Sentenza N. 160 del 1977
Corte Costituzionale
Data generale
29/12/1977
Data deposito/pubblicazione
29/12/1977
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/12/1977
OGGIONI – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof.
LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE, Giudici,
d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (t.u. delle disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali), promosso con ordinanza emessa il 30 ottobre
1974 dal giudice del lavoro del tribunale di Pistoia, nel procedimento
civile vertente tra Morosi Fiorenzo e l’INAIL, iscritta al n. 61 del
registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 77 del 20 marzo 1975.
Visti gli atti di costituzione di Morosi Fiorenzo e dell’INAIL;
udito nell’udienza pubblica del 9 novembre 1977 il Giudice relatore
Leonetto Amadei;
uditi gli avvocati Franco Agostini, per il Morosi e Carlo Graziani,
per l’INAIL.
Con citazione notificata il 29 agosto 1973 Morosi Fiorenzo esponeva
dinanzi al tribunale di Pistoia che, essendo dipendente degli Ospedali
Riuniti in qualità di tecnico radiologico, mentre in data 19 febbraio
1973 stava sollevando un apparecchio radiologico di peso rilevante per
collocarlo in un ascensore, avvertì un forte dolore all’inguine
sinistro per cui dovette abbandonare il lavoro per ricorrere alle cure
del medico del pronto soccorso.
Il Morosi presentava domanda all’INAIL per ottenere le prestazioni
a lui spettanti per legge, ma l’Istituto, con lettera del 9 marzo 1973,
successivamente confermata in data 21 maggio 1973, respingeva tale
domanda perché “dagli accertamenti effettuati è risultato non
trattarsi di infortunio sul lavoro”.
Il Morosi conveniva allora in giudizio l’INAIL, dinanzi al giudice
del lavoro del tribunale di Pistoia, per sentirlo condannare a
corrispondergli le prestazioni a lui spettanti per legge, in dipendenza
dell’infortunio subito. Il giudice del lavoro, pertanto, nominava un
consulente tecnico per sapere se l’infortunio era da considerare
avvenuto in occasione di lavoro e se la malattia avesse determinato nel
Morosi una riduzione della capacità lavorativa e, in caso di risposta
affermativa, in quale misura.
Il perito rispondeva affermativamente ad entrambe le domande
aggiungendo che il Morosi era, a suo avviso, operabile.
L’INAIL, presa visione della relazione peritale concludeva che,
dato per ammesso l’infortunio, l’entità delle prestazioni era
determinata dall’art. 91 del t.u. del 1965 per cui al Morosi sarebbero
spettate la invalidità temporanea e le cure necessarie.
Il Morosi, dal canto suo, sollevava questione di
incostituzionalità dell’art. 91 del t.u. del 1965 poiché tale norma
sarebbe in contrasto con l’art. 32, secondo comma, della Costituzione,
in quanto “non sacrifica un interesse individuale ad un superiore
interesse della collettività, ma al contrario pone in pericolo la vita
di un soggetto (attraverso, per esempio, l’intervento operatorio) in
vista di un soltanto possibile, e comunque modestissimo, interesse
collettivo”.
Il giudice del lavoro accoglieva l’istanza e rimetteva gli atti
alla Corte costituzionale con ordinanza del 30 ottobre 1974 per
contrasto dell’art. 91 del t.u. del 1965 con gli artt. 38 e 32 della
Costituzione.
Egli rilevava infatti che “detta questione non appare
manifestamente infondata dal momento che l’art. 91 del d.P.R. 30 giugno
1965, n. 1124, escludendo la concessione della rendita di inabilità
nelle ipotesi di ernia addominale operabile, pone il lavoratore
infortunato nell’alternativa tra il rimanere – senza alcuna rendita –
in condizioni di ridotta capacità lavorativa o l’operarsi, con il che
non sembra sia garantito il diritto all’assistenza in caso di
infortunio previsto dall’art. 38 della Costituzione in quanto è
evidente che, in ogni caso, non può mai ex ante escludersi con
sicurezza la pericolosità dell’intervento chirurgico (addirittura
anche per la vita dell’operando) di modo che l’unico rimedio
assicurativo nella specie previsto – e cioè l’intervento stesso – può
concretamente risolversi in un danno per l’interessato. “Inoltre
riteneva che” può pure ipotizzarsi un contrasto tra l’art. 32 della
Costituzione e la norma impugnata in quanto questa, ponendo il
lavoratore infortunato nell’alternativa di cui sopra, può indurlo ad
una scelta potenzialmente dannosa per la propria salute mentre invece
detto art. 32 stabilisce che “la Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo”. Ed infine affermava che “anche se
si dovesse pensare che la norma in questione possa in astratto
rientrare tra quelle che impongono l’obbligo di un determinato
trattamento sanitario a sensi della prima parte del secondo comma del
citato art. 32 della Costituzione (il che invero non pare, dal momento
che in effetti nella specie non è imposto all’assicurato alcun
obbligo, ma solo la già ricordata alternativa), non risulta esservi
alcun apprezzabile interesse della collettività che giustifichi una
tale previsione, in quanto ovviamente l’unico interesse che la norma in
contestazione tende a tutelare è quello economico dell’Istituto
assistenziale che però (anche a considerare che in definitiva –
trattandosi di Ente pubblico – si risolve pur sempre in un interesse
collettivo) non è certo tanto rilevante da potersi porre in contrasto
con il diritto primario del cittadino alla salute”.
Dinanzi alla Corte costituzionale si costituivano sia il Morosi che
l’INAIL.
Il primo, nelle sue deduzioni afferma che, a norma dell’articolo
impugnato, il lavoratore infermo per ernia addominale derivante da
infortunio sul lavoro è posto di fronte all’alternativa, nel caso in
cui l’ernia stessa sia operabile, di restare privo della rendita e
portatore di inabilità permanente o sottoporsi all’intervento
operatorio allo scopo di eliminare tale inabilità.
Il problema, pertanto, secondo il Morosi, sta nello stabilire se
l’alternativa mette sostanzialmente in essere un obbligo – quanto meno
da intendersi in senso lato come condizione per ottenere una
prestazione garantita dalla legge e dalla Costituzione – con tali
modalità che comportino violazione dei limiti imposti dal rispetto
della persona umana. Nella specie, poi, il trattamento sanitario, cui
fa cenno l’art. 32, è costituito da un intervento operatorio e appare
che l’obbligo dell’intervento stesso in ogni caso cada al di là dei
limiti in questione, poiché un intervento operatorio ha dei margini di
pericolosità, anche potenziali, che sfuggono ad un accertamento
obiettivo e che nell’intervento stesso giuoca un ruolo perfino la
predisposizione psicologica dell’interessato.
La violazione dell’art. 38, invece deriverebbe dal fatto che l’art.
91 fa discendere il diritto al trattamento di rendita per inabilità
permanente, dalla operabilità o meno dell’ernia, determinata, tra
l’altro, non dall’interessato, ma da terzi.
L’INAIL rileva che l’art. 91 prevede forme di assistenza, quali le
prestazioni mediche e chirurgiche e l’indennità per l’inabilità
temporanea, in relazione all’entità dell’evento in esso articolo
contemplato: evento che, sulla base della comune esperienza medica, non
è ritenuto di per se produttivo di postumi permanenti se e in quanto,
obiettivamente valutato, possa attraverso gli opportuni interventi,
consentire il recupero integrale della capacità lavorativa.
Tale previsione si colloca esattamente nel vigente sistema
assicurativo – col quale si armonizza – tenendo conto che nella legge
speciale esiste tutta una serie di norme (artt. 86, 87, 88 e 89 t.u.
1965) che stabiliscono appunto a carico dell’Istituto assicuratore, e
corrispondentemente a carico dell’infortunato, di far ricorso ai mezzi
più idonei ed utili alla restaurazione della capacità lavorativa.
1. – Il giudice del lavoro presso il tribunale di Pistoia ha
promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 91 del
d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 – Testo unico delle disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali -, in riferimento agli artt. 38 e 32 della
Costituzione.
Secondo l’art. 91, nel caso di infortunio che abbia causato ernia
addominale operabile, l’Istituto assicuratore è tenuto solo alle
prestazioni mediche e chirurgiche ed al pagamento della indennità
temporanea, mentre nel caso in cui si tratti di ernia non operabile è
dovuta la rendita di inabilità nella misura stabilita per la riduzione
del 15% dell’attitudine al lavoro. Ove sorga contestazione circa la
operabilità, la decisione è rimessa ad un collegio arbitrale la cui
composizione è indicata dalla legge.
2. – Per la ordinanza di rimessione appare illegittimo il citato
art. 91 se raffrontato con l’art. 38 della Costituzione perché mentre
questo, al secondo comma, dispone che “i lavoratori hanno diritto che
siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita
in caso di infortunio, malattia… ecc.”, la norma impugnata pone il
lavoratore infortunato “nella alternativa fra il rimanere – senza
alcuna rendita – in condizioni di ridotta capacità lavorativa o
l’operarsi, in condizione cioè da non potersi escludere con sicurezza
ex ante la pericolosità dell’intervento chirurgico di modo che l’unico
rimedio assicurativo nella specie previsto – e cioè l’intervento
stesso – può concretamente risolversi in un danno per l’interessato”.
Contrasterebbe inoltre la norma impugnata con l’art. 32 della
Costituzione poiché “ponendo il lavoratore nella alternativa
descritta, può indurlo ad una scelta potenziale dannosa per la propria
salute mentre invece detto art. 32 stabilisce che la Repubblica tutela
la salute come fondamentale diritto del cittadino”.
Né sarebbe la norma impugnata conforme alla prima parte del
secondo comma dell’art. 32 Cost. mancando, nella specie, un
apprezzabile interesse della collettività tale da giustificare
l’obbligatorietà di un trattamento terapeutico. In sostanza, afferma
il giudice a quo, l’art. 91 si propone esclusivamente la tutela
dell’interesse economico dell’Istituto assistenziale che anche se
persegue finalità di interesse collettivo non può mai comprimere il
diritto primario del cittadino alla propria salute.
3. – La questione non è fondata.
Va osservato infatti come tutta la legislazione assicurativa e
previdenziale emanata sia prima che dopo l’entrata in vigore della
Costituzione, ha fissato il principio che i pubblici istituti preposti
alla previdenza sociale ed alla assicurazione infortuni sul lavoro,
hanno il diritto e il dovere di agire nella maniera più idonea onde
l’invalido possa ridurre la portata della subita invalidità o, ancor
meglio, riacquistare le condizioni di salute e di efficienza
preesistenti. Così, ad esempio, l’art. 18 del d.l.l. 23 agosto 1917,
n. 1450 concernente provvedimenti per l’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro in agricoltura; gli artt. 32, 33, 34,
35 e segg. del r.d. 17 agosto 1935, n. 1765 – Disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e delle
malattie professionali -. Ed ancora, l’art. 81 del r.d.l. 4 ottobre
1935, n. 1827 – Perfezionamento e coordinamento legislativo della
previdenza sociale -; l’art. 13 del r.d.l. 23 settembre 1937, n. 1918
– Assicurazione contro le malattie per la gente di mare -; l’art. 6 del
d.l.l. 3 febbraio 1946, n. 85 – Modificazione alla assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro in agricoltura -. In tutte
le norme indicate, ad eccezione dell’art. 13 del r.d.l. 23 settembre
1937, n. 1918, in cui non si fa esplicito riferimento alle cure
chirurgiche, l’ammalato o l’infortunato non possono rifiutarsi, senza
giustificato motivo, di sottoporsi a cure mediche o chirurgiche nei
casi in cui possa essere evitata o ritardata l’invalidità, ovvero
possa essere attenuata o eliminata l’invalidità già accertata. Il
rifiuto dell’assicurato a sottostare alle cure, qualora sia respinto
dall’Istituto, o in caso di disaccordo circa la cura, comporta la
decisione da parte di un collegio arbitrale (v. art. 82 legge 4 ottobre
1935, n. 1827). Secondo l’art. 32 del r.d.l. 17 agosto 1935, n. 1765,
l’infortunato non poteva, senza giustificato motivo, rifiutare di
sottoporsi alle cure mediche e chirurgiche, compresi gli atti
operatori, che l’Istituto assicuratore ritenesse necessari, ed il
successivo art. 35 stabiliva che, anche dopo la costituzione della
rendita di inabilità (analogamente a quanto stabilito dall’art. 81
della legge sulla previdenza sociale), l’Istituto assicuratore poteva
disporre che l’infortunato venisse sottoposto a speciali cure mediche e
chirurgiche, compresi gli atti operatori, quando fossero stati ritenuti
utili per il recupero della capacità lavorativa. Identica normativa è
contenuta negli artt. 87 e 89 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, di
cui fa parte l’art. 91 della cui legittimità costituzionale si
discute. Nel ricordato art. 87 di detto decreto è inoltre previsto
(analogamente a quanto dispone l’art. 82 del d.l. 4 ottobre 1935, n.
1827, per la previdenza sociale) che l’accertamento degli eventuali
motivi del rifiuto a sottostare alle cure prescritte (mediche o
chirurgiche) è demandato, in caso di contestazione, al giudizio di un
collegio arbitrale e che al rifiuto ingiustificato consegue la perdita
del diritto alla indennità per inabilità temporanea e la riduzione
della rendita a quella misura presunta alla quale sarebbe stata ridotta
se l’assicurato si fosse sottoposto alle cure prescritte.
Per l’art. 82 della legge sulla previdenza sociale l’ingiustificato
rifiuto dell’invalido a sottostare alle cure proposte dall’Istituto
importa la sospensione della liquidazione o del pagamento della
pensione di invalidità.
L’art. 89 della legge infortunistica stabilisce, inoltre, che anche
dopo la costituzione della rendita di inabilità, l’Istituto
assicuratore “dispone che l’infortunato si sottoponga a speciali cure
mediche e chirurgiche quando siano ritenute utili per la restaurazione
della capacità lavorativa”. In caso di rifiuto dell’infortunato la
decisione è demandata allo stesso collegio arbitrale di cui all’art.
87.
4. – Nel caso in esame il giudice del lavoro non ha potuto giovarsi
del giudizio del collegio arbitrale in quanto dopo le conclusioni del
perito d’ufficio che dichiaravano la operabilità dell’ernia inguinale,
l’infortunato non ha contestato il responso peritale né ha inteso
sottoporsi a controlli di sorta.
Stando così le cose, non può essere apprezzato il richiamo
dell’ordinanza all’art. 38 della Costituzione per desumere la
illegittimità dell’art. 91 del più volte citato decreto
presidenziale, perché proprio la norma di cui all’art. 91 è in grado
di apprestare il mezzo adeguato alle esigenze di vita dell’infortunato,
offrendogli sia la indennità per la inabilità temporanea sia la cura
necessaria per la restaurazione della salute e quindi il pieno recupero
della attività lavorativa.
5. – Si osservi ancora che se la valutazione dell’ernia inoperabile
comporta una rendita di inabilità corrispondente alla riduzione del
15% dell’attitudine al lavoro, tale rendita, ove fosse prevista anche
per l’ernia operabile, risulterebbe ulteriormente più esigua e
comunque tale da non garantire le esigenze di vita dell’infortunato.
Quando addirittura la valutazione dell’infermità non fosse per
risultare inferiore al minimo stabilito dalla legge perché si possa
costituire la rendita per infortunio (invalidità superiore al 10% –
art. 74 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 -).
Non è, in conseguenza, censurabile sotto il profilo costituzionale
il criterio del legislatore che ha fissato la corresponsione della
rendita per invalidità solo al lavoratore infortunatosi con ernia
inoperabile, ed ha apprestato per chi è colpito da ernia operabile i
ristori descritti.
Non appare invero irrazionale la previsione, alla stregua dei
dettami della scienza medica e dell’esperienza, della reversibilità di
quest’ultimo stato morboso, che, debellabile da atto operatorio, non
assume carattere di invalidità permanente.
6. – Non è da accogliersi l’argomento di cui l’ordinanza di
rimessione si avvale e secondo cui “non può mai ex ante escludersi con
sicurezza la pericolosità dell’intervento chirurgico (addirittura
anche per la vita dell’operando) di modo che l’unico rimedio
assicurativo nella specie previsto e cioè l’intervento stesso può
concretamente risolversi in un danno per l’interessato”.
Si osserva, in contrario, che se dovesse essere vagliata anche la
più remota possibilità di un pericolo, addirittura mortale, per ogni
atto chirurgico, mai si dovrebbe intervenire sul corpo di un paziente
reso inabile da malattia o infortunio sul lavoro, anche quando un
semplice atto operatorio potrebbe restituirlo perfettamente efficiente
alla normale attività.
Non può essere consentito ricorrere a criteri di infallibilità o
di certezza assoluta e matematica nella previsione dei risultati di
qualsivoglia azione umana. È invece da ritenere che i collegi
arbitrali prima di emanare un giudizio di operabilità agiscano con la
massima prudenza senza trascurare ogni elemento che possa condurre ad
una previsione di incertezza sul risultato o di un sensibile pericolo.
Tale giudizio, quindi, farà seguito, secondo un costante indirizzo
giurisprudenziale, ad un premuroso e scrupoloso vaglio di tutte le
condizioni fisio-psichiche del paziente.
La scienza chirurgica ha compiuto progressi eccezionali e vi sono
atti operatori che, in base alla umana certezza, possono essere
dichiarati esenti da pericolo; altri la cui pericolosità varia da un
grado minimo ad un massimo, e tutto ciò da valutarsi in concreto per
ogni singolo caso in rapporto alla diversa struttura fisica e psichica
del paziente.
7. – Circa il denunciato contrasto dell’art. 91 della legge
infortunistica con l’art. 32 della Costituzione, ravvisato nel fatto
che mentre “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo” l’art. 91, “ponendo il lavoratore infortunato
nell’alternativa di restare senza rendita o operarsi, può indurlo ad
una scelta potenzialmente dannosa per la sua salute”, questa Corte ha
già puntualmente risposto, argomentando in tema dell’art. 38 della
Costituzione, e sottolinea che la norma impugnata intende precisamente
tutelare la salute del lavoratore offrendogli quei mezzi che sono
ragionevolmente ritenuti necessari per ricostituirla allorché
compromessa.
Questa Corte osserva infine che la norma impugnata non impone
all’infortunato l’obbligo di subire l’intervento operatorio ma
stabilisce che, nel caso di ernia addominale, l’Istituto assicuratore
è tenuto solo alle prestazioni mediche e chirurgiche e al pagamento
della indennità per l’inabilità temporanea e quando si tratti di
ernia non operabile allora è dovuta la rendita di inabilità.
Nella ipotesi pertanto di ernia operabile, non sorge per
l’infortunato alcun diritto a una rendita; né questa potrà essere
corrisposta dopo l’atto operatorio, ove l’infortunato abbia
riacquistato la capacità lavorativa.
Si osserva ancora che la valutazione della misura del ristoro per
l’infortunio che abbia causato ernia operabile, appartiene al giudizio
del legislatore e che non appare irragionevole il giudizio che il
legislatore ne ha dato.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 91 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, sollevata in
riferimento agli artt. 38 e 32 della Costituzione, dal giudice del
lavoro del tribunale di Pistoia, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 dicembre 1977.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
LEONETTO AMADIO – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO –
ANTONINO DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere