Sentenza N. 169 del 1999
Corte Costituzionale
Data generale
14/05/1999
Data deposito/pubblicazione
14/05/1999
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/05/1999
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
Presidente del Consiglio dei Ministri, datato 27 settembre 1997,
recante “Modalità di esercizio delle deroghe di cui all’art. 9 della
direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli
selvatici”, nonché in relazione alle determinazioni n. 3242 e n.
3243 del 20 ottobre 1997 della Commissione di controllo sugli atti
della Regione Veneto, con le quali sono state annullate le delibere
della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997, recanti
“Direttiva CEE n. 409/1979. Art. 9: applicazione deroghe (periodo 11
ottobre-31 dicembre 1997)”, promossi con ricorsi delle Regioni
Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia, notificati il 28
novembre, il 22 ed il 29 dicembre 1997, depositati in Cancelleria il
4 e il 29 dicembre 1997, l’8, il 9 ed il 13 gennaio 1998,
rispettivamente iscritti ai nn. 56 e 61 del registro conflitti 1997
ed ai nn. 2, 3 e 5 del registro conflitti 1998.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 1998 il giudice relatore
Massimo Vari;
Uditi gli avvocati Vito Vacchi per la Regione Toscana, Ivone
Cacciavillani e Luigi Manzi per la Regione Veneto, Giandomenico
Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna, Maurizio Pedetta
per la Regione Umbria e Beniamino Caravita di Toritto per la Regione
Lombardia, nonché l’avvocato dello Stato Pier Giorgio Ferri per il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
1997), la Regione Toscana ha sollevato conflitto di attribuzione nei
confronti dello Stato, in relazione al decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 27 settembre 1997, recante “Modalità di
esercizio delle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE,
concernente la conservazione degli uccelli selvatici”.
La Regione chiede che la Corte dichiari non spettare allo Stato il
potere di disciplinare dette modalità e che, quindi, annulli il
predetto decreto, in quanto invasivo delle competenze ad essa
costituzionalmente garantite dagli artt. 117 e 118 della
Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 99 del decreto del
Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della
delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) e
all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143
(Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia
di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell’Amministrazione
centrale).
1.1. – La ricorrente – premesso che la legge 11 febbraio 1992, n.
157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il
prelievo venatorio), non contiene una specifica disciplina dei casi e
delle procedure di deroga di cui all’art. 9 della direttiva
comunitaria – esclude, anzitutto, che il decreto impugnato trovi
fondamento nell’art. 18, comma 3, della legge stessa; disposizione,
questa, da reputare finalizzata alla stabile variazione dell’elenco
delle specie cacciabili sul territorio nazionale, mentre la deroga
avrebbe, quale espressione di un potere particolare, specifico e
contingente, il diverso scopo, come affermato anche dalla
giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di giustizia 7 marzo 1996, in
causa 118/1994), di sospendere temporaneamente, ed alle condizioni
stabilite, il regime di protezione disposto a favore della fauna
selvatica.
Né a giustificare l’adozione del censurato provvedimento varrebbe
il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996:
in primo luogo, la pronuncia si riferirebbe al potere statale (non
contestato) di variare gli elenchi delle specie cacciabili, che è
diverso da quello avente ad oggetto la disciplina delle deroghe; in
secondo luogo, la pronunzia sarebbe stata resa prima del decreto
legislativo n. 143 del 1997, che ha ampliato le competenze regionali
in materia di caccia (art. 1), mantenendo al Ministro per le
politiche agricole compiti di disciplina generale e di coordinamento
in materia di specie cacciabili ai sensi dell’art. 18, comma 3, della
legge n. 157 del 1992 (art. 2, comma 2).
Rilevato che il decreto impugnato non può reputarsi rispettoso
delle competenze regionali neppure in nome degli interessi unitari,
richiamati nelle sue premesse, atteso che la disciplina delle
specifiche deroghe rientra “nell’interesse differenziato di ciascuna
regione”, si osserva che, in ogni caso, lo Stato, anche alla luce
dell’art. 9, comma 6, della legge 9 marzo 1989, n. 86 (Norme
generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo
comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi
comunitari), avrebbe dovuto, in ipotesi comunque contestata,
ricorrere all’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento,
soggetta all’osservanza dei necessari requisiti di sostanza e di
forma, tali, tra l’altro, da esigere la delibera del Consiglio dei
ministri, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera d) della legge 23
agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri) e dell’art.
9, comma 6, della legge 9 marzo 1989, n. 86, nonché la previa intesa
con la Conferenza permanente Stato-Regioni, ai sensi dell’art. 8
della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli enti locali
per la riforma della pubblica amministrazione e per la
semplificazione amministrativa).
Nel contestare l’affermazione contenuta nel provvedimento
impugnato, secondo cui le ipotesi di deroga contemplate alle lettere
a) e b), del paragrafo 1, dell’art. 9 della direttiva sarebbero già
state disciplinate dagli artt. 2, comma 3, e 19 della legge n. 157
del 1992, la Regione Toscana lamenta, inoltre, la violazione
dell’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977 e degli artt. 4 e 9, terzo
comma, della legge n. 86 del 1989, che avrebbero richiesto
l’attuazione della direttiva comunitaria eventualmente mediante legge
comunitaria o altra legge, essendo consentito il ricorso al
regolamento solo se così dispone la legge comunitaria per le materie
non coperte da riserva di legge. A tal riguardo, nell’osservare che
il vizio concernente il non corretto utilizzo della fonte del potere
regolamentare si risolve in violazione dell’autonomia regionale,
viene, al tempo stesso, reputata lesiva delle attribuzioni regionali
la procedura di “intesa con i Ministri dell’ambiente e per le
politiche agricole” prevista dall’art. 2 del decreto impugnato:
l’introduzione di tale strumento costituirebbe, infatti, un modo per
attribuire allo Stato una potestà di codecisione su funzioni di
competenza delle Regioni, dando, quindi, luogo ad un contrasto con il
decreto legislativo n. 143 del 1997 che ha attribuito alle Regioni
tutte le funzioni legislative e amministrative in materia di caccia;
in tal guisa sarebbero, altresì, imposti alle Regioni illegittimi
“moduli procedimentali che condizionano in radice l’esercizio delle
riconosciute attribuzioni (cfr. sentenza n. 483 del 1991)”.
Nel caso di specie, la dedotta lesione delle competenze regionali
sarebbe particolarmente evidente perché la Regione Toscana, con
legge regionale n. 70 del 21 agosto 1997 (sulla quale il commissario
del Governo non ha sollevato rilievi), ha già provveduto a
disciplinare l’esercizio delle deroghe stesse.
1.2. – Ugualmente lesivi dell’autonomia regionale in materia di
caccia sarebbero:
l’art. 3 del provvedimento, là dove estende, alla cattura per la
cessione a fini di richiamo, la menzionata disciplina relativa alle
condizioni ed alle modalità di applicazione delle deroghe,
modificando con un atto dell’Esecutivo le disposizioni di legge
statale e regionali;
l’art. 4 che individua nell’Istituto nazionale per la fauna
selvatica l’unico organo abilitato a dichiarare che le condizioni
stabilite dai precedenti artt. 2 e 3 sono realizzate senza
considerare che si tratta, invece, di un controllo che deve essere
disciplinato dalle Regioni.
2. – Anche la Regione Veneto ha sollevato conflitto di attribuzione
(Reg. confl. n. 61 del 1997), oltre che in relazione al menzionato
decreto presidenziale, in riferimento alle due determinazioni (n.
3242 e n. 3243 del 10 ottobre 1997), con cui la Commissione di
controllo ha annullato le delibere della Giunta regionale n. 3401 e
n. 3402 del 7 ottobre 1997, aventi ad oggetto l’applicazione delle
deroghe di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE, per il periodo
11 ottobre-31 dicembre 1997.
La ricorrente rileva che le determinazioni della Commissione di
controllo negano in radice la sussistenza in capo all’ente regionale
di ogni attribuzione in materia, mentre il decreto del Presidente del
Consiglio ammette e riconosce espressamente l’esistenza di un potere
spettante “primariamente” alle Regioni, sia pure subordinatamente
alla previa intesa con i Ministri dell’ambiente e per le politiche
agricole. Ciò premesso, viene denunciata la violazione degli artt.
117 e 118 della Costituzione e della normativa che ne costituisce il
completamento (in particolare, gli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616
del 1977 e l’art. 9 della legge n. 86 del 1989), sostenendo che
spetta in via esclusiva alla Regione, e non allo Stato, il potere di
adottare i provvedimenti di deroga. Si osserva che – pur avendo la
sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996 ravvisato
nell’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 la disposizione
attributiva allo Stato di una competenza esclusiva per l’adozione
delle deroghe – in effetti, la disposizione stessa non conterrebbe
alcun espresso riferimento all’art. 9 della direttiva CEE. Poiché,
quindi, la relativa procedura sarebbe stata solo formalmente recepita
(art. 1 della legge n. 157 del 1992), ma non espressamente
disciplinata, il soggetto titolare del relativo potere andrebbe
individuato sulla base delle norme generali che disciplinano il
riparto di attribuzioni tra Stato e Regione, in sede di attuazione
della normativa comunitaria e, cioè, in particolare, dell’art. 9,
commi 2 e 3, della legge n. 86 del 1989, come pure dell’art. 1,
comma 3, della legge n. 157 del 1992. Comunque, al di là dei profili
sistematici concernenti il riparto interno delle attribuzioni
legislative, il procedimento volto alla concreta individuazione delle
ipotesi di deroga avrebbe, secondo la Regione Veneto, “carattere
amministrativo e non normativo”, sicché la competenza, alla stregua
del disposto degli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616 del 1977, non
potrebbe non essere regionale.
Né la sfera di attribuzioni spettanti alle Regioni, come sopra
individuata, potrebbe essere posta in discussione dal richiamo
all’interesse unitario, che non può “giustificare il sovvertimento
del riparto interno di competenze tra soggetti dotati di autonomia
costituzionalmente riconosciuta”. Inoltre, contrariamente
all’orientamento espresso dalla Corte costituzionale, detto interesse
si porrebbe non a livello nazionale, bensì comunitario, con la
ulteriore conseguenza che la sede “del coordinamento e del controllo”
andrebbe individuata negli organi della Comunità europea.
Comunque, anche a non contestare l’esistenza di un interesse
unitario, la sua salvaguardia non legittimerebbe lo Stato ad
interferire indiscriminatamente nella sfera delle attribuzioni
istituzionalmente spettanti alle Regioni, né sostituendosi alle
stesse né imponendo, attraverso l’intesa, forme di gestione
congiunta delle funzioni di loro esclusiva competenza.
La legislazione vigente – segnatamente l’art. 6 del d.P.R. n. 616
del 1977 e l’art. 9 della legge n. 86 del 1989 -, consentirebbe allo
Stato soltanto il ricorso agli “strumenti di coordinamento e
controllo (o di supplenza)”, tra i quali certamente non rientra
l’intesa prevista dal decreto 27 settembre 1997; intesa che potrebbe
essere imposta solo da una fonte di rango legislativo.
Il ricorso, nel rilevare, altresì, che l’art. 4 della legge n. 86
del 1989 consente l’attuazione di direttive comunitarie mediante
regolamento, osserva come, tuttavia, a tal fine, sia indispensabile
che così sia previsto nella stessa legge comunitaria oppure in altra
fonte di rango legislativo; fonte che non può essere ravvisata,
nella specie, nell’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992.
A voler, inoltre, configurare il decreto impugnato come atto di
indirizzo e coordinamento, esso sarebbe comunque illegittimo,
quantomeno per essere stata omessa la consultazione della Conferenza
permanente StatoRegioni, secondo quanto prescritto dall’art. 12,
comma 5, della legge n. 400 del 1988.
3. – Avverso il citato decreto ha sollevato conflitto, altresì, la
Regione Emilia-Romagna (Reg. confl. n. 2 del 1998), chiedendone
l’annullamento in toto “e segnatamente nelle disposizioni di cui agli
artt. 2, 3 e 4”, in quanto invasive delle competenze
costituzionalmente ad essa garantite, all’uopo deducendo il contrasto
del provvedimento impugnato con gli artt. 117, primo comma, 118,
primo comma, e 125, primo comma, della Costituzione; con gli artt. 4
e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86; con gli artt. 6 e 99 del d.P.R.
n. 616 del 1972; con l’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992;
con gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 2, del decreto legislativo n.
143 del 1997; con l’art. 8 della legge n. 59 del 1997; ed infine con
i principi e le regole costituzionali attinenti ai rapporti fra Stato
e Regioni, tra cui, in particolare, i principi di legalità e di
leale collaborazione.
3.1. – Rappresenta, anzitutto, il ricorso che la Corte di giustizia
delle Comunità europee, con sentenza 7 marzo 1996 (in causa
118/1994) – nell’affermare che il sistema italiano costituisce in
tema di deroghe non una attuazione, bensì una violazione della
direttiva – non solo non avrebbe contestato, ma avrebbe
indirettamente confermato la legittimità della competenza regionale
in materia. La detta pronunzia avrebbe rilevato, invece,
l’illegittimità della legge statale n. 157 del 1992, per avere, da
un lato, operato un non consentito ampliamento delle specie
cacciabili e per non avere, dall’altro, espressamente vincolato le
Regioni a conformarsi all’art. 9 della direttiva. In quello stesso
periodo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 272 del 1996,
sarebbe venuta ad assimilare le deroghe di cui al predetto art. 9
“all’estensione delle specie cacciabili, da parte della legislazione
nazionale, rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria”;
assimilazione che, ammesso che si possa giustificare quale
interpretazione del sistema della legge n. 157 del 1992, renderebbe
tale legge “ancor più contrastante con il sistema della direttiva
comunitaria”.
La Regione, nel rilevare che, per conformarsi alla menzionata
sentenza della Corte di giustizia, fu emanato il d.P.R. (recte:
d.P.C.M.) 21 marzo 1997, con il quale l’elenco delle specie
cacciabili, di cui all’art. 18 della legge n. 157 del 1992, fu
adeguato a quello previsto dalla direttiva comunitaria, ricorda che,
a seguito di ciò, poteva finalmente prendere vita il meccanismo
delle deroghe vere e proprie, ovviamente nel rispetto dell’art. 9;
sicché anche la ricorrente, con legge 25 agosto 1997, n. 30,
stabilì una deroga al divieto di caccia di alcune specie.
Nell’osservare, poi, che la nozione di deroga si riferisce ad uno
strumento avente caratteristiche antitetiche ad “un regime normativo
generale” – come conforta il parere, emesso dalla Commissione CE il 7
agosto 1997, con il quale sono state ritenute non conformi al regime
di divieto, salvo deroga, l’art. 4, comma 4, e l’art. 5 della legge
n. 157 del 1992 – la Regione Emilia-Romagna nega che il decreto
impugnato possa trarre fondamento dall’art. 18, comma 3, della legge
n. 157 del 1992, concernendo quest’ultima disposizione soltanto un
meccanismo di rapido recepimento delle variazioni degli elenchi delle
specie cacciabili, intervenute a livello comunitario o
internazionale. Il decreto stesso non potrebbe essere giustificato
nemmeno appellandosi all’interesse nazionale, dal momento che alla
cura del medesimo lo Stato deve provvedere attraverso gli strumenti
apprestati dall’ordinamento, e non con atti extra ordinem. Secondo il
ricorso l’atto non potrebbe giustificarsi neppure con il richiamo
alla necessità di adeguarsi al predetto parere della Commissione,
giacché ciò deve avvenire seguendo le procedure previste dalla
legge n. 86 del 1989; e neppure con riferimento alla funzione di
indirizzo e di coordinamento, mancando la minima base normativa, non
essendo stata espletata la procedura di intesa di cui all’art. 8
della legge n. 59 del 1997 e non essendo consentito limitare le
competenze regionali mediante strumenti di cogestione e di controllo
non previsti da alcuna norma, così come vorrebbero, invece, gli
artt. 2, 3 e 4 del provvedimento impugnato. La totale carenza di
fondamento giuridico colpirebbe anche quella parte del decreto
presidenziale che, in forma impropria ed arbitraria, recepisce
letteralmente le disposizioni di cui all’art. 9 della direttiva
79/409/CEE, peraltro già operanti nel nostro ordinamento, risultando
esse sufficientemente dettagliate ed essendo scaduti i termini per il
recepimento, come espressamente rilevato in argomento dalla stessa
Corte di giustizia, nella già citata sentenza 7 marzo 1996 (punto
19). Ferma l’applicabilità diretta dell’art. 9 della direttiva (e
comunque la facoltà delle Regioni di darvi esse stesse specifica
attuazione), la ricorrente deduce la lesività dell’intero
provvedimento ed in particolare dei poteri statali di cui agli artt.
2, 3 e 4 del decreto stesso, segnatamente con riguardo alla prevista
procedura di intesa tra le Regioni ed i Ministri dell’ambiente e per
le politiche agricole, che realizzerebbe un illegittimo “procedimento
di codecisione”, comportante una sovrapposizione dello Stato in
scelte necessariamente puntuali e specifiche, correlate alle
condizioni locali, nonché alla prevista riserva all’Istituto
nazionale per la fauna selvatica del potere di dichiarare che le
condizioni stabilite ai sensi degli artt. 2 e 3 del d.P.C.m. sono
realizzate.
4. – Contro il menzionato decreto ha proposto ricorso anche la
Regione Umbria (Reg. confl. n. 3 del 1998), la quale, nel ricordare
di aver già adottato una disciplina delle deroghe ex art. 9 della
già citata direttiva comunitaria, con legge attualmente impugnata
dal Governo innanzi alla Corte, deduce che la relativa potestà
rientra tra le competenze regionali, alla luce di quanto disposto, in
tema di caccia, dall’art. 117 della Costituzione, dall’art. 1,
lettera o), del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e dall’art. 99 del
d.P.R. n. 616 del 1977 che, in attuazione degli artt. 117 e 118
della Costituzione, operano una attribuzione totale delle funzioni in
materia di caccia alle Regioni; nonché dall’art. 6 del d.P.R. n. 616
del 1977 e dall’art. 9 della legge n. 86 del 1989, in tema di
competenze regionali attuative dell’ordinamento comunitario;
dall’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 relativo alla
disciplina degli elenchi delle specie cacciabili; dalla legge 15
marzo 1997, n. 59, avuto riguardo, in particolare, agli artt. 1 e 4,
che prevedono il conferimento alla Regione di tutte le funzioni
riguardanti la promozione e lo sviluppo delle relative comunità,
salvo quelle attribuite espressamente allo Stato, nell’osservanza del
principio di sussidiarietà, nonché all’art. 8 che contempla la
nuova disciplina dell’esercizio della funzione di indirizzo e
coordinamento; dal decreto legislativo n. 143 del 1997, che conferma
l’attribuzione alle Regioni di tutte le funzioni in materia di caccia
(art. 1); dal decreto legislativo n. 281 del 1997, che ha ridefinito
ed ampliato le attribuzioni della Conferenza permanente Stato-Regioni
(art. 2, comma 3). La spettanza alla Regione, ai sensi dell’art. 117
della Costituzione, dell’art. 99 del d.P.R. n. 616 del 1977 e ora
anche dell’art. 1 del decreto legislativo n. 143 del 1997, del potere
di disporre la deroga di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria
79/409/CEE – che, per la “sua puntualità” può essere considerata,
ad avviso della ricorrente, “come un regolamento” – sarebbe stata
riconosciuta dagli stessi organi governativi (v. circolari del
Ministero dell’agricoltura e delle foreste e del Ministero delle
risorse agricole del 1993 e del 1994), in conformità sia
all’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa sia al
parere reso in argomento dal Consiglio di Stato. Nell’escludere che
la legge n. 157 del 1992 abbia dato attuazione alla direttiva
comunitaria per quel che riguarda il regime di deroga e nel sostenere
il carattere autoapplicativo dell’art. 9 della direttiva stessa, il
ricorso osserva che, a fini sostanzialmente differenti, risponde,
invece, la disciplina nazionale della individuazione delle specie
cacciabili, introdotta con l’art. 18 della predetta legge n. 157 del
1992, e spettante allo Stato. Né potrebbe farsi richiamo agli
interessi unitari, per sostenere che la potestà di deroga appartiene
allo Stato, non essendo ciò conforme né al diritto positivo, né
alle stesse finalità dell’istituto, trattandosi di “potestà da
esercitare per ambiti definiti nel tempo, nello spazio e nelle
modalità”. Il decreto impugnato (assimilabile ad un regolamento
ministeriale) sarebbe, comunque, in contrasto anche con l’art. 17,
comma 3, della legge n. 400 del 1988, che circoscrive la potestà
regolamentare ministeriale alle sole materie di competenza del
Ministro. Rilevato, quindi, che con un semplice atto di natura
regolamentare vengono dettate disposizioni che, semmai, avrebbe
dovuto emanare il legislatore, la Regione sostiene che, con riguardo
all’attuazione dei regolamenti comunitari inerenti a materie di
competenza regionale, come andrebbe considerata la disciplina
dell’art. 9 della direttiva, lo Stato avrebbe una competenza del
tutto residuale ed eccezionale. L’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977
riserverebbe le funzioni relative all’applicazione dei regolamenti
comunitari alle Regioni, mentre la legge n. 86 del 1989 (avuto
riguardo anche a quanto risulta dai commi 5 e 6 dell’art. 9)
consentirebbe il ricorso, da parte dello Stato, al regolamento nel
solo caso dell’art. 4, vale a dire quando ciò sia previsto dalla
legge comunitaria per l’anno di riferimento e a condizione che venga
seguita la procedura di cui all’art. 17 della legge n. 400 del 1988
(cfr. sentenze n. 278 del 1993 e n. 304 del 1987). Escluso che
vengano in rilievo interessi unitari, si osserva che questi avrebbero
dovuto eventualmente trovare soddisfazione attraverso la funzione di
indirizzo e coordinamento, nell’osservanza, naturalmente, dei limiti
formali e sostanziali stabiliti dalla legge. Fermo restando
comunque, che l’esercizio di quest’ultima funzione non potrebbe
tradursi in disposizioni tanto puntuali da precludere ogni intervento
alla Regione, si evidenzia la mancata acquisizione della previa
intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni, con conseguente
violazione dell’art. 8 della legge n. 59 del 1997. Sulla medesima
linea, si richiama, altresì, il disposto dell’art. 2, comma 3, del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, che prevede il parere
della Conferenza Stato-Regioni sugli schemi di regolamento nelle
materie di competenza regionale.
5. – Conflitto nei confronti dello Stato (Reg. confl. n. 5 del
1998), in relazione al menzionato decreto presidenziale, è stato
sollevato, infine, dalla Regione Lombardia, la quale chiede che,
previa sospensione dell’impugnato provvedimento, la Corte: a)
dichiari non spettare al Presidente del Consiglio – se non a seguito
di deliberazione del Consiglio dei ministri nonché a seguito di
intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni l’adozione di atti
di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa delle
Regioni in materia di caccia; b) al tempo stesso, riconosca che
spetta alla Regione Lombardia il potere di adottare le deroghe
previste dall’art. 9 della direttiva CEE e di individuarne le
modalità di attuazione; c) in subordine, dichiari che spetta alla
Regione per lo meno il potere di individuare le modalità concrete di
attuazione delle deroghe stesse.
5.1. – Nel far presente di aver disciplinato con legge regionale 30
agosto 1997, n. 34, la materia delle deroghe (di poi in concreto
esercitate dalla Giunta con delibera 29 settembre 1997), la
ricorrente Regione deduce la lesione delle sue competenze in materia
di caccia, desumibili dagli artt. 97, 117 e 118 della Costituzione,
in relazione agli artt. 1 e 9 della legge 11 febbraio 1992, n. 157,
al decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, ai principi fissati
dalla giurisprudenza costituzionale ed all’art. 8 della legge n. 59
del 1997. Attese le competenze regionali in materia di caccia, il
ricorso sostiene che lo Stato potrebbe intervenire in materia
avvalendosi della funzione di indirizzo e coordinamento, nel
rispetto, tuttavia, dei necessari requisiti formali e sostanziali,
tra cui la delibera del Consiglio dei ministri, senza trascurare
l’ulteriore condizione della previa intesa con la Conferenza
Stato-Regioni, introdotta dall’art. 8 della legge n. 59 del 1997 e
confermata dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 143 del
1997.
5.2. – Con un secondo gruppo di censure la ricorrente prospetta,
sotto ulteriori profili, la violazione degli artt. 97, 117 e 118
della Costituzione, in relazione agli artt. 1 e 2 del decreto
legislativo n. 143 del 1997, all’art. 18, comma 3, della legge n. 157
del 1992 ed alla legge della Regione Lombardia n. 34 del 1997. Si
afferma, in particolare, che la disposizione dell’art. 2 del
provvedimento impugnato, nel disporre la previa intesa con i Ministri
dell’ambiente e per le politiche agricole, risulterebbe lesiva delle
competenze attribuite alle Regioni, quali desumibili dagli artt. 117
e 118 della Costituzione, dall’art. 18, comma 3, della stessa legge
n. 157 del 1992 e dal decreto legislativo n. 143 del 1997, che ha
trasferito alle Regioni stesse tutte le funzioni già svolte dal
soppresso Ministero delle risorse agricole, lasciando allo Stato le
sole funzioni previste dall’art. 2: tra queste sarebbe quindi
ricompreso – nell’impossibilità di una interpretazione estensiva di
detto art. 2 – il potere di individuazione delle specie cacciabili e
di variazione del relativo elenco, secondo l’art. 18, comma 3, della
legge n. 157 del 1992, ma non il potere di deroga. Né potrebbe
indurre a diverse conclusioni la sentenza di questa Corte n. 272 del
1996, che, pur riconoscendo la competenza statale in ordine alle
deroghe di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria, avrebbe posto,
in realtà, una distinzione tra il potere di deroga e quello di
modifica delle specie cacciabili. Si osserva, altresì, che, essendo
stato il decreto legislativo n. 143 del 1997 emanato successivamente
a tale sentenza, solo un’esplicita attribuzione di competenza, da
parte dell’art. 2 del decreto stesso, avrebbe potuto far ritenere
sussistente il potere statale in tema di deroghe. Tale conclusione
risulterebbe avvalorata dal fatto che la legge della Regione
Lombardia, che ha attribuito alla Giunta regionale sia il potere di
adottare le deroghe sia quello di individuarne le modalità di
attuazione, non è stata oggetto di rilievi da parte del commissario
del Governo.
5.3. – In via subordinata, si deduce, infine, che, anche a voler
seguire la tesi secondo cui, per l’adozione delle deroghe, le Regioni
dovrebbero raggiungere l’intesa con i due Ministri interessati, “non
può in ogni caso essere revocata in dubbio la potestà regionale di
autonoma individuazione delle modalità di attuazione delle deroghe
stesse”; sotto questo profilo il decreto impugnato sarebbe comunque
illegittimo, per violazione degli artt. 97, 117 e 118 della
Costituzione, nonché dell’art. 18, comma 4, della legge n. 157 del
1992.
6. – Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in
tutti i giudizi con il deposito di distinti atti, chiedendo che i
ricorsi siano respinti perché infondati; formulate puntuali
controdeduzioni in ordine al ricorso proposto dalla Regione Toscana,
alle medesime ha fatto rinvio nelle difese predisposte per gli altri
giudizi.
6.1. – Secondo l’Avvocatura, dall’esame delle premesse
dell’impugnato decreto presidenziale nonché dalla sentenza della
Corte di giustizia 7 marzo 1996 (in causa 118/1994: vedi punto 25),
emergerebbe la necessità per lo Stato – al fine di consentire un
legittimo ingresso nell’ordinamento delle deroghe – di definire
condizioni, modalità e procedure applicative in tutto rispondenti
alle previsioni tassative delle norme comunitarie. Quanto
all’ordinamento nazionale, si sostiene che la Corte costituzionale
avrebbe affermato che “il disposto dell’art. 18 della legge n. 157
del 1992 sottende un interesse nazionale dotato di valore autonomo e
non mero riflesso dell’obbligo di conformarsi al dettato
comunitario”, il quale farebbe sì che l’introduzione delle deroghe
comunitarie non possa non passare attraverso il procedimento di
variazione delle specie cacciabili stabilito dal predetto articolo.
Nell’escludere che il decreto legislativo n. 143 del 1997 abbia
operato un trasferimento alle Regioni anche dei poteri previsti dal
predetto art. 18, l’Avvocatura nega che l’intesa con i Ministri
dell’ambiente e per le politiche agricole leda le attribuzioni
regionali, rispondendo essa all’esigenza di garantire la
realizzazione dell’interesse nazionale alla conservazione delle
specie protette, come pure l’osservanza degli obblighi imposti
dall’art. 9 della direttiva CEE, al fine di evitare situazioni di
responsabilità dello Stato nei confronti della comunità europea.
7. – Indi, con un’unica memoria concernente tutti i giudizi,
l’Avvocatura dello Stato ha svolto ulteriori argomentazioni,
osservando che la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 1996
evidenzierebbe la stretta correlazione esistente tra l’interesse
unitario dello Stato definito dall’art. 18 della legge n. 157 del
1992 e il potere di deroga contemplato dalla direttiva comunitaria,
ponendosi, così, nel solco di una costante giurisprudenza della
Corte costituzionale, che “ha ravvisato nell’elenco delle specie
cacciabili una norma fondamentale che individua un nucleo essenziale
della tutela del patrimonio faunistico nazionale non derogabile e non
disponibile dalle Regioni”. Quanto all’assunto della Regione Veneto,
secondo il quale la dimensione transnazionale della protezione delle
specie migratorie escluderebbe l’interesse unitario dello Stato, esso
non terrebbe conto della circostanza che l’assetto istituzionale dei
rapporti tra la comunità e gli Stati membri in materia di ambiente
è retto dal principio di sussidiarietà, per cui, comunque, viene
fatta salva la facoltà degli Stati di adottare misure per una
protezione maggiore (ai sensi degli artt. 3B, 130R e 130T del
trattato CE e dell’art. 14 della direttiva 79/409/CEE). Osserva,
ancora, la memoria che, pur essendo il ricorso alle deroghe
facoltativo, sarebbe obbligatoria la loro regolamentazione nel
diritto nazionale, a garanzia della corretta applicazione delle
stesse, così come risulta dalla sentenza della Corte di giustizia 7
marzo 1996, dove è sottolineato con particolare vigore il valore
strettamente vincolante delle condizioni stabilite dall’art. 9 della
direttiva. Pertanto la critica delle Regioni avrebbe colto nel segno
se l’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del 1992 fosse stato
utilizzato dall’impugnato decreto presidenziale per disporre una
specifica deroga, e non per lo svolgimento della funzione
sostanzialmente normativa prevista dallo stesso articolo, al fine di
“garantire che le disposizioni dell’art. 9 della direttiva non siano
incorrettamente utilizzate”. E ciò tenendo conto del fatto che
l’interesse unitario messo in giuoco dalla introduzione delle deroghe
vale non soltanto a fondare una competenza regolatrice idonea a
soddisfare le esigenze imposte dal diritto comunitario, “ma anche a
costituire una conseguenziale corresponsabilità dello Stato nella
fase applicativa”.
8. – Anche la Regione Toscana, con memoria del 20 aprile 1998, ha
svolto ulteriori argomentazioni a sostegno delle censure formulate
nel ricorso, ribadendo che la legge n. 157 del 1992 non recherebbe
alcuna disposizione in tema di deroga, lasciando, quindi, inattuata
la stessa direttiva 79/409/CEE. Lo Stato italiano – dopo aver
inserito nell’elenco di cui all’art. 18 della legge n. 157 del 1992
anche alcune specie cacciabili non previste dalla normativa
comunitaria, così privando di significato l’istituto della deroga –
si sarebbe conformato al dettato comunitario con il d.P.C.M. 21 marzo
1997, soltanto a seguito della sentenza della Corte di giustizia del
7 marzo 1996 (che tale difformità aveva rilevato). A seguito di
tale correzione poteva così iniziare l’applicazione del sistema
delle deroghe, di cui all’art. 9 della direttiva CEE, disciplinato
dalla ricorrente con la legge regionale 21 agosto 1997, n. 70. Nel
riaffermare che né la Corte di giustizia, con la sentenza sopra
menzionata del 7 marzo 1996, né la Commissione CE, con il parere 7
agosto 1997, mettono in dubbio che il potere di deroga possa essere
legittimamente svolto dalle Regioni, si rileva la non pertinenza del
richiamo fatto dall’Avvocatura dello Stato alla sentenza della Corte
costituzionale n. 272 del 1996, atteso che il potere di integrare gli
elenchi delle specie cacciabili e il potere di deroga sono
assolutamente diversi. In conclusione si osserva che, alla luce
dell’attuale normativa e in particolare del decreto legislativo n.
143 del 1997, il potere di deroga, lungi dal poter essere ricondotto
in capo allo Stato, spetterebbe alle Regioni che, in alcuni casi, lo
hanno già esercitato e disciplinato con leggi regolarmente vistate
dal commissario del Governo.
9. – Con memoria del 21 aprile 1998 anche la Regione Veneto insiste
nelle conclusioni già formulate. Nel rimandare a quanto già
illustrato nel ricorso “intorno al non efficace recepimento
sostanziale della direttiva attraverso le norme della legge n. 157
del 1992”, si osserva come, nelle disposizioni degli artt. 2, comma
3, e 19 che, secondo il provvedimento impugnato, rappresenterebbero
la disciplina attuativa delle previsioni di cui all’art. 9, paragrafo
1, lettere a) e b), della direttiva, manchino prescrizioni relative
alle condizioni, modalità e procedure applicative della deroga; e
cioè proprio quegli elementi che, a detta dell’Avvocatura, lo Stato
non poteva sottrarsi dal definire legislativamente, per assicurare un
legittimo ingresso nell’ordinamento interno delle deroghe ammesse
dall’art. 9 della direttiva medesima. Secondo la memoria è
singolare constatare come le invocate necessità di puntuale
fissazione dei criteri per un’adeguata attuazione della direttiva si
manifestino tanto pressanti con riferimento all’eventualità di
regolamentazione legislativa regionale quanto superflue, invece, per
un’equivalente attività normativa statale. L’ovvia spiegazione,
secondo il ricorso, sarebbe che nessuna previsione generica operata
da una legge-quadro quale la legge n. 157 del 1992 manifesta
sufficiente flessibilità ad un impiego che, per intrinseca natura,
deve rispondere ad esigenze contingenti e sempre mutevoli, come nel
caso di un sistema di deroghe riconducibile a situazioni peculiari ed
eccezionali. Pertanto, prosegue la Regione, la portata prescrittiva
dell’art. 18 della citata legge n. 157 del 1992 non potrebbe mai
addentrarsi nell’organizzazione settoriale della materia, assegnata
alla competenza primaria di altro soggetto disponente.
10. – La Regione Emilia-Romagna, dal canto suo, con una memoria del
20 aprile 1998, ha, del pari insistito per l’accoglimento del
ricorso, sviluppando ed illustrando le argomentazioni già addotte.
Nell’escludere che la prevista intesa Stato-Regioni possa, così come
sostiene l’Avvocatura dello Stato, trovare fondamento nella predetta
sentenza della Corte di giustizia del 7 marzo 1996, la ricorrente
rileva che, avendo il decreto legislativo n. 143 del 1997 riservato
allo Stato solo i poteri ex art. 18, comma 3, della legge n. 157 del
1992, risulterebbe evidente che esso ha affidato il potere di deroga,
per specifiche e contingenti situazioni locali, alle Regioni, in
conformità agli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della
Costituzione. Comunque, in presenza di un interesse nazionale, lo
Stato avrebbe dovuto provvedere, semmai, con un atto di indirizzo e
coordinamento, e non con l’esercizio congiunto di un potere
spettante, invece, alle Regioni. E questo non senza rilevare che, se
davvero l’eventualità della responsabilità statale per violazioni
commesse dalle Regioni, nel dare attuazione amministrativa alle
normative comunitarie, dovesse esigere “un’intesa statale”,
risulterebbe stravolto l’assetto dei rapporti Stato-Regioni, quale è
configurato dall’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 1977.
11. – Con memoria del 14 aprile 1998, la Regione Umbria eccepisce
preliminarmente l’inammissibilità della costituzione in giudizio del
Presidente del Consiglio dei Ministri, per essere avvenuta oltre il
termine di venti giorni dalla data di notifica del ricorso (29
dicembre 1997), in violazione del disposto dell’art. 27, terzo comma,
delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale del 16 marzo 1956. Quanto al merito, la ricorrente,
nel ribadire e nell’illustrare ulteriormente i motivi del ricorso,
ricorda, in particolare, che la stessa natura del potere di deroga,
corrispondente alla sussistenza di specifiche situazioni locali, ne
escluderebbe l’appartenenza allo Stato. A tali conclusioni
porterebbe, altresì, il principio di sussidiarietà, sancito dalla
legge 15 marzo 1997, n. 59 (art. 4, comma 3, lettera a), ma già
insito nella stessa Costituzione, con riguardo alle materie elencate
nell’art. 117.
11.1. – Con una seconda memoria, in data 19 novembre 1998, la
Regione Umbria sostiene che la legislazione intervenuta
successivamente alla proposizione del ricorso – in particolare
l’art. 69 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento
di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli
enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n.
59) – e la giurisprudenza costituzionale più recente confermerebbero
l’assunto che spetta alla Regione la competenza a disciplinare con
legge e ad esercitare in via amministrativa la deroga prevista
dall’art. 9, lettera c), della direttiva comunitaria. Il che sarebbe,
d’altra parte, nell’ordine delle cose, non essendo dato comprendere,
secondo la Regione, quali ulteriori esigenze di disciplina unitaria
si riscontrino a proposito di un istituto già totalmente
disciplinato, nei suoi aspetti sostanziali, dalla normativa
comunitaria.
Si rileva, altresì, che la competenza piena delle Regioni a
legiferare in materia di deroghe è stata affermata e riconosciuta da
talune mozioni del Senato (precisamente n. 1-00146 del 1997, nonché
n. 1-00286 e n. 1-00289 entrambe del 1998). Ciò premesso e
ribadita l’eccezione di tardività nei confronti della costituzione
in giudizio da parte del Presidente del Consiglio, la Regione Umbria
contesta la fondatezza delle difese svolte dal Governo, osservando in
particolare che, trattandosi di potestà legislativa concorrente, lo
Stato potrebbe in ipotesi emanare norme di principio con legge, ma
non con un atto di natura regolamentare, carente di ogni supporto
legislativo, non adottato dal Governo nella sua collegialità, e
contenente, per di più, una disciplina tale da privare le Regioni di
qualsiasi autonomia anche a livello operativo.
12. – Nell’imminenza dell’udienza anche la Regione Lombardia ha
depositato, il 26 novembre 1998, una memoria secondo la quale la
previsione dell’art. 2, comma 2, del decreto legislativo n. 143 del
1997 varrebbe ad escludere la titolarità del potere di deroga da
parte dello Stato, giacché i poteri attribuiti al Ministro per le
politiche agricole sono poteri di disciplina generale e di
coordinamento nazionale, inconciliabili, come tali, con un potere
derogatorio legato alla realtà locale. Tale tesi sarebbe
corroborata anche dalle enunciazioni dell’art. 69, comma 1, lettera
i), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli
enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n.
59), che ha previsto la spettanza allo Stato delle sole funzioni
espressamente indicate, tra le quali è inserita la potestà di
variazione dell’elenco delle specie cacciabili, ex art. 18, comma 3,
della legge n. 157 del 1992, quale compito di rilievo nazionale. Nel
confermare, infine, le considerazioni già svolte circa la mancanza,
nel provvedimento impugnato, dei presupposti procedimentali e
sostanziali per configurarlo come atto di indirizzo e coordinamento,
si rileva che l’art. 9 della direttiva comunitaria è immediatamente
applicabile, senza bisogno di alcun atto intermedio di
regolamentazione della deroga.
Veneto, Emilia-Romagna, Umbria e Lombardia, nei confronti dello
Stato, concerne, in primo luogo, il decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 27 settembre 1997, recante “Modalità di
esercizio delle deroghe di cui all’art. 9 della direttiva comunitaria
79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici”,
del quale viene chiesto l’annullamento e, quanto all’impugnazione
della Regione Lombardia, anche la previa sospensione.
La predetta direttiva, nel porre a carico degli Stati membri della
Comunità europea una serie di misure, in forma per lo più di
divieti e limitazioni (artt. 5, 6, 7 e 8), ne consente, tuttavia, il
superamento in presenza di motivi di interesse generale dalla stessa
specificati. Dispone, infatti, l’art. 9, paragrafo 1, che gli Stati,
“sempre che non vi siano altre soluzioni soddisfacenti”, possono
derogare ai precedenti articoli: a) per ragioni attinenti alla salute
e sicurezza pubblica, alla sicurezza aerea, alla prevenzione di danni
alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque, alla
protezione della flora e della fauna; b) per esigenze della ricerca,
insegnamento, ripopolamento, ecc.; c) per consentire, infine, “in
condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo, la cattura,
la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in
piccole quantità”; e ciò nell’osservanza, comunque, di puntuali
condizioni specificate nel paragrafo 2.
Il censurato provvedimento presidenziale, al dichiarato fine di
“garantire l’omogeneità di applicazione della normativa comunitaria”
(art. 1, comma 1), dispone che le deroghe di cui alla lettera c) del
paragrafo 1 del predetto art. 9 vengano adottate dalle Regioni
“d’intesa con i Ministri dell’ambiente e per le politiche agricole”,
precisando, altresì, gli elementi che le Regioni stesse sono tenute,
nella circostanza, ad indicare (art. 2). Nell’estendere (art. 3) la
disciplina delle condizioni e modalità di applicazione delle deroghe
anche all’ipotesi della cattura per la cessione a fini di richiamo,
di cui all’art. 4, comma 4, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, il
decreto individua nell’Istituto nazionale per la fauna selvatica
l’autorità abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite ai
sensi degli artt. 2 e 3 sono realizzate (art. 4).
1.1. – La Regione Veneto propone conflitto in relazione, altresì,
alle determinazioni (n. 3242 e n. 3243 del 20 ottobre 1997) con cui
la Commissione di controllo sugli atti della stessa Regione ha
annullato le delibere della Giunta regionale n. 3401 e n. 3402 del 7
ottobre 1997, che avevano provveduto ad applicare le deroghe al
regime delle specie cacciabili, per il periodo 11 ottobre-31 dicembre
1997.
2. – Le Regioni, seguendo un iter argomentativo in larga parte
comune, assumono che il decreto presidenziale sopra menzionato, nel
disciplinare le modalità di esercizio delle deroghe in questione,
sia invasivo della loro sfera di attribuzione, perché non terrebbe
conto dell’ambito delle competenze ad esse spettanti in materia sia
di caccia sia di attuazione delle direttive comunitarie.
2.1. – Le ricorrenti rivendicano le attribuzioni ad esse
costituzionalmente spettanti, quali è dato desumere dagli artt. 117
e 118 nonché, secondo taluna delle ricorrenti, dall’art. 97 (Regione
Lombardia) e dall’art. 125 della Costituzione (Regione
Emilia-Romagna). A ulteriore supporto delle competenze ad esse
spettanti, le ricorrenti stesse evocano, inoltre, con varietà di
richiami, non del tutto coincidenti, un quadro normativo
rappresentato essenzialmente dall’art. 99 del d.P.R. 24 luglio 1977,
n. 616, e dagli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n.
143, deducendone, da un lato, che il Governo non aveva il potere di
provvedere in materia di competenza regionale quale la caccia, e,
dall’altro, che non sussistevano, comunque, i presupposti legali
perché alle amministrazioni regionali fossero imposte, attraverso
l’intesa con due Ministri, posizioni di codecisione governativa su
funzioni di competenza regionale ed attinenti a scelte
necessariamente puntuali.
Quanto poi alle competenze attuative dell’ordinamento comunitario,
a livello legislativo od amministrativo, le Regioni si appellano, per
lo più, alle attribuzioni ad esse riservate, oltre che dall’art. 6
del predetto d.P.R. n. 616 del 1977, dagli artt. 4 e 9 della legge 9
marzo 1989, n. 86, e dall’art. 1, comma 3, della legge 11 febbraio
1992, n. 157.
2.2. – Secondo le ricorrenti la lesione delle attribuzioni
regionali sarebbe ulteriormente avvalorata – oltre che
dall’impossibilità di rinvenire, nell’art. 18, comma 3, della legge
11 febbraio 1992, n. 157, ovvero in esigenze di tutela di interessi
unitari, il fondamento della potestà che lo Stato ha preteso di
esercitare dall’utilizzo di uno strumento extra ordinem quale si
appalesa il censurato decreto presidenziale, che, anche con riguardo
ai contenuti, non troverebbe giustificazione né come espressione
della funzione di indirizzo e coordinamento né come manifestazione
di potere regolamentare.
2.3. – Quanto alla potestà regolamentare, secondo taluni dei
ricorsi, il decreto sarebbe in contrasto:
con l’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che
circoscrive la potestà stessa alle sole materie di competenza del
Ministro (partic. Regione Umbria);
con le norme della legge 9 marzo 1989, n. 86 (in particolare,
artt. 4, 6 e 9), che consentono l’attuazione delle direttive
attraverso lo strumento regolamentare solo quando ciò sia previsto
dalla legge comunitaria per l’anno di riferimento, fermo comunque il
rispetto delle procedure di cui al predetto art. 17 della legge n.
400 del 1988;
con l’art. 2, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.
281, che prevede il parere obbligatorio della Conferenza
Stato-Regioni sugli schemi di regolamento del Governo nelle materie
di competenza delle Regioni e delle Province autonome (partic.
Regione Umbria).
2.4. – In ordine, poi, alla funzione di indirizzo e coordinamento,
a parte il difetto di base legale sostanziale, viene denunciata la
carenza dei requisiti di forma prescritti dalla normativa vigente.
Sotto questo aspetto, dall’insieme dei ricorsi, è dato desumere il
riferimento:
alla deliberazione del Consiglio dei ministri, prevista, tra
l’altro, dall’art. 9, comma 6, della legge n. 86 del 1989 (partic.
Regioni Toscana e Lombardia);
all’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, alla luce,
principalmente, delle previsioni dell’art. 8 della legge 15 marzo
1997, n. 59 e dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 giugno
1997, n. 143 (partic. Regione Lombardia).
2.5. – Sulla scorta degli accennati motivi le ricorrenti Regioni
chiedono, pertanto, che questa Corte dichiari non spettare allo Stato
l’emanazione dell’impugnato decreto presidenziale, sollecitandone
l’annullamento in toto e, secondo le conclusive richieste di taluno
dei ricorsi (Emilia Romagna), anche con specifico riguardo agli artt.
2, 3 e 4.
In subordine la Regione Lombardia chiede, altresì, che si dichiari
spettare ad essa il potere di individuare le modalità concrete di
attuazione delle deroghe.
2.6. – Quanto, poi, alle due determinazioni (n. 3242 e n. 3243 del
10 ottobre 1997) con cui la Commissione di controllo ha annullato le
delibere della Giunta regionale del Veneto (n. 3401 e n. 3402 del 7
ottobre 1997), concernenti le deroghe ai divieti di caccia per il
periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997, la Regione ricorrente, oltre a
lamentare la lesione delle proprie attribuzioni nei termini in
precedenza ricordati, deduce specificamente che le concrete ipotesi
di deroga possono essere definite attraverso provvedimenti
amministrativi, con la conseguenza che la competenza, alla stregua
del disposto degli artt. 6 e 99 del d.P.R. n. 616 del 1977, non
potrebbe non essere regionale.
3. – In via pregiudiziale va disposta la riunione dei giudizi, che,
avendo, infatti, ad oggetto questioni in parte identiche e in parte
connesse, possono essere decisi con un’unica sentenza.
4. – Sempre in via pregiudiziale, quanto al ricorso proposto dalla
Regione Umbria (Reg. confl. n. 3 del 1998), va dichiarata
inammissibile la costituzione del Presidente del Consiglio, avvenuta
oltre il termine prescritto (artt. 25 e 41 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, nonché art. 27 delle norme integrative 16 marzo 1956).
5. – Nel merito i ricorsi proposti dalle Regioni avverso il decreto
presidenziale in epigrafe indicato sono fondati.
6. – I problemi posti dai ricorsi stessi esigono, in vista della
delimitazione della sfera di attribuzione propria di ciascuna delle
parti in causa, una breve ricognizione del contesto normativo di
riferimento, quale si desume, in particolare, dalla legge 11 febbraio
1992, n. 157, il cui art. 18, comma 3, risulta posto a fondamento
dell’impugnato decreto. Tale legge, nel dettare nuove norme per la
protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo
venatorio, ha espressamente disposto (art. 1, comma 4) l’integrale
recepimento ed attuazione, “nei modi e nei termini previsti” dalla
medesima, delle direttive comunitarie concernenti la conservazione
degli uccelli selvatici (79/409/CEE del 2 aprile 1979, 85/411/CEE del
25 luglio 1985 e 91/244/CEE del 6 marzo 1991), con i relativi
allegati.
Appare da ciò chiaro l’intento del legislatore nazionale di
adeguare all’ordinamento comunitario un quadro di disciplina che,
come risulta già dalla sentenza di questa Corte n. 1002 del 1988, si
è venuto componendo nel tempo sulla base di principi, riconfermati
dalla più recente normativa, che sono quelli dell’appartenenza della
fauna selvatica al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 1,
comma 1, della citata legge); dell’affievolimento del tradizionale
“diritto di caccia”, che viene subordinato all’istanza prevalente
della conservazione del patrimonio faunistico e della salvaguardia
della produzione agricola (art. 1, comma 2); della previsione,
infine, di un regime di caccia programmata per tutto il territorio
nazionale (art. 14), cui fa riscontro, come si desume anche dal
menzionato art. 18, comma 3, la puntuale indicazione delle specie
cacciabili in un apposito elenco; elenco suscettibile, peraltro, di
modifica, attraverso decreti emanati dal Presidente del Consiglio dei
Ministri, al fine di realizzare la costante consonanza tra
ordinamento nazionale e disciplina comunitaria e internazionale (v.
sentenza n. 277 del 1998).
7. – Nell’ambito del descritto sistema, ispirato alla preminente
finalità della tutela della fauna, i ricorsi sollevano il problema
della spettanza del potere di apportare le deroghe previste dall’art.
9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 79/409/CEE, al generale
regime protettivo degli uccelli selvatici ivi stabilito.
8. – Questa Corte, con la sentenza n. 272 del 1996, esaminando il
problema dei limiti in cui la disposizione comunitaria concernente le
deroghe possa reputarsi immediatamente efficace nell’ordinamento
interno, ha ritenuto che essa sia da considerare operativa solo nel
senso di legittimare le autorità nazionali ad adottare, ove lo
ritengano, provvedimenti che consentano di superare i divieti della
direttiva, verificando che ricorrano le situazioni ipotizzate e
apprestando specifiche misure comportanti, in armonia con le
indicazioni della giurisprudenza comunitaria, un circostanziato
riferimento agli elementi di cui ai paragrafi 1 e 2 della
disposizione stessa. Inoltre, quanto al potere di variazione
dell’elenco delle specie cacciabili, affidato al Presidente del
Consiglio dei Ministri dall’art. 18, comma 3, della legge n. 157 del
1992, la sentenza medesima ha ribadito il principio, accolto in
precedenza dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, in
considerazione del carattere di norme di riforma economico-sociale
proprio delle disposizioni protettive della fauna selvatica, nonché
del carattere unitario degli interessi ad esse sottostanti, è data,
attualmente, alle Regioni la facoltà di modificare detto elenco
soltanto in senso ulteriormente limitativo, e non estensivo, delle
eccezioni al divieto generale di caccia (sentenze n. 577 del 1990 e
n. 1002 del 1988).
9. – Ciò premesso, può osservarsi, venendo così al merito delle
censure, che le attribuzioni che incontestabilmente spettano alle
Regioni, in tema di caccia, non consentono, anche a tener conto
dell’ulteriore trasferimento di competenze operato in loro favore dal
decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, il disconoscimento delle
competenze che, in materia di tutela della fauna selvatica, restano,
comunque, affidate allo Stato e che sono tali da riverberarsi, come
questa Corte ha avuto occasione di affermare, anche sulla disciplina
delle modalità della caccia stessa, nei limiti in cui prevede misure
indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione
delle specie selvatiche (sentenza n. 323 del 1998). Ciò non
significa, però, che lo Stato sia legittimato ad intervenire sulla
base di presupposti e secondo modalità che non siano quelli
richiesti dall’ordinamento. Ed è proprio alla luce dei principi che
lo Stato è tenuto ad osservare che il decreto presidenziale
impugnato va reputato illegittimo, vuoi a considerarlo un atto di
natura regolamentare vuoi a reputarlo un atto di indirizzo e
coordinamento.
10. – Sotto il primo profilo occorre rammentare, anzitutto,
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale i
regolamenti, governativi o ministeriali, non sono in via di principio
legittimati a disciplinare, in ragione della distribuzione delle
competenze normative fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 della
Costituzione, le materie di spettanza regionale.
Tuttavia questa Corte non ignora (v. anche sentenza n. 278 del
1993) come, negli anni più recenti, il legislatore abbia provveduto
ad ampliare la possibilità di ricorso a discipline dettate da fonti
normative di rango non legislativo, alla stregua di orientamenti di
carattere generale che hanno trovato specifico accoglimento anche in
materia di recepimento e di attuazione dell’ordinamento comunitario,
con riguardo segnatamente all’espressa e condizionante disciplina
della legge 9 marzo 1989, n. 86, circa casi e modalità per
l’esercizio del potere regolamentare (art. 4).
Senza che occorra qui affrontare la problematica posta dalle regole
che, come sopra accennato, riguardano il rapporto fra fonti statali e
fonti regionali, è sufficiente considerare che tale disciplina
avrebbe, in ogni caso, richiesto un procedimento diverso da quello
seguito, secondo quanto specificato nei commi 4 e 5 dell’art. 4 della
menzionata legge (e cioè, in particolare, deliberazione collegiale
del Governo, parere delle competenti Commissioni parlamentari, ove
richiesto dalla legge comunitaria, e parere del Consiglio di Stato);
ciò a tacere della più recente previsione dell’art. 2, comma 3, del
decreto legislativo n. 281 del 1997, il quale esige che la Conferenza
Stato-Regioni sia obbligatoriamente sentita “sugli schemi di
regolamento nelle materie di competenza regionale”.
Decisivo è, poi, il rilievo inerente all’avvenuto esercizio della
potestà regolamentare in assenza del necessario supporto
legislativo, considerato che l’opzione a favore della soluzione
regolamentare deve essere, in base al predetto art. 4 della legge n.
86 del 1989, espressamente indicata nella legge comunitaria. Il che
non si riscontra nel caso del provvedimento in esame, che, tra
l’altro, non può rinvenire la sua base legale nemmeno nell’art. 18,
comma 3, della legge n. 157 del 1992, pur richiamato nelle premesse,
dovendosi tener distinto, così come esattamente avvertono le
ricorrenti, il potere di modifica degli elenchi, da tale disposizione
disciplinato, dal potere di deroga di cui all’art. 9, paragrafo 1,
lettera c), della direttiva comunitaria; potere che, in effetti, la
legge n. 157 del 1992, nonostante l’avvenuto recepimento della
direttiva comunitaria (art. 1, comma 4), non ha in alcun modo
disciplinato.
A tale esigenza di distinzione non contraddice la sentenza di
questa Corte n. 272 del 1996, che, benché invocata in senso
antitetico da quasi tutte le parti in causa a sostegno delle proprie
ragioni, si è soffermata sul potere di variazione, riservato allo
Stato dal predetto art. 18, quale strumento per recepire, come
risulta dalla disposizione stessa, i nuovi elenchi delle specie
cacciabili, a seguito dell’avvenuta approvazione comunitaria o
dell’entrata in vigore delle convenzioni internazionali sottoscritte
dall’Italia, ma in nessun modo ha asserito che detto potere possa
reputarsi espressivo anche di quello attinente alla disciplina delle
deroghe, sì da legittimare il provvedimento oggetto della presente
impugnativa.
11. – Non diverse appaiono le conclusioni, ove si riconduca l’atto
contestato alla funzione di indirizzo e coordinamento, nel cui
esercizio il Governo è tenuto, del pari, a soddisfare precisi
requisiti di forma e di sostanza: di forma, dovendo la stessa
funzione essere svolta per mezzo di una delibera del Consiglio dei
ministri, adottata previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni,
secondo le regole oggi desumibili dall’art. 8 della legge 15 marzo
1997, n. 59 (nel testo risultante dalla sentenza di questa Corte n.
408 del 1998); di sostanza, attesa la necessità di un idoneo
fondamento legislativo, consistente nella previa determinazione con
legge dei principi ai quali il Governo deve attenersi.
12. – Peraltro, le esposte considerazioni, dalle quali discende
l’illegittimità del censurato decreto presidenziale, non conducono a
ritenere fondata la pretesa della Regione Veneto, nella parte in cui,
impugnando le determinazioni negative dell’organo statale di
controllo sulle delibere adottate dalla Giunta, rivendica
sostanzialmente per sé la facoltà di applicare la deroga, per di
più attraverso provvedimenti di carattere amministrativo.
Poiché, come appare del resto condiviso dalle Regioni ricorrenti,
la legge 11 febbraio 1992, n. 157, pur avendo recepito espressamente
(art. 1, comma 4) la direttiva comunitaria, non ha in alcun modo
disciplinato la facoltà di deroga prevista dall’art. 9, paragrafo 1,
lettera c), ne discende necessariamente la conclusione che l’assetto
attualmente dato alla materia dalla legislazione nazionale è, per
questo aspetto, da reputare – anche in considerazione del carattere
meramente facoltativo dell’attivazione delle deroghe – di per sé
compiuto, con la sola previsione del potere di variazione degli
elenchi attraverso i quali si provvede all’individuazione delle
specie cacciabili. Non è, d’altro canto, da ritenere che, in tale
situazione, le Regioni possano provvedere ad attivare autonomamente
le deroghe, in quanto l’esercizio di un siffatto potere si
rifletterebbe sulla tutela minima delle specie protette, il cui
nucleo viene identificato dallo Stato sia con la legge sia con i
successivi atti, adottati nell’esercizio del potere di variazione
previsto dall’art. 18, comma 3; potere espressamente annoverato, di
recente, dal legislatore (art. 69, comma 1, lettera i), del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112), fra i “compiti di rilievo
nazionale per la tutela dell’ambiente” (in tal senso v. anche
sentenza n. 168 del 1999). Tale nucleo, nell’impedire alle Regioni di
estendere la portata delle eccezioni al divieto generale di caccia,
non può venire, infatti, ricostruito – come questa Corte ha avuto
cura di precisare e come è il caso qui di ribadire – sulla sola base
di una generica compatibilità tra la regola del divieto di caccia e
un determinato numero di eccezioni (sentenza n. 577 del 1990).
Esso va, in realtà, visto come la risultante di una serie di
opzioni qualitative concernenti le singole specie animali cacciabili
e non cacciabili, che non può essere incisa e alterata da
contrastanti scelte degli enti territoriali, anche ad autonomia
speciale, se non a condizione di creare situazioni di incertezza
sull’estensione della stessa sfera protetta come interesse unitario
(sentenza n. 577 del 1990 già citata). E questo senza che venga a
configurarsi un inadempimento degli obblighi derivanti
dall’ordinamento comunitario, riscontrandosi, nella specie, non
esigenze di adeguamento ai vincoli da esso positivamente stabiliti,
bensì soltanto il mancato esercizio di una facoltà che
consentirebbe, attivando la deroga, il parziale esonero
dall’osservanza degli stessi vincoli.
13. – Al di là della specifica prospettiva, dalla quale muovono le
ricorrenti, e cioè quella delle loro competenze in materia di
caccia, si deve inoltre considerare che, a tener presenti le varie
situazioni che, secondo la direttiva comunitaria, autorizzano il
ricorso allo strumento della deroga, si evince una varietà di
interessi che appaiono, per lo più, di pertinenza dello Stato. In
questa prospettiva anche la stessa locuzione della lettera c), là
dove richiama l’esigenza di “consentire in condizioni rigidamente
controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri
impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità”,
parrebbe, invero, far riferimento a ipotesi che non appaiono
compiutamente identificabili con l’attività venatoria.
La molteplicità di interessi ed esigenze che vengono in rilievo
dimostra, dunque, che si tratta di regole che spetta in primis allo
Stato di dettare, sia perché titolare degli interessi preminenti
nella stessa gerarchia desumibile dall’art. 9 della direttiva sia per
evidenti esigenze di uniformità di assetto e di organicità del
sistema, che non tollererebbero, come è evidente, la
parcellizzazione di interventi affidati totalmente alle Regioni.
14. – In conclusione, posto che la disposizione dell’art. 9,
paragrafo 1, lettera c), della direttiva comunitaria richiede, per la
sua concreta attuazione nell’ordinamento interno, una legge nazionale
che valuti e ponderi i vari interessi che vengono in rilievo e che
non sono certamente soltanto quelli connessi all’esercizio venatorio,
la Regione Veneto non ha motivo di dolersi, quanto alla pretesa
lesione della propria sfera di attribuzioni, dell’avvenuto
annullamento, da parte della Commissione di controllo sugli atti
della Regione, dei provvedimenti con i quali la Giunta aveva
provveduto a disciplinare in via amministrativa le deroghe in tema di
specie cacciabili per il periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997.
15. – L’istanza cautelare avanzata dalla Regione Lombardia rimane
assorbita dalla presente decisione di merito.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara che:
non spetta allo Stato disciplinare con il decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 27 settembre 1997 le modalità di
esercizio delle deroghe di cui all’art. 9, paragrafo 1, lettera c),
della direttiva comunitaria 79/409/CEE, concernente la conservazione
degli uccelli selvatici, e di conseguenza annulla detto decreto;
spetta allo Stato, e per esso alla Commissione di controllo sugli
atti della Regione Veneto, annullare le delibere della Giunta
regionale n. 3401 e n. 3402 del 7 ottobre 1997, aventi ad oggetto
l’applicazione delle deroghe al regime della specie cacciabili per il
periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 maggio 1999.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Vari
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 14 maggio 1999.
Il direttore della cancelleria: Di Paola