Sentenza N. 149 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
30/06/1971
Data deposito/pubblicazione
30/06/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
codice penale e dell’art. 586, ultimo comma, del codice di procedura
penale, promosso con ordinanza emessa il 6 maggio 1969 dal pretore di
Catanzaro nel procedimento di esecuzione penale a carico di Furriolo
Armando, iscritta al n. 317 del registro ordinanze 1969 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 243 del 24 settembre 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore
Enzo Capalozza;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso di un procedimento di esecuzione per la conversione di
una pena pecuniaria in detentiva a carico di Armando Furriolo, essendo
risultato che questi era stato dichiarato fallito, il pretore di
Catanzaro, con ordinanza del 6 maggio 1969, ha ritenuto rilevante e, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, non manifestamente infondato
il dubbio di legittimità costituzionale degli artt. 136 del codice
penale e 586 del codice di procedura penale, nei limiti in cui non
prevedono che, nell’ipotesi di fallimento del condannato, si attenda
l’esito della procedura concorsuale prima di far luogo alla
conversione.
Nel richiamare la sentenza n. 29 e la successiva ordinanza n. 59
del 1962, con le quali questa Corte ebbe a dichiarare non fondata
analoga questione diretta a porre in discussione, in via generale,
l’istituto della conversione, il pretore afferma che la questione
attuale, per il profilo sotto il quale è ora prospettata, appare
meritevole di riesame, in considerazione della particolare posizione
nella quale viene a trovarsi il fallito.
Al riguardo, dopo aver fatto presente come, secondo la
giurisprudenza, la pena pecuniaria, per la sua speciale natura, non
possa essere inserita nel passivo fallimentare e vada, pertanto,
convertita, il pretore osserva che, dovendosi, di regola, eseguire la
punizione nel tipo in cui è stata inflitta ed essendo, d’altro canto,
la libertà personale un bene primario rispetto a quello del
patrimonio, la norma denunziata darebbe luogo ad una ingiustificata
disparità di trattamento nei confronti del fallito, posto, come egli
è, per la sua particolare situazione giuridica, nell’impossibilità di
difendere, con il pagamento, la sua libertà. La sentenza dichiarativa
di fallimento, oltre ad essere suscettiva di opposizione e di revoca,
priva l’imprenditore soltanto dell’amministrazione e non della
titolarità del suo patrimonio. Parte del quale può, d’altronde,
tornare nella sua piena disponibilità anche nell’ipotesi di residuo
attivo della procedura concorsuale.
Afferma il pretore che l’eventuale pericolo del maturare del
termine di prescrizione per il differimento della conversione all’esito
dell’anzidetta procedura, è da attribuire ad un difetto del sistema,
che non potrebbe in nessun caso risolversi nella violazione di diritti
costituzionalmente protetti; ed aggiunge che, ad eliminare il sospetto
di illegittimità, non gioverebbe neppure richiamarsi al principio
della stretta personalità della sanzione penale, dato che la somma
dovuta a titolo di pena pecuniaria può essere corrisposta sia dal
civilmente obbligato per l’ammenda, sia da qualsiasi altro soggetto, ai
sensi dell’art. 220 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602, contenente
disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.
Dopo le notificazioni e comunicazioni e la pubblicazione di rito
dell’ordinanza, nel giudizio dinanzi a questa Corte è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 9
settembre 1969, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata non
fondata.
L’Avvocatura generale, nel richiamare le citate decisioni di questa
Corte, rammenta che il fallito – la cui posizione non è diversa da
quella di ogni altro soggetto che sia stato privato dell’immediata
disponibilità dei suoi beni per effetto di una misura cautelare –
rimane in possesso dei suoi beni e diritti di natura personale; e
sostiene che il principio dell’inderogabilità, e quindi anche
dell’indifferibilità, della pena, non potrebbe subire eccezioni, senza
che ne risulti compromessa la sua stessa funzione preventiva e
repressiva.
1. – Il dubbio di legittimità costituzionale, sollevato
dall’ordinanza pretoria in epigrafe, con riferimento all’art. 3 della
Costituzione, investe gli artt. 136, primo comma, del codice penale e
586, quarto comma, del codice di procedura penale, nella misura in cui
non escludono che, nei confronti del fallito, debba attendersi
l’esaurimento della procedura concorsuale prima di addivenire alla
conversione della pena pecuniaria a cui egli sia stato condannato.
2. – È da premettere che la norma effettivamente attinente alla
censura va individuata in quella di diritto sostanziale (art. 136,
primo comma, cod. pen.), rispetto alla quale la norma di diritto
processuale (art. 586, quarto comma, cod. proc. pen.) è solo una
derivazione ed una applicazione, i cui confini vengono (e restano)
delimitati dal contenuto e dalla significazione della prima.
3. – La questione non sorgerebbe, se le pene pecuniarie fossero
ritenute un debito verso l’erario, argomentando dall’art. 189, primo
comma, n. 1, e terzo comma, cod. pen. (che prevede le garanzie
dell’ipoteca legale e del sequestro in favore dello Stato); dall’art.
191 del codice penale (che pone le pene pecuniarie al n. 6, nell’ordine
dei crediti garantiti con ipoteca o sequestro); dall’art. 620, primo
comma, del codice di procedura penale (che fa salva l’azione civile per
ottenere con le norme ordinarie il pagamento delle somme ancora dovute
dopo la ripartizione del ricavato della vendita dei beni ipotecati o
sequestrati); dagli artt. 196 e 197 del codice penale (che dispongono
la previa escussione delle persone rivestite dell’autorità o
incaricate della direzione o vigilanza sul condannato e,
rispettivamente, di determinate persone giuridiche di cui il condannato
abbia la rappresentanza o l’amministrazione o con cui sia in rapporto
di dipendenza); dall’art. 40 delle disposizioni di attuazione del
codice di procedura penale approvate con r.d. 28 maggio 1931, n. 602
(che determina come vada accertata l’insolvibilità del condannato).
Ché, in tale caso, le pene pecuniarie, una volta insinuate,
entrerebbero a far parte del passivo del fallimento: e la conversione
sarebbe scongiurata in caso di completo soddisfacimento; sarebbe
ridotta al residuo in caso di soddisfacimento parziale e resterebbe
integra in caso di totale mancato realizzo in sede di liquidazione e
ripartizione dell’attività fallimentare o di mancanza di attivo.
Tuttavia, la Corte di cassazione è, per consolidata
giurisprudenza, di contrario avviso: sicché al condannato che sia
dichiarato fallito, la pena pecuniaria non pagata viene subito
convertita in detentiva.
4. – Non deve questa Corte smentire la sua precedente
giurisprudenza circa la legittimità costituzionale dell’istituto della
conversione alla stregua del principio della inderogabilità della pena
(sent. n. 29 del 1962 e ord. n. 59 del 1962), bensì prendere in esame
la questione sotto il nuovo e diverso profilo, che si palesa fondato,
dell’art. 3 della Costituzione.
5. – L’art. 3 della Costituzione risulta violato, in quanto si
equiparano due situazioni del tutto diverse, quali sono la
insolvibilità – che è un dato di fatto oggettivo – richiesta
dall’art. 136 del codice penale per la conversione in pena detentiva
della pena pecuniaria non eseguita, e l’insolvenza – mera situazione
contingente, condizionata e, talvolta, provvisoria – nella quale viene
a trovarsi il fallito, posto nella impossibilità giuridica di disporre
dei suoi beni e, quindi, di pagare.
Il condannato, contro il quale si procedesse subito alla
conversione, subirebbe a torto la pena detentiva se il fallimento
venisse in seguito revocato.
La dilazionata convertibilità, invece, consentirebbe allo Stato di
realizzare quanto dovutogli, sia pure con qualche ritardo (e, nel
contempo, resterebbero ferme la finalità e la stessa ragion d’essere,
sul piano di politica criminale, della pena pecuniaria), tanto se, per
la chiusura del fallimento, ne cessino gli effetti sul patrimonio del
fallito (e la chiusura può essere assai rapida: art. 120 r.d. 16 marzo
1942, n. 267, in relazione all’art. 118, n. 1 e n. 2), o il fallimento
sia rimosso con la esecuzione del concordato (art. 136, terzo comma,
stesso r.d.); quanto se il fallito, cui è permessa un’attività
remunerativa anche in pendenza del fallimento (art. 46, n. 2, stesso
r.d.), fosse, poi, in grado di pagare (ed è risaputo che l’erario è
abilitato ad esperire gli atti esecutivi per il realizzo contro un
fallito che abbia disponibilità).
6. – Né rileva l’obiezione che la pena pecuniaria, una volta che
ne sia sospesa la convertibilità in pendenza del fallimento, possa,
nel frattempo, prescriversi, dappoiché, da un lato, la estinzione per
decorso del tempo richiede non meno di dieci anni per la multa e di
cinque anni per l’ammenda e, talora, non ha affatto luogo (artt. 172 e
173 cod. pen.); dall’altro, non è lecito addurre un siffatto
(eventuale) inconveniente a suffragio della legittimità costituzionale
di una norma.
7. – Deve, per altro, aversi riguardo all’impossibilità giuridica
sopravvenuta e, pertanto, contenersi il divieto di conversione alle
condanne a pena pecuniaria anteriori alla dichiarazione di fallimento,
perché sarebbe irrazionale – e finirebbe coll’apparire un incentivo
alla violazione della legge penale – che la inderogabilità della pena
trovasse un correttivo a favore di chi, essendo in istato di
fallimento, commetta dei reati per i quali riporti condanna alla multa
o alla ammenda.
8. – La declaratoria di parziale illegittimità dell’art. 136,
primo comma, del codice penale esaurisce la materia del contendere:
l’accolta accezione dell’insolvibilità si trasferisce automaticamente
nell’art. 586, quarto comma, del codice di procedura penale e va
utilizzata per la interpretazione di questo, nei sensi di cui sopra, e
per la sua portata applicativa.
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 136, primo
comma, del codice penale, nella parte in cui ammette, per i reati
commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di
fallimento, la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva,
prima della chiusura della procedura fallimentare;
b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 586, quarto comma, del codice di procedura penale, sollevata,
con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.