Sentenza N. 155 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
22/12/1969
Data deposito/pubblicazione
22/12/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/12/1969
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERA – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
legge 18 marzo 1968, n. 238, e degli artt. 20, 21 e 23 del D.P.R. 27
aprile 1968, n. 488, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanze emesse il 2 agosto 1968 dal pretore di Venezia nei
procedimenti civili vertenti rispettivamente tra Fornezza Giuseppe e la
Procuratoria di San Marco di Venezia e tra Vitturi Bruno e il Banco San
Marco di Venezia, iscritte ai nn. 203 e 204 del Registro ordinanze 1968
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12
ottobre 1968;
2) ordinanza emessa il 13 luglio 1968 dal pretore di Firenze nei
procedimenti civili riuniti vertenti tra Casini Giorgio ed altri e la
società per azioni Officine Galileo di Firenze, iscritta al n. 206 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968;
3) ordinanza emessa il 28 agosto 1968 dal pretore di Cagliari nel
procedimento civile vertente tra Urru Luigi e la ditta Supertravet,
iscritta al n. 226 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 275 del 26 ottobre 1968;
4) ordinanza emessa il 25 novembre 1968 dal pretore di Firenze nei
procedimento civile vertente tra Alderighi Fosco e la società Manetti
e Roberts’ iscritta al n. 263 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969;
5) ordinanza emessa il 9 novembre 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento civile vertente tra Chiantoni Renato, la società Stanley
Kramer Productions e l’E.N.P.A.L.S., iscritta al n. 47 del Registro
ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 78 del 26 marzo 1969;
6) ordinanze emesse il 15 marzo 1969 dal pretore di Riva del Garda e
il 18 marzo 1969 dal tribunale di Reggio Emilia nei procedimenti civili
vertenti rispettivamente tra Leonardi Ernesto e la ditta Fornaci
Carloni e tra Iarabitza Guido Angelo e l’Istituto nazionale della
previdenza sociale, iscritte ai nn. 172 e 189 del Registro ordinanze
1969 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 145
dell’11 giugno 1969;
7) ordinanza emessa il 10 marzo 1969 dal pretore di Roma nel
procedimento civile vertente tra Pettiti Carlo e l’Automobile Club di
Roma, iscritta al n. 192 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 18 giugno 1969.
Visti gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza
sociale e di Fomezza Giuseppe, Vitturi Bruno, Casini Giorgio ed altri,
Urru Luigi, Alderighi Fosco, Chiantoni Renato e Iarabitza Guido Angelo;
udito nell’udienza pubblica del 15 ottobre 1969 il Giudice relatore
Giuseppe Verni;
uditi gli avvocati Giovanni Dalla Santa, Benedetto Bussi, Camillo
Andreoni, Leopoldo Piccardi, Paolo Barile e Franco Agostini, per le
parti private, l’avv. Giorgio Cannella, per l’I.N.P.S., e il sostituto
avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri.
In esecuzione della delega conferita al Governo dall’art. 5 della
legge 18 marzo 1968, n. 238, ed avente per oggetto la emanazione di
norme intese a stabilire che, con decorrenza dal 1 maggio 1968, le
pensioni di vecchiaia, di anzianità e di invalidità, non sono
cumulabili, totalmente o parzialmente, a seconda dei casi, con la
retribuzione, eccezion fatta per i lavoratori addetti a lavori agricoli
subordinati, il D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, sancisce, all’art. 20,
tale divieto di cumulo e prescrive, all’art. 21, che il datore di
lavoro ha l’obbligo di detrarre dalla retribuzione, al netto delle
integrazioni per carichi di famiglia, una somma pari all’importo della
pensione o della quota di essa non dovuta a sensi dell’art. 20, e di
versarla all’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Attenendosi a tali norme la società per azioni Officine Galileo,
nel corrispondere la retribuzione mensile ai propri dipendenti Casini
Giorgio, Cecconi Giuseppe, ed altri, i quali sono beneficiari – a sensi
dell’art. 13 della legge 21 luglio 1965, n. 903 – di una pensione di
anzianità, detrasse l’importo della pensione stessa, al netto delle
maggiorazioni per carichi di famiglia, e lo versò all’Istituto
nazionale per la previdenza sociale. Ma, con separati atti di
citazione, i suindicati impiegati hanno citato le Officine Galileo
davanti al pretore di Firenze ed hanno eccepito l’illegittimità
costituzionale degli articoli della legge e del decreto presidenziale
sopraindicati in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della
Costituzione.
Il pretore, con ordinanza del 13 luglio 1968, ha ritenuto la
questione non manifestamente infondata e ha rimesso gli atti a questa
Corte. La stessa questione è stata sollevata con ordinanze 25 novembre
1968 del pretore di Firenze; 9 novembre 1968 e 10 marzo 1969 dal
pretore di Roma; 2 agosto 1968 del pretore di Venezia; 15 marzo 1969
del pretore di Riva del Garda; 28 agosto 1968 del pretore di Cagliari;
e 18 marzo 1969 del tribunale di Reggio Emilia.
Secondo le ordinanze di rimessione le norme impugnate sarebbero in
contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3, primo
comma, della Costituzione, perché, nell’ambito della stessa categoria
di pensionati dell’I.N.P.S., stabiliscono una discriminazione fra
pensionati che non lavorano, ai quali viene corrisposta l’intera
pensione, e pensionati che continuano a lavorare, ai quali viene
operata una detrazione. La circostanza di continuare a lavorare dopo
conseguito il diritto alla pensione non sarebbe di per sé sola idonea
a giustificare tale discriminazione; la quale si risolverebbe in un
trattamento più favorevole per coloro che, non volendo più lavorare,
percepiscono l’intera pensione; e la stessa circostanza sarebbe un
fatto del tutto estraneo al meccanismo previdenziale, posto che
l’incremento del reddito del pensionato che lavora ha la sua causa in
un rapporto di lavoro, che nulla ha a che vedere con il diritto alla
pensione già maturata. Il trattamento sarebbe ingiustamente
differenziato anche rispetto a quei pensionati della stessa previdenza
sociale che si dedicano a lavori agricoli alle dipendenze di altri,
rispetto ai titolari di pensione a carico di enti pubblici diversi
dalla previdenza sociale, e rispetto agli impiegati dello Stato per i
quali tutti non sussiste alcun divieto di cumulo fra pensione e
retribuzione.
Le norme impugnate violerebbero, altresì, l’art. 36 della
Costituzione, in quanto impongono una diminuzione (o addirittura una
perdita) della retribuzione per ragioni del tutto estranee alla
quantità e qualità del lavoro prestato; ed in quanto quel che il
lavoratore ottiene sotto forma di rateo di pensione concreta un
pagamento di retribuzione effettuato da persona diversa del datore di
lavoro, con vincoli di ordine tecnico, quale il pagamento bimestrale,
non consentiti per la retribuzione. Poiché, anche secondo la
giurisprudenza di questa Corte, la pensione altro non è che una
retribuzione differita, appare illegittima la disciplina in base alla
quale il pensionato è privato della pensione già maturata ed
acquisita, sol perché continua a lavorare, e cioè perché esercita un
diritto ed adempie un dovere, previsti dalla Costituzione.
Per ultimo, sempre secondo le ordinanze di rimessione, imponendo al
lavoratore di rinunziare ad una parte della pensione, od anche
ponendogli l’alternativa fra il diritto al lavoro ed il diritto ad una
parte di pensione, le norme impugnate verrebbero a violare gli artt. 4,
35, primo comma, e 38 della Costituzione, i quali sanciscono il diritto
al lavoro, la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni
ed il diritto dei lavoratori a che siano preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di malattia, di invalidità
e vecchiaia.
Le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
Nel giudizio innanzi questa Corte si sono costituiti l’istituto
nazionale per la previdenza sociale, ed i signori Fornezza Giuseppe,
Vitturi Bruno, Urru Luigi, Iarabitza Guido Angelo, Giorgio Casini,
Renato Melani, Raffaello Montanarini, Giuseppe Cecconi, Fosco
Alderighi, Renato Chiantoni. È intervenuto anche il Presidente del
Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato.
La difesa dell’I.N.P.S. osserva che il principio di uguaglianza non
è violato dalle norme impugnate, dal momento che sussistono motivi
attendibili per distinguere situazioni che, pur partendo da uguali
presupposti, vengono poi ad assumere note distintive per particolari
atteggiamenti soggettivi ed oggettivi. Il pensionato che lavora si
distingue da quello che non esercita attività lavorativa, per la
oggettiva diversità di settori economico sociali e di lavoro, che sono
stati presi in considerazione dal legislatore. L’art. 4 della
Costituzione, poi, consacra il principio di libertà della attività
lavorativa, ma questa libertà trova contemperamenti al contatto di
sfere concorrenti che siano ugualmente meritevoli di protezione
costituzionale. Ed anche il principio della tutela del diritto al
lavoro è soggetto a limiti imposti dal perseguimento di fini sociali,
che il legislatore può, di volta in volta, valutare e considerare
preminenti sugli interessi individuali.
Osserva, poi, che l’art. 35 della Costituzione ha soltanto una
funzione introduttiva alle successive disposizioni del titolo terzo, e
non vuole determinare i modi e le forme della tutela del lavoro, ma
solo enunciare il criterio ispiratore comune alle disposizioni
successive. E, per quanto riguarda l’art. 36, la detrazione dalla
retribuzione della quota di pensione non dovuta è un mezzo di recupero
della pensione e non una sostanziale riduzione della retribuzione.
Anche l’Avvocatura generale dello Stato ritiene infondata la
questione proposta, ed osserva – fra l’altro – che la legge n. 238 del
1968 ed il D.P.R. n. 488 del 1968 hanno migliorato il sistema
pensionistico, aumentando le pensioni di un importo medio del 10 per
cento ed assicurando una elevata pensione di vecchiaia. Per il
finanziamento delle notevoli nuove spese, si è fatto ricorso anche
alle possibili economie realizzabili all’interno del sistema, e cioè
alla abolizione della pensione di anzianità ed al divieto di cumulo
fra trattamento di attività lavorativa e trattamento di quiescenza.
Le norme impugnate, quindi, si sono rese necessarie per l’osservanza
del disposto dell’art. 81 della Costituzione.
Sono state presentate memorie dall’Avvocatura generale dello Stato,
dall’Istituto nazionale della previdenza sociale, e dai difensori di
Guido Angelo Iarabitza, e di Fomezza Giuseppe, Vitturi Bruno, e Urru
Luigi.
Poiché nel frattempo è intervenuta la nuova legge 30 aprile 1969,
n. 153, la quale ha modificato in senso più favorevole al lavoratore
le norme impugnate ed ha disciplinato diversamente il divieto di cumulo
delle pensioni con la retribuzione, pur mantenendolo fermo, la difesa
dello Iarabitza e l’Avvocato generale dello Stato hanno fatto presente
che la questione di legittimita costituzionale sollevata dalle
ordinanze in esame non ha perduto di rilevanza, dato che le nuove norme
lasciano sotto l’impero della precedente disciplina tutto il periodo 1
maggio 1968-1 maggio 1969.
1. – Le nove ordinanze di rimessione riguardano la stessa questione
di legittimità costituzionale, e pertanto i relativi procedimenti
vanno riuniti e definiti con unica sentenza.
2. – Viene denunziata l’illegittimità dell’art. 5 della legge 18
marzo 1968, n. 238, che conferisce al Governo la delega ad emanare
norme intese a stabilire che – con decorrenza dal l maggio 1968 – le
pensioni dell’I.N.P.S. di vecchiaia, di anzianità e di invalidità non
sono cumulabili, totalmente o parzialmente, con la retribuzione
percepita dai pensionati che continuano a lavorare; e vengono
denunziati gli artt. 20, 21 e 23 della legge delegata (D.P.R. 27 aprile
1968, n. 488) che, fra l’altro, prescrivono che il datore di lavoro ha
l’obbligo di detrarre dalla retribuzione una somma pari all’importo
della pensione (o della quota di essa) non dovuta e di versarla
all’Istituto nazionale della previdenza sociale. Secondo le ordinanze,
il divieto di cumulo della pensione con la retribuzione non soltanto
crea un trattamento differenziato rispetto ad altre categorie, ma pone
altresì una alternativa fra diritto al lavoro e diritto alla pensione
già maturato ed acquisito, mentre la particolare disciplina si traduce
in una diminuzione della retribuzione per ragioni del tutto estranee
alla quantità e qualità del lavoro prestato. Dal che deriverebbe la
violazione degli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione.
Le norme impugnate sono state modificate dalla legge 30 aprile 1969,
n. 153, in senso più favorevole ai pensionati, ma la questione
continua ad avere rilevanza per il periodo 1 maggio 1968-1 maggio 1969,
in quanto da quest’ultima data trova applicazione la nuova legge.
3. – Va precisato, preliminarmente, che la retribuzione non subisce
di fatto alcuna riduzione per effetto del divieto di cumulo. Se è pur
esatto che il datore di lavoro opera una trattenuta sul salario, il
relativo importo viene indirettamente restituito al lavoratore giacché
la pensione, invece di essere ridotta, è corrisposta per intero. Il
legislatore ha fatto ricorso al sistema del pagamento integrale della
pensione con rimborso all’I.N.P.S. della quota non dovuta, allo scopo
di evitare riliquidazioni e continui conteggi, realizzando in tal modo
economia di lavoro, risparmio di tempo ed innegabile vantaggio per il
pensionato che, in caso diverso, si vedrebbe sospendere per lungo tempo
il pagamento della pensione ad ogni cambiamento della posizione
lavorativa. E, se ha fatto obbligo al datore di lavoro (piuttosto che
allo stesso pensionato) di effettuare il rimborso all’I.N.P.S., il
legislatore si è avvalso dei suoi poteri discrezionali scegliendo il
mezzo ritenuto migliore e più sicuro. Non hanno fondamento le critiche
mosse a siffatta disciplina: il pensionato otterrebbe per via della
pensione quanto gli verrebbe detratto dalla retribuzione; il pagamento
effettuato con la pensione si ricollegherebbe a ragioni creditizie che
nulla hanno a che vedere col compenso dovuto per la prestazione della
attività lavorativa; il pagamento viene effettuato, in parte
bimestralmente, da persona diversa dal datore di lavoro, ecc. Esse non
tengono conto che, in materia di cumulo, la pensione e la retribuzione
hanno zone di interferenza che occorre disciplinare, e non danno il
debito peso alle necessità derivanti dalla difficoltà di regolare
uniformemente un grande numero di casi di singoli lavoratori con
posizioni assicurative svariatissime. Comunque, non si può affermare
che detta disciplina sia violatrice dei principi costituzionali
invocati.
Le norme impugnate attengono soltanto al trattamento previdenziale;
ed è sulla pensione che si opera la riduzione.
4. – In merito a tale riduzione, va osservato che – quale che sia la
natura giuridica della pensione – è certo che essa assolve ad una
funzione previdenziale. Il suo scopo è quello di sopperire al rischio
del lavoratore di perdere o diminuire il proprio guadagno e di mancare
dei mezzi di sussistenza, quando, col venire meno delle forze per
invalidità o vecchiaia, non è più in grado di lavorare. Assicurando
al lavoratore una entrata periodica atta a fronteggiare i bisogni di
vita nel periodo successivo alla cessazione del lavoro, la pensione
deve per sua natura collegarsi nel quantum alla particolare situazione
personale e familiare degli aventi diritto. Diventa definitiva soltanto
dopo la cessazione completa del lavoro, ma, se maturata ed acquisita
anteriormente a tale momento, può essere riliquidata ed aumentata per
effetto delle ulteriori contribuzioni conseguenti alla successiva opera
prestata. Nel tempo stesso, il legislatore tiene conto del guadagno
derivante dalla ulteriore attività lavorativa e della variazione in
meglio dello stato di bisogno per le esigenze di vita del pensionato,
ed opera perciò una riduzione. Per tali motivi non contrasta con
l’art. 36 né con l’art. 38 della Costituzione il fatto che il
trattamento pensionistico venga ridotto perché con esso concorre il
godimento di un trattamento per attività lavorativa, che viene a
ridurre l’esigenza previdenziale in funzione della quale fu predisposta
la provvidenza pensionistica (v. sentenza di questa Corte n. 105 del
1963).
5. – Affermata tuttavia la legittimità del divieto di cumulo fra
pensione e retribuzione, la Corte ritiene che il precetto dell’art.
36, che assicura al lavoratore una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro, e quello dell’art. 38 della
Costituzione relativo ai mezzi adeguati alle esigenze di vita del
pensionato sono violati dalle norme impugnate nella parte in cui esse
dispongono che non sono cumulabili totalmente o parzialmente con la
retribuzione le pensioni di vecchiaia. La Corte ritiene di potere
sindacare il modo di esercizio della discrezionalità legislativa per
quel che riguarda la congruità della riduzione della pensione rispetto
agli elementi essenziali del rapporto sociale creato dagli artt. 36 e
38 della Costituzione, in quanto il riferimento dell’art. 36 alla
proporzione della retribuzione dovuta al prestatore d’opera
costituisce, sotto un particolare aspetto, sviluppo del principio
generale di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Orbene, non sembra razionale che al pensionato venga tolta una parte di
quello che gli sarebbe spettato in base ai contributi versati, i quali,
se accantonati nel corso degli anni, avrebbero raggiunto somme
notevoli.
Per quanto, in un sistema mutualistico e di solidarietà sociale
quale è quello dell’I.N.P.S., i contributi del lavoratore servano per
il conseguimento di finalità che trascendono gli interessi dei singoli
ed abbiano carattere generale, pur tuttavia è innegabile che essi
danno vita ad un diritto del prestatore d’opera a conseguire le
prestazioni previdenziali: il che vuol significare che il legislatore
non può – senza violare quel principio di proporzionalità che
sorregge il sistema pensionistico – non tener conto delle contribuzioni
dei prestatori d’opera. Lo stesso legislatore ha riesaminato questo
problema del cumulo per dargli una soluzione più equa, e, con la legge
30 aprile 1969, n. 153, ha disposto che, a decorrere dal 1 maggio 1969,
non sono cumulabili, con la retribuzione, nella misura del 50 per cento
del loro importo, le quote eccedenti il trattamento minimo delle
pensioni di invalidità e vecchiaia. Or, mentre è evidente la
ragionevolezza della nuova norma, la quale non toglie al pensionato
più di quello che gli sarebbe approssimativamente spettato per effetto
dei contributi versati, lo stesso non può dirsi per le norme
impugnate, le quali pertanto vanno dichiarate illegittime.
Per quanto riguarda invece le pensioni di invalidità e di
anzianità, la questione non è fondata. Poiché secondo la legge del
1968 le pensioni di invalidità sono ridotte di una quota pari ad un
terzo del loro ammontare, non si riscontra la lamentata sperequazione
rispetto ai contributi versati.
Le particolari caratteristiche, poi, della pensione di anzianità
consentono il divieto totale del cumulo con la retribuzione. Tale
pensione infatti viene liquidata dopo 35 anni di contribuzione,
indipendentemente dal raggiungimento della età pensionabile, dal che
deriva una sensibile riduzione dei limiti di età. È pertanto un
beneficio concesso al lavoratore, e, come tale, pub essere limitato al
solo caso di cessazione effettiva del lavoro.
6. – A In riferimento al solo art. 3 della Costituzione, la
questione non è fondata. Le differenti condizioni soggettive ed
oggettive dei soggetti all’assicurazione generale obbligatoria contro
la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, nonché le differenze
notevolissime delle posizioni assicurative delle varie categorie non
consentono una uniforme disciplina, che non distingua fra situazione e
situazione e tratti tutti alla stessa stregua. Le discriminazioni
lamentate dalle ordinanze sono necessarie per evitare un livellamento
generale che riuscirebbe ingiusto, e sono sorrette da ragionevoli
motivi, che consentono di far un trattamento differenziato.
In particolare va osservato che fra il pensionato che lavora avendo
ancora forza e capacità sufficienti ed il pensionato che non può più
esplicare attività lavorativa sussiste una grande differenza, di
indiscutibile rilievo agli effetti della pensione, sotto il riflesso
dello stato di bisogno in cui il pensionato che non può lavorare viene
a trovarsi. È conforme alle esigenze volute dall’art. 38 il
corrispondergli la intera pensione, mentre il divieto di cumulo per il
pensionato che gode di un trattamento di lavoro oltre quello
pensionistico rispetta un principio di giustizia distributiva.
Il differente trattamento fatto ai lavoratori agricoli per i quali
la pensione è cumulabile con la retribuzione, è sorretto da speciali
motivi. Le esigenze dell’agricoltura, la progressiva rarefazione nelle
campagne delle forze di lavoro attratte da maggiori retribuzioni nella
industria, il settore particolarmente depresso caratterizzato da
prevalente occasionalità della occupazione, hanno indotto il
legislatore a favorire in tutti i modi il lavoro nelle campagne,
concedendo anche l’agevolazione del cumulo della pensione con la
retribuzione. Si tratta di motivi ragionevoli ed apprezzabili, che
giustificano il trattamento particolare.
Ed infine le pensioni spettanti agli impiegati statali, quelle a
carico di enti pubblici diversi dalla previdenza sociale, e quelle a
carico dei Fondi Speciali dello stesso I.N.P.S. sono soggette a
discipline ben distinte da quella della assicurazione generale
obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti. È
sufficiente accennare alla continuità ed alla durata del rapporto di
impiego, nonché alla entità dei contributi versati dagli stessi
impiegati.
La questione è infondata anche in riferimento agli artt. 4 e 35
della Costituzione. Il riconoscimento del diritto al lavoro e la tutela
del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni non sono vulnerati dal
divieto di cumulo. Non può infatti costituire ostacolo effettivo alla
attività lavorativa la circostanza che il pensionato non possa godere,
per intero, di due diversi trattamenti, quello di lavoro e quello
pensionistico.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 18
marzo 1968, n. 238, lett. a e b, e dell’art. 20, lett. a e b, del
decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, nella
parte in cui dispongono che le pensioni di vecchiaia non sono
cumulabili con la retribuzione, nonché l’illegittimità costituzionale
degli artt. 21 e 23 dello stesso decreto nelle parti in cui si
riferiscono alla pensione di vecchiaia.
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5, lett. b e c, della suindicata legge e dell’art. 20, primo
comma, lett. c, e secondo comma, del suindicato decreto del Presidente
della Repubblica, sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe in
riferimento agli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, l’11 dicembre 1969.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO – LUIGI OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE ROCCHETTI –
ENZO CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – PAOLO ROSSI.