Sentenza N. 159 del 1970
Corte Costituzionale
Data generale
18/11/1970
Data deposito/pubblicazione
18/11/1970
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/11/1970
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE –
Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
codice penale, promosso con ordinanza emessa il 6 marzo 1969 dal
tribunale di Spoleto nel procedimento penale a carico di Di Cicco Pucci
Luigi ed altri, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 1969 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 del 23
aprile 1969.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 14 ottobre 1970 il Giudice relatore
Paolo Rossi;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso di un procedimento penale a carico di taluni rivenditori
di giornali imputati della contravvenzione di cui all’art. 725 del
codice penale il tribunale di Spoleto, con ordinanza 6 marzo 1969, ha
sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale della
norma predetta “nell’interpretazione giurisprudenziale della struttura
colposa del reato” e limitatamente all’ipotesi di “diffusione del
materiale scritto e disegnato stampato con carattere di periodicità”,
per asserito contrasto con l’art. 21 della Costituzione.
Nell’ordinanza di remissione, sul presupposto che la libertà di
stampa si estende alla possibilità di diffusione capillare degli
stampati, si osserva che la norma impugnata – la quale punisce con la
sola pena della ammenda chiunque espone alla pubblica vista scritti od
oggetti figurati che offendano la pubblica decenza, oppure in luogo
pubblico o aperto al pubblico li offre in vendita o li distribuisce –
esplica una rilevante efficacia intimidatrice nei confronti dei
rivenditori, che si traduce, attraverso la cernita delle pubblicazioni
da escludere dalla diffusione, in una forma di censura preventiva
costituzionalmente vietata per le pubblicazioni stampate periodiche, in
quanto contrastante con il secondo comma dell’art. 21 della
Costituzione.
Il tribunale di Spoleto prospetta inoltre un generico contrasto tra
la norma impugnata e la libertà di stampa.
Viene infine adombrata l’ipotesi che il comportamento imposto agli
edicolanti, implicando una cognizione della nozione di pubblica decenza
che non ammette errori, possa concretare la figura dell’istituto della
c.d. “inesigibilità del dovere giuridico”.
Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
con atto depositato il 13 maggio 1969, chiedendo dichiararsi
l’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.
La difesa dello Stato ha osservato che l’obbligo imposto dalla
norma impugnata non è in alcun modo ricollegabile al concetto di
censura, istituto tipico del diritto pubblico, secondo cui gli organi
dello Stato – e soltanto essi – esercitano autoritativamente una
funzione di sicurezza consistente in un controllo preventivo sulla
stampa, soggiungendo che l’assimilazione alla censura,
costituzionalmente vietata, di altri istituti, che pur implicano una
qualche forma di controllo sugli scritti, è stata già respinta dalla
stessa Corte costituzionale con le sentenze n. 44 del 1960, nn. 31 e
115 del 1957.
L’Avvocatura generale ricorda quindi che il sesto comma dell’art.
21 della Costituzione vieta, tra l’altro, le pubblicazioni a stampa
contrarie al buon costume, mentre consente provvedimenti adeguati
preventivi e repressivi per tutte le relative violazioni, sicché la
norma impugnata appare conforme ai principi costituzionali.
La Corte costituzionale è chiamata ad esaminare se non contrasti
con il divieto di censura preventiva di cui all’art. 21 della
Costituzione, o comunque, in genere, con la libertà di stampa, il
disposto dell’art. 725 del codice penale, che commina la pena
dell’ammenda a chiunque espone alla pubblica vista, oppure
pubblicamente offre in vendita o distribuisce, scritti od oggetti
figurati offensivi della pubblica decenza.
Come si evince chiaramente dai limiti segnati dall’ordinanza di
remissione, che si riferisce alla “struttura colposa del reato in
relazione alla diffusione del materiale scritto e disegnato stampato
con carattere di periodicità”, l’oggetto specifico del giudizio della
Corte è circoscritto all’ipotesi di diffusione degli stampati
periodici (registrati presso le cancellerie dei tribunali), dei quali
siano noti l’editore, il direttore e lo stampatore.
Occorre innanzitutto ricordare che la cernita imposta ai
rivenditori di giornali al fine di escludere dalla diffusione le
pubblicazioni contrarie alla pubblica decenza, non realizza certamente
una forma di censura costituzionalmente illegittima, giacché il
divieto di cui all’art. 21, secondo comma, della Costituzione concerne
la censura quale istituto tipico del diritto pubblico, secondo cui gli
organi dello Stato, e soltanto essi, esercitano autoritativamente un
controllo preventivo sulla stampa, adottato con provvedimento
contenente un giudizio sulla manifestazione del pensiero rimesso alla
pubblica amministrazione (sentenze della Corte nn. 31 e 115 del 1957;
n. 44 del 1960).
Esclusa quindi l’illegittimità della norma impugnata sotto il
profilo ora delineato, è necessario esaminare se essa non dia luogo
comunque ad una generica limitazione della libertà di stampa,
costituzionalmente garantita.
Giova a questo punto considerare l’effettiva configurazione
dell’obbligo incombente ai rivenditori di giornali, quale risulta da
una corretta lettura dell’art. 725 del codice penale.
È noto che secondo l’interpretazione elaborata dalla più recente
giurisprudenza ordinaria – che a questa Corte appare come l’unica
esatta – i rivenditori di pubblicazioni periodiche non sono tenuti
all’esame integrale e dettagliato delle stesse, prima di esporle in
vendita, ma soddisfano al precetto loro imposto qualora, anche in
rapporto al carattere della singola pubblicazione, ne esaminino almeno
i titoli e le immagini più appariscenti, specie quelle riprodotte in
copertina, esplicando la diligenza media della categoria cui
appartengono.
La semplicità di tali operazioni, che non realizzano figure di
condotta cosiddette inesigibili (sicché è fugato ogni dubbio di
responsabilità oggettiva), non può concretare il pericolo di un
ostacolo alla diffusione della stampa fuori dei limiti segnati
dall’art. 725 del codice penale.
Da quanto finora osservato emerge con sicurezza la compatibilità
della condotta imposta dalla norma penale impugnata con i principi
costituzionali in tema di libertà e diffusione del pensiero. La tutela
della pubblica decenza prevista dall’art. 725 del codice penale
impedisce soltanto, per unanime dottrina e giurisprudenza, la
violazione delle regole di pudicizia o di costumatezza che la civile
convivenza esige siano da tutti osservate.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 725 del codice penale sollevata, con l’ordinanza in epigrafe
indicata, in riferimento all’art. 21 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 novembre 1970.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.