Sentenza N. 160 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
06/07/1971
Data deposito/pubblicazione
06/07/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
28/06/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni
sulle assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e la vecchiaia),
convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 10 luglio 1969 dal tribunale di Potenza nel
procedimento civile vertente tra Perrone Gerardo e l’Istituto nazionale
della previdenza sociale, iscritta al n. 410 del registro ordinanze
1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 del
10 dicembre 1969;
2) ordinanza emessa il 4 aprile 1970 dal tribunale di Pesaro nel
procedimento civile vertente tra Turri Luigi e l’Istituto nazionale
della previdenza sociale, iscritta al n. 201 del registro ordinanze
1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del
15 luglio 1970.
Visti gli atti di costituzione di Turri Luigi e dell’Istituto
nazionale della previdenza sociale;
udito nell’udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore
Giuseppe Chiarelli;
uditi gli avvocati Benedetto Bussi, per il Turri, e Luigi Rizzuti,
per l’INPS.
1. – Il tribunale di Potenza, nel procedimento civile vertente tra
Gerardo Perrone e l’Istituto nazionale della previdenza sociale, con
ordinanza 10 luglio 1969 ha proposto la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 10 del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636,
sulle assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e vecchiaia
(convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272), in riferimento
all’art. 3 della Costituzione. Si rileva nell’ordinanza che la norma
impugnata, con lo stabilire che si considera invalido l’assicurato la
cui capacità di normale guadagno sia ridotta a meno di 1/3 per gli
operai e a meno della metà per gli impiegati, viola il principio di
eguaglianza, in quanto opera un trattamento diverso tra operai e
impiegati, che appare arbitrario e non giustificato.
Si è costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza
sociale, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Cannella e
Arturo Pittoni, con deduzioni depositate il 30 dicembre 1969.
Premessa una esposizione dello sviluppo storico attraverso il quale
si giunse alla formula dell’art. 10 impugnato, in esse si sostiene che
il diverso criterio di determinazione dello stato di invalidità
pensionabile è giustificato perché per l’operaio è più facile
utilizzare le energie che gli residuano, fino ai due terzi della
propria capacità di guadagno, di quello che non sia per l’impiegato,
per il quale pertanto il legislatore ha fissato alla metà il limite di
riduzione della capacità di guadagno per la pensionabilità. Se oggi
il legislatore non ritiene più aderente alla realtà sociale la
diversa misura percentuale di riduzione della detta capacità di
guadagno è problema di politica sociale e non questione di
legittimità costituzionale.
2. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del
r.d. 14 aprile 1939, n. 636, è stata anche proposta dal tribunale di
Pesaro, con ordinanza 4 aprile 1970, nel giudizio vertente tra Luigi
Turri e l’Istituto nazionale della previdenza sociale, con riferimento
all’art. 3 e all’art. 38 della Costituzione.
Nell’ordinanza si deduce che la discriminazione tra impiegati e
operai contrasta col precetto del secondo comma dell’art. 38 della
Costituzione, secondo cui i lavoratori hanno diritto che siano
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
invalidità, oltre che col principio di eguaglianza di cui all’art. 3.
In questo giudizio si è costituito il sig. Turri, rappresentato e
difeso dall’avv. Benedetto Bussi, con deduzioni depositate il 30 luglio
1970. In esse si osserva che la perdita di capacità di guadagno
provoca l’insorgere degli stessi problemi e degli stessi bisogni sia
per gli operai che per gli impiegati: onde il contrasto della norma
impugnata con l’art. 3 della Costituzione. Sussiste anche la violazione
dell’art. 38, perché la norma stessa stabilisce condizioni
particolarmente onerose, che in sostanza annullano il diritto ai mezzi
adeguati alle esigenze di vita, costituzionalmente garantito.
In entrambi i giudizi le difese delle parti hanno sviluppato i loro
argomenti, che sono stati poi ribaditi nella discussione orale.
L’art. 10 del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636, sulle
assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e la vecchiaia (convertito
nella legge 6 luglio 1939, n. 1272), stabilisce: “Si considera invalido
l’assicurato la cui capacità di guadagno, in occupazioni confacenti
alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente, per infermità o
difetto fisico o mentale, a meno di un terzo del suo guadagno normale,
per gli operai, o a meno della metà, per gli impiegati”.
È stata prospettata l’incostituzionalità della norma, con
riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui
richiede, per il conseguimento del diritto alla pensione, un maggiore
grado di invalidità per gli operai rispetto agli impiegati.
La questione è fondata.
Secondo l’art. 38 della Costituzione i lavoratori “hanno diritto
che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita” in caso di “invalidità e vecchiaia”.
Si presenta pertanto come fondamentale, nell’attuale giudizio,
l’indagine diretta a stabilire se il criterio, posto dalla norma
impugnata nel determinare le condizioni per il conseguimento del
diritto a pensione da parte degli operai e degli impiegati, sia
conforme al precetto costituzionale, che richiede la corrispondenza del
mezzo previdenziale-assicurativo alle esigenze di vita del lavoratore.
Ritiene la Corte che la risposta debba essere negativa.
Il presupposto su cui la norma si basa è che la qualità di
operaio o di impiegato comporti, nel caso di parziale invalidità, una
diversa possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro e una maggiore
capacità residua di guadagno per gli operai rispetto agli impiegati.
Se non che la distinzione tra “operai” e “impiegati”, basata su
criteri incerti e controversi fin da quando fu introdotta con la legge
sull’impiego privato del lontano 1924, non è idonea, nell’attuale
stato della disciplina dei rapporti di lavoro, a fornire un rigido
criterio discriminatore di diverse capacità di guadagno in ordine al
regime previdenziale.
È noto che le leggi speciali e i contratti collettivi, per
adeguare la disciplina dei rapporti di lavoro agli sviluppi della vita
economica e della struttura delle imprese, per alcuni settori della
produzione hanno adottato un diverso sistema di valutazione della
posizione di lavoro, per altri settori hanno sostituito o integrato
quella distinzione con varie classificazioni di categorie e qualifiche,
a ciascuna delle quali è attribuito un proprio trattamento normativo
ed economico, frequentemente superiore, per alcuni casi di categorie
operaie, a quello di altre categorie impiegatizie.
A questa varietà di classificazione, basata, per alcune categorie
di operai, su una preparazione tecnica e su attitudini professionali
che non si richiedono per altre categorie di impiegati, corrisponde,
nel cosiddetto mercato del lavoro, una diversità di domanda, per cui
si rivela infondata la previsione che l’operaio, ove si sia verificato
un evento riduttivo della sua capacità di lavoro, abbia una maggiore
possibilità dell’impiegato di utilizzare le proprie attitudini senza
declassarsi; vale a dire, “in occupazioni confacenti alle sue
attitudini”, come vuole lo stesso art. 10 del decreto-legge. Né questa
constatazione si basa su dati dell’esperienza la cui valutazione è
riservata al legislatore, ma è la conseguenza del ricordato
ordinamento attuale delle qualificazioni professionali e corrisponde a
una situazione riconosciuta dallo stesso legislatore.
Con la legge 21 luglio 1965, n. 903, infatti, fu conferita al
Governo la delega a rivedere la vigente disciplina sull’invalidità
pensionabile, determinandone gli elementi costitutivi con maggiore
aderenza alle “esigenze emerse nella pratica attuazione della
disciplina medesima”, e ad “abolire la differente valutazione
attualmente esistente tra impiegati e operai”; delega confermata, negli
stessi termini, con la successiva legge 30 aprile 1969, n. 153.
L’espressa delega ad abolire la detta differenza trova riscontro
nella Raccomandazione approvata il 27 settembre 1966 dal Comitato
economico e sociale della C.E.E., che comprende l’abolizione delle
“disposizioni che prevedono un’applicazione differente della nozione di
stato d’invalidità agli operai e agli impiegati”.
Dalle esposte considerazioni deriva che il maggior grado di
invalidità, richiesto dalla norma impugnata, per il conseguimento del
diritto a pensione da parte dell’operaio non assicura la corrispondenza
del mezzo previdenziale-assicurativo alle esigenze di vita del
lavoratore, com’è richiesto dall’art. 38 della Costituzione.
È vero che, come si esprime l’ordinanza del tribunale di Pesaro,
l’art. 38 non esclude che il diritto alle prestazioni assicurative e
previdenziali sia subordinato a determinate condizioni e requisiti; ma
esso richiede anche che la determinazione delle condizioni a cui è
subordinato il sorgere di tale diritto e la valutazione della
invalidità parziale non pensionabile sia sempre basata sulla sicura
esistenza di mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore:
corrisponda cioè a una situazione del lavoratore che escluda il
bisogno della prestazione previdenziale.
Va pertanto riconosciuta la non conformità all’art. 38 della
Costituzione dell’art. 10 del decreto-legge n. 636 del 1939, nella
parte impugnata.
Il contrasto con l’art. 38 implica altresì il contrasto con l’art.
3 della Costituzione, in quanto il trattamento differenziato previsto
dalla norma non assicura una eguale protezione dal rischio
dell’invalidità parziale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, primo comma,
del decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazione delle
disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e la
vecchiaia), convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, nella parte
espressa con le parole: “a meno di un terzo del suo guadagno normale,
per gli operai, o”, e con le parole finali del comma: “per gli
impiegati”.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.