Sentenza N. 152 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
30/06/1971
Data deposito/pubblicazione
30/06/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
Friuli-Venezia Giulia, notificato il 28 ottobre 1970, depositato in
cancelleria il 31 successivo ed iscritto al n. 23 del registro ricorsi
1970, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della nota 31
agosto 1970, n. 24296, dell’Intendenza di finanza di Udine in materia
di competenza a riscuotere i canoni per le piccole derivazioni d’acqua.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore
Luigi Oggioni;
uditi l’avv. Gaspare Pacia, per la Regione, ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Con nota del 31 agosto 1970, n. 24296, diretta al Presidente della
Giunta della Regione Friuli-Venezia Giulia, l’Intendenza di finanza di
Udine nell’informare che la Direzione generale del demanio, su conforme
parere dell’Avvocatura generale dello Stato, aveva confermato le
direttive a suo tempo impartite circa la spettanza allo Stato dei
canoni afferenti alle concessioni di piccole derivazioni d’acqua
effettuate nella Regione, faceva rilevare che la Regione stessa
continuava ed aveva continuato nelle more del carteggio precedentemente
svoltosi al riguardo, a disporre nei propri decreti di concessione che
il versamento dei canoni relativi al periodo successivo al 1 novembre
1965 venisse effettuato presso le casse regionali. Ciò premesso, con
la nota citata l’Intendenza prospettava l’opportunità di non disporre
più oltre l’incameramento alla Regione dei predetti canoni demaniali,
non potendosi più giustificare ormai l’atteggiamento di tolleranza
osservato fino ad allora dall’Intendenza stessa “per evitare di rendere
pubblico un conflitto di attribuzioni fra organi statali e regionali”,
e informava che, in caso diverso, si sarebbe vista costretta a
“rivolgersi direttamente ai concessionari per richiedere il versamento
dei canoni all’erario dello Stato”.
Il Presidente della Giunta regionale pro tempore, con ricorso
notificato il 28 ottobre 1970, ha sollevato conflitto di attribuzione
con lo Stato in relazione alla citata nota dell’Intendenza di finanza
di Udine.
Si afferma nel ricorso che la Regione, ai sensi degli artt. 5, n.
14, e 8 dello Statuto regionale, ha competenza legislativa secondaria e
correlativa potestà amministrativa in materia di “utilizzazione delle
acque pubbliche, escluse le grandi derivazioni”. In applicazione di
tali precetti e dell’art. 22 delle norme di attuazione dello Statuto,
approvate con d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116, la Regione aveva
effettivamente fin dall’entrata in vigore di tali ultime norme, cioè
dal novembre 1965, sempre esercitato la propria potestà amministrativa
per quanto concerne l’utilizzazione delle acque predette, per tutta
l’estesa gamma dei relativi usi, ivi comprese le attribuzioni relative
alla emanazione dei decreti di concessione di piccole derivazioni, e la
determinazione e la riscossione dei relativi canoni, che ne
costituirebbero elemento essenziale.
La nota dell’Intendenza, pertanto, nella parte in cui si invita a
non riscuotere i canoni di utenza, e nella parte in cui si prospetta
l’intervento diretto dell’Intendenza presso i concessionari, in
contrasto con le statuizioni contenute nei relativi decreti di
concessione, invaderebbe la sfera di competenza della Regione, in
violazione delle già citate norme statutarie e di attuazione.
A sostegno di tale assunto si osserva nel ricorso che la pretesa
dello Stato si fonderebbe su un non accettabile concetto della
demanialità delle acque, poiché mal si adatterebbe alla natura delle
medesime quel “diritto eminente e reale” cui fanno riferimento le
argomentazioni svolte dall’Avvocatura nel suo parere, diritto di cui,
sempre secondo il citato parere rimarrebbe titolare lo Stato, non
risultando dallo Statuto l’attribuzione di un demanio idrico alla
Regione, salvo che per le acque minerali e termali (Statuto art. 55, n.
2). L’acqua, invero, quale elemento primario e vivo non sarebbe
suscettibile di proprietà esclusiva, ma piuttosto di diritto di
utilizzazione, e potrebbero ritenersi riservati allo Stato solo il
potere di polizia e quello di utilizzazione delle grandi derivazioni
(art. 5, n. 14, Statuto regionale), mentre tutti gli altri poteri di
utilizzazione sarebbero di spettanza della Regione. Alla quale, secondo
il ricorso, dovrebbe così riconoscersi una sorta di contitolarità del
demanio idrico, in dipendenza appunto dell’attribuzione statutaria
della quasi totalità dei poteri di utilizzazione del medesimo. Quanto
meno, “anche a volere inquadrare tali poteri nell’ambito dell’art. 825
c.c.”, la Regione sarebbe titolare di un complesso di diritti demaniali
sulle acque fluenti nel suo territorio, e pertanto non si
comprenderebbe perché i canoni di utenza dovrebbero essere collegati
al supposto diritto eminente dello Stato e non piuttosto ai diritti di
utilizzazione spettanti alla Regione.
D’altra parte, poiché non è contestato che alla Regione spetti il
potere di concessione relativamente alle piccole derivazioni, ed è
pacifico il legame esistente fra la concessione e il canone, che
costituiscono le necessarie componenti del rapporto di concessione,
indispensabili per il conseguimento del risultato finale, sarebbe
strano che il diritto al canone di utenza sorgesse a favore dello
Stato, estraneo a tale rapporto, quasi si trattasse di una stipulazione
a favore di terzi.
Nessuna argomentazione poi potrebbe trarsi a favore dello Stato
dall’art. 49, n. 3, dello Statuto, secondo cui “nove decimi dei canoni
per le concessioni idroelettriche” spettanti allo Stato sono devolute
alla Regione, senza distinguere fra grandi o piccole derivazioni.
La norma invero avrebbe esclusivamente riguardo alle grandi
derivazioni idroelettriche, poiché solo i canoni relativi
costituirebbero “proventi dello Stato” ai quali appunto la citata norma
si riferisce.
La Regione conclude pertanto chiedendo che la Corte annulli l’atto
impugnato e dichiari che il potere di riscuotere i canoni di utenza per
le piccole derivazioni d’acqua pubblica, nell’ambito del territorio
regionale, spetta alla Regione medesima.
Avanti alla Corte costituzionale si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, depositando deduzioni difensive il 16 novembre 1970.
L’Avvocatura pone in evidenza che la Regione Friuli-Venezia Giulia,
a differenza di altre regioni a statuto speciale, non ha un demanio
idrico, fatta eccezione per le acque minerali e termali. La pretesa
contitolarità sul demanio idrico sarebbe pertanto una mera asserzione,
oltre tutto in contrasto con i principi generali sulla demanialità dei
beni, per cui la titolarità del demanio non può essere che unica ed
appartiene all’ente al quale è tassativamente riconosciuta dalla
legge.
La titolarità sul corso d’acqua comporta la piena disponibilità
delle acque, ivi compreso lo sfruttamento relativo, che si
realizzerebbe con l’incameramento dei canoni di utenza. I poteri
attribuiti statutariamente alla Regione in materia di piccole
derivazioni mirerebbero pertanto esclusivamente a garantire
l’adattamento alle esigenze locali del sistema statale di utilizzazione
delle acque, con esclusione quindi dell’acquisto dei relativi proventi.
Il canone di utenza, d’altra parte, sarebbe stabilito dalla legge
in funzione non solo e non tanto del riconoscimento dei poteri
pubblicistici dell’Amministrazione sulle acque, ma della quantità di
acqua utilizzata, cioè in funzione della produttività del bene acqua,
la quale sarebbe inscindibilmente connessa con il relativo ius
proprietatis. Il collegamento fra titolarità del diritto dominicale
sulle acque e devoluzione del canone troverebbe, secondo l’Avvocatura,
implicita conferma nella sentenza n. 46 del 1962 della Corte, ove si
sarebbe affermato che la potestà legislativa regionale del
Trentino-Alto Adige in materia di utilizzazione delle acque comprende
sia la determinazione dei vari modi di sfruttamento sia la
determinazione del canone a carico dei concessionari, senza negare che
la titolarità dei canoni resta pur sempre connessa alla titolarità
del demanio idrico cui essi si riferiscono. La determinazione dei
canoni non potrebbe infatti essere rimessa alla Regione, appunto in
funzione dell’adattamento alle esigenze locali, senza che ciò comporti
necessariamente il riferimento del canone dallo Stato, titolare del
bene, alla Regione.
E d’altra parte la ripartizione dei proventi prevista dal citato
art. 49 dello Statuto, rifletterebbe i canoni per concessioni
idroelettriche, cioè tanto per le grandi quanto per le piccole
derivazioni, e presupporrebbe così l’appartenenza di tutti i canoni
allo Stato.
Chiede pertanto respingersi il ricorso.
La difesa della Regione Friuli-Venezia Giulia ha presentato nei
termini una memoria illustrativa con cui riafferma le tesi già
prospettate, svolgendole ampiamente.
In particolare, nella memoria, si rileva che, anche se, in non
concessa ipotesi, i canoni di utenza delle acque pubbliche dovessero
essere in definitiva devoluti allo Stato, ciò non escluderebbe la
competenza della Regione a curare le operazioni di riscossione, che
rientrerebbero comunque nell’ambito della potestà amministrativa
regionale in materia di utilizzazione delle acque pubbliche, salvo
successivo accredito allo Stato dei relativi importi in sede di
regolazione delle reciproche partite di dare ed avere.
1. – Il conflitto di attribuzione, sollevato, nei confronti dello
Stato, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, concerne il potere di
riscossione e di devoluzione dei canoni dovuti dagli utenti,
concessionari di “piccole derivazioni” di acque pubbliche.
Secondo la Regione, tanto la riscossione che l’incameramento dei
canoni sarebbero di sua spettanza, in dipendenza dell’art. 5 capoverso
n. 14 e dell’art. 8 dello Statuto speciale, che le conferiscono
potestà legislativa e di esercizio di funzioni amministrative in
materia di “utilizzazione” di acque pubbliche, escluse le grandi
derivazioni: nonché in dipendenza delle norme di attuazione dello
Statuto stesso (art. 22 d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116) che, in
materia, conferiscono alla Amministrazione regionale i compiti degli
organi centrali e periferici dello Stato.
2. – La Corte ritiene di procedere, nell’ordine, anzitutto
all’esame del punto riguardante la spettanza dei canoni di concessione,
facendo poi seguire l’esame sulla competenza a provvedere alla loro
riscossione.
Un dato che va posto in evidenza ed in particolare considerazione
è quello dell’inesistenza, nell’ambito della Regione Friuli-Venezia
Giulia, di un demanio idrico regionale. A differenza di quanto
disposto in altri statuti (in quello per la Sicilia ed in quello per la
Sardegna, dove la devoluzione, per successione, alla Regione di beni
demaniali statali, comprese le acque pubbliche, è espressamente
dichiarata) lo Statuto Friuli-Venezia Giulia circoscrive la
possibilità di trasferimento alla Regione a determinati beni, elencati
tassativamente negli artt. 55 e 56 e facenti parte del patrimonio
indisponibile e disponibile: al quale elenco è del tutto estranea la
materia delle acque pubbliche.
Situazione uguale a quella della Regione Friuli-Venezia Giulia
esiste anche per la Regione Trentino-Alto Adige, dove, come
riconosciuto da questa Corte con sentenza n. 46 del 1962, “le acque
pubbliche, a qualunque uso destinate, continuano a far parte del
demanio statale”.
Da questa premessa, non può che derivare, in via di principio, la
conseguenza che la titolarità del canone dovuto dai concessionari va
riconosciuta coincidente e connessa con la titolarità del bene, da cui
deriva e su cui incide.
Tale canone, sia se considerato, secondo particolari opinioni, di
natura tributaria e più precisamente di tassa, sia se considerato come
corrispettivo pecuniario dell’uso del beneacqua formante oggetto di
concessione, resta, comunque, collegato al potere eminente di dar luogo
allo sfruttamento del bene stesso, secondo la sua capacità intrinseca
di produttività ed in funzione dell’attitudine a conseguire quei fini
di “pubblico generale interesse” evidenziati nella legge fondamentale
sulle acque (t.u. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 1).
3. – La difesa della Regione obietta e sostiene che il rigore
logico e la conseguenzialità dell’ora cennato principio, debbano
subire eccezione nel senso della sua inapplicabilità nel caso in cui,
come per la Regione Friuli-Venezia Giulia, le sia conferita potestà
legislativa e amministrativa in materia di “utilizzazione delle acque
pubbliche escluse le grandi derivazioni” (artt. 5-8 Statuto e 22 Norme
di attuazione). Secondo la Regione, la devoluzione dei canoni a suo
favore, dovrebbe essere considerata come la necessaria integrazione e
conclusione della competenza ad essa riservata in materia.
Questo assunto implica che siano anzitutto precisati il contenuto
ed i limiti della predetta “utilizzazione” rispetto al diritto ai
canoni percepiti dalle concessioni.
Costituisce dato positivo e incontroverso che alla Regione spetti
di provvedere alla formazione del “disciplinare” di concessione di
piccole derivazioni avente per oggetto, secondo le indicazioni
dell’art. 40 del testo unico del 1933, tutto ciò che riguardi
quantità, modi, condizioni della raccolta, regolazione, derivazione,
condotta ed uso delle acque, nonché spetti di provvedere, per evidente
connessione e unitarietà di apprezzamento in materia, sulla misura del
canone dovuto dai concessionari. Trattasi, in sostanza, di stabilire i
“vari modi di sfruttamento delle acque”, che questa Corte, con la
citata sentenza n. 46 del 1962, ha indicato, in via generale e sia pure
ai fini di altro oggetto del decidere, come costitutivi del concetto di
utilizzazione: ciò senza includervi quello dell’incameramento dei
rispettivi canoni.
L’affidamento del potere di utilizzazione delle acque sta,
pertanto, a significare che alla Regione è assegnato il compito di
disciplinarne le modalità di uso e consumo, senza con ciò superare
l’osservanza di principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato, entro i limiti previsti dall’art. 5 dello Statuto de quo.
Si ha conferma dell’esattezza di quanto ora detto col rilevare che
dagli artt. 48 e seguenti dello Statuto si evince che di nessun cespite
che si identifichi con i canoni di concessione è prevista la
devoluzione a favore della finanza regionale. Soltanto l’art. 49, n.
3, dello Statuto stesso dispone la devoluzione alla Regione di nove
decimi dei canoni per le concessioni idroelettriche. Ma, posto che
queste particolari concessioni possono riguardare anche le piccole
derivazioni, oltre che le grandi, ciò è dimostrativo che la
percezione dei canoni spetti di regola allo Stato, salvo nel caso
predetto, in via di eccezione, la cessione di una quota percentuale
alla Regione.
Di conseguenza, l’assunto della Regione, contrario a ritenere
dissociati i compiti ad essa riservati e la percezione del canone, non
trova riscontro nel sistema e va disatteso, con pronuncia che dichiari
spettare il canone allo Stato.
4. – Diversa statuizione richiede l’altro punto riguardante la
competenza all’esazione dei canoni.
La Corte ritiene che, senza contraddire ai criteri indicati nel
numero precedente, detta competenza vada riconosciuta di spettanza
della Regione.
Trattasi di attività funzionale amministrativa contabile, che
rientra tra quelle assegnate statutariamente alla Regione.
Nella serie di adempimenti, per disciplinare formalmente tutte le
modalità di concessione, la riscossione viene a collocarsi, accanto
alla sua determinazione, come chiusura del ciclo di attività riservato
alla Regione e come mezzo per contribuire al buon andamento
dell’organizzazione amministrativa.
La effettiva devoluzione del canone a chi di ragione, è poi
problema di altra natura, come si è spiegato al numero precedente.
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara che spetta allo Stato la devoluzione dei canoni
attinenti alla concessione di piccole derivazioni d’acqua nel
territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia. Respinge, di
conseguenza, su questo punto il ricorso proposto, come in narrativa,
dalla Regione stessa in relazione alla Nota 31 agosto 1970, n. 24296,
dell’Intendente di finanza di Udine;
b) dichiara che spetta alla Regione Friuli-Venezia Giulia
provvedere alle operazioni di riscossione dei predetti canoni e, in
accoglimento del ricorso della Regione, annulla la suindicata Nota
intendentizia limitatamente a tal punto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.