Quest’ultima
espressione è stata usata dalla norma non come equivalente di misura
“conveniente” ad una parte, ma nel significato – quello più
obiettivo, che si addice ad un provvedimento giudiziale –
dell’equilibrata adeguatezza (anche nella scelta del tipo e nella
quantità della misura) a tutti gli interessi in gioco, e quindi in
relazione ai diversi soggetti coinvolti, alle responsabilità degli
stessi ed alle varie conseguenze delle misure adottate.
In questo procedimento, pertanto, i soggetti passivi delle misure
cautelari vengono a trovarsi in contraddittorio, non col mero
convincimento di un giudice-attore, ma con gli interessi e le ragioni
sostenute dalla controparte, e con strumenti processuali, certo
peculiari per la specificità della materia, ma pur sempre
sufficienti a garantire la tutela del diritto di difesa, sia sotto il
profilo della terzietà del giudice, sia per l’essenziale dialettica
processuale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 146, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della
amministrazione controllata e della liquidazione coatta
amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo
comma, e 101, secondo comma, della Costituzione dal tribunale di
Pistoia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 maggio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Santosuosso
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria l’8 maggio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola