Sentenza N. 172 del 1982
Corte Costituzionale
Data generale
26/10/1982
Data deposito/pubblicazione
26/10/1982
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/10/1982
ANTONINO DE STEFANO – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Prof. LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO
MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO ANDRIOLI – Prof.
GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA – Prof. GIOVANNI CONSO,
Giudici,
secondo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico
delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati),
promosso con ordinanza emessa il 9 dicembre 1980 dal Tribunale
amministrativo regionale per il Piemonte, sul ricorso proposto da
Ambrosini Giangiulio contro il Ministero di grazia e giustizia ed
altro, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 1981 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 221 del 12 agosto 1981.
Visti l’atto di costituzione di Ambrosini Giangiulio e l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 giugno 1982 il Giudice relatore
Francesco Saja;
uditi l’avv. Claudio Dal Piaz, per Ambrosini Giangiulio e
l’avvocato dello Stato Carlo Carbone, per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Il dott. Giangiulio Ambrosini, magistrato di tribunale con funzioni
di giudice del Tribunale di Torino, veniva collocato in aspettativa per
motivi elettorali a decorrere dal 27 aprile 1979 e fino alla
proclamazione dell’esito della consultazione del giugno successivo,
nella quale il medesimo, presentatosi candidato per la Camera dei
deputati, risultava non eletto.
Con decreto presidenziale del 4 dicembre 1979, emesso su conforme
deliberazione del Consiglio superiore della magistratura, il dott.
Ambrosini veniva richiamato in servizio ed assegnato d’ufficio alla
Pretura di Roma, in applicazione dell’art. 8, secondo comma, d.P.R. 30
marzo 1957 n. 361 (testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione
della Camera dei deputati) secondo cui i magistrati che sono stati
candidati e non sono stati eletti non possono esercitare per un periodo
di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione nei cui ambito si
sono svolte le elezioni.
Egli ricorreva al Tribunale amministrativo regionale del Piemonte
contro il detto provvedimento e il giudice adito, con ordinanza del 9
dicembre 1980, sollevava questione di legittimità costituzionale
dell’art. 8, secondo comma, citato.
Il Tribunale dubita anzitutto che la disposizione contrasti col
principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., ponendo i magistrati,
rispetto agli altri pubblici dipendenti, in una situazione di sfavore
non giustificato dalla necessaria salvaguardia della loro indipendenza
ed imparzialità.
Il Tribunale dubita altresì che la norma in questione contrasti
con l’art. 51, primo comma, Cost. risolvendosi essa, per gli effetti
pregiudizievoli sul rapporto di servizio del magistrato, in una
ingiustificata limitazione al diritto di accesso alle cariche elettive,
nonché con lo stesso art. 51, terzo comma, ultima parte, che
attribuisce ai candidati eletti il diritto di conservare il posto di
lavoro.
Infine il Tribunale prospetta il dubbio di contrasto tra la
disposizione impugnata e l’art. 107, primo comma, Cost., poiché essa
limita l’autonomia di giudizio del Consiglio superiore della
magistratura, affidandogli la mera ricezione di scelte già operate in
sede politica e di conseguenza rigidamente prefigurate dal legislatore
ordinario.
L’ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, è stata
pubblicata nella G. U. n. 221 del 12 agosto 1981.
La parte privata si è costituita chiedendo dichiararsi la
illegittimità costituzionale della norma denunziata.
La Presidenza del Consiglio dei ministri, intervenuta, nega che il
trattamento differenziato, riservato ai magistrati dalla disposizione
impugnata, sia privo di giustificazione, stante la non assimilabilità
della funzione giudiziaria alle altre funzioni pubbliche; non
assimilabilità dimostrata, tra l’altro, dalle disposizioni degli artt.
101 (soggezione del giudice soltanto alla legge) e 104 (autonomia e
indipendenza della magistratura) Cost.
L’art. 8 d.P.R. n. 361 del 1957 si giustifica costituzionalmente,
secondo l’interveniente, in quanto serve ad assicurare che il giudice
non solo sia ma anche appaia imparziale, prevenendo perciò il sospetto
che, nella circoscrizione in cui non è stato eletto, egli possa essere
influenzato da risentimenti per l’esito non favorevole della
candidatura. Nega, infine, l’interveniente che il giudice fornito di
competenza territoriale limitata sia ingiustificatamente sfavorito di
fronte al magistrato appartenente ad un organo centrale, giacché le
dimensioni della competenza di quest’ultimo escludono il pericolo di
inquinamento politico delle funzioni e rendono così inutile, oltreché
impossibile, l’operatività della norma impugnata.
1. – Con l’ordinanza di rimessione il Tribunale amministrativo
regionale del Piemonte ha sollevato questione di legittimità
costituzionale relativamente all’art. 8, secondo comma, d.P.R. 30 marzo
1957 n. 361, per cui i magistrati – esclusi quelli delle
giurisdizioni superiori -, che sono stati candidati alle elezioni della
Camera dei deputati e non sono stati eletti, non possono esercitare per
un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione in cui
si sono svolte le elezioni. Per il giudice a quo la norma sarebbe in
contrasto:
a) con l’art. 3 primo comma della Costituzione, in quanto riserva
ai magistrati un trattamento ingiustificatamente più sfavorevole
rispetto ai dipendenti pubblici che svolgono funzioni non meno delicate
e socialmente rilevanti di quelle giudiziarie; ed in quanto altresi la
limitazione concerne soltanto i magistrati di merito e non anche quelli
appartenenti alle giurisdizioni superiori;
b) con l’art. 51 primo e terzo comma della Costituzione, in quanto
limita senza sufficienti giustificazioni il diritto dei magistrati
all’accesso ad una carica elettiva, pregiudicando il loro rapporto di
servizio;
c) con l’art. 107 primo comma della Costituzione, in quanto, in
materia di inamovibilità dei magistrati, limita l’autonomia di
giudizio del Consiglio superiore della magistratura, affidandogli la
mera ricezione di scelte già operate in sede politica e di conseguenza
rigidamente prefigurate dal legislatore ordinario.
2. – In relazione al primo profilo della censura sub a, il giudice
a quo, premesso che il dovere di imparzialità è comune ai magistrati
ed ai dipendenti della pubblica amministrazione, prospetta il dubbio
che la ricordata limitazione del cit. art. 8, secondo comma, d.P.R. 30
marzo 1957 n. 361, sancita soltanto per i primi, confligga con l’art. 3
Cost. perché consentirebbe un’irrazionale disparità di trattamento.
La censura non sembra convincente, difettando nella specie il
requisito dell’omogeneità delle situazioni giuridiche, il quale
costituisce il necessario presupposto per l’applicabilità del cit.
art. 3.
Il comune dovere di imparzialità non permette, invero, di
parificare i magistrati ai pubblici dipendenti, essendo dalla
Costituzione riservata solo ai primi, per la natura della loro
funzione, una disciplina del tutto particolare, contenuta nel Titolo IV
(art. 101 e segg.); questa disciplina, da un lato, assicura una
posizione peculiare, dall’altro, correlativamente, comporta
l’imposizione di speciali doveri.
Il principio, che è stato affermato da questa Corte con le
sentenze 8 giugno 1981 n. 100 e 22 giugno 1976 n. 145, non può non
essere ribadito, considerata la sua indubbia esattezza, anche nel
presente giudizio.
Con l’opinione del giudice a quo contrasta, in particolare, il
fatto che al magistrato è affidata la tutela giurisdizionale del
cittadino rispetto agli atti della pubblica amministrazione, il che
esclude la possibilità di parificazione, prospettata nell’ordinanza di
rimessione, tra il giudice, a cui spetta tale potere, e il pubblico
funzionario, sugli atti del quale il potere stesso viene esercitato. E
contrasta altresì il fatto che il giudice opera in piena autonomia
funzionale (art. 101, secondo comma, Cost.) e organica (art. 104, primo
comma, Cost.), sicché non sono a lui applicabili quegli istituti
connessi col principio gerarchico (potere di impartire ordini, potere
sostitutivo, potere di annullamento). che consentono di controllare e
condizionare l’iniziativa del singolo funzionario amministrativo.
Pertanto, non può essere ritenuta illegittima una norma, quale
quella denunciata, che sancisce l’incompatibilità suindicata soltanto
per i magistrati e non pure per i dipendenti della pubblica
amministrazione.
3. – Nel la censura può dirsi fondata sotto il secondo profilo
prospettato, secondo cui, essendo esclusi dalla limitazione i
magistrati delle giurisdizioni superiori, si configurerebbe nei
riguardi degli altri magistrati, ai quali l’incompatibilità si
riferisce, un’ingiustificata disparità di trattamento.
Anche qui, invero, non possono ritenersi omogenee le situazioni
messe a confronto.
Si potrebbe anzitutto osservare che può esservi un impedimento di
natura tecnica, riuscendo impossibile o comunque estremamente difficile
la destinazione ad altro ufficio del magistrato appartenente a una
giurisdizione superiore (Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte
dei conti).
Ma quel che più conta è che il magistrato non appartenente ad una
giurisdizione superiore, se non vi fosse l’incompatibilità in esame,
dovrebbe necessariamente ed esclusivamente occuparsi di processi
relativi alla circoscrizione in cui ha posto la sua candidatura, mentre
per il magistrato della giurisdizione superiore, la quale ha competenza
sull’intero territorio nazionale, la cognizione di tali processi è
puramente eventuale ed episodica. Pertanto l’inconveniente, che il
legislatore ha voluto evitare, si presenta nei confronti di
quest’ultimo in proporzioni notevolmente minori e, peraltro, può
essere completamente evitato mediante l’assegnazione di processi
provenienti da altre circoscrizioni.
Tutto ciò, come si è già accennato, esclude che vi sia
omogeneità tra le due situazioni, per cui deve ritenersi che il
legislatore ha legittimamente predisposto una disciplina differenziata
nei casi anzidetti.
4. – Il giudice a quo dubita poi della legittimità costituzionale
della norma denunziata con riferimento all’art. 51, primo e terzo
comma, Cost.
Il cit. art. 51, primo comma, dopo aver riaffermato il principio di
eguaglianza fra tutti i cittadini per l’ammissione ai pubblici uffici e
alle cariche elettive, rinvia alla legge ordinaria per la
determinazione dei requisiti necessari (“Tutti i cittadini dell’uno e
dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche
elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti
dalla legge”). Ed è proprio per effetto di tale rinvio che il
legislatore ha fissato nelle varie leggi i requisiti attitudinali
necessari e, in particolare, le cause di ineleggibilità, che sono
state ritenute da questa Corte pienamente legittime se contenute entro
limiti razionali. In verità, nella specie non trattasi propriamente di
ineleggibilità, non incidendo la norma denunciata sull’elettorato
passivo. Tuttavia, il giudice a quo rileva che la perdita della sede,
in caso di soccombenza del magistrato nelle elezioni, potrebbe incidere
negativamente sulla di lui volontà e sconsigliarlo a presentarsi quale
candidato.
Anche sotto tale angolo visuale, la censura però non regge.
Come già accennato, infatti, non può ritenersi arbitraria e
irrazionale una norma che vieta al magistrato di esercitare le funzioni
giurisdizionali nella medesima circoscrizione in cui, avendovi svolto
una campagna elettorale, ha verosimilmente potuto contrarre, secondo
l’id quod plerumque accidit, rapporti della più diversa natura (di
amicizia, di contrapposizione, di riconoscenza, di risentimento, ecc.),
rapporti che potrebbero far apparire dubbia la correttezza delle sue
decisioni.
Anche il limite temporale di cinque anni non sembra arbitrariamente
fissato dalla legge, rientrando nel potere discrezionale del
legislatore, qui quanto mai ampio, stabilire il termine entro cui
possono ritenersi eliminate le possibili implicazioni personalistiche
di una campagna elettorale. Si tratta, peraltro, del termine
corrispondente a quello della durata normale di legislatura, durante il
quale anche i magistrati eletti non hanno alcun contatto funzionale con
la circoscrizione in cui si sono presentati quali candidati, perché
posti in aspettativa (art. 88 d.P.R. cit.).
Né rilevano tutte quelle considerazioni, che l’ordinanza di
rimessione ha ritenuto di svolgere circa la partecipazione del
magistrato alla vita politica, giacché il relativo diritto, che
indubbiamente in materia deve essere riconosciuto, non può non essere
limitato dalla sussistenza di altri beni giuridici costituzionalmente
protetti, quali il buon andamento della giustizia e il prestigio
dell’ordine giudiziario (cfr. in proposito le cit. sent. n. 145/1976 e
n. 100/1981).
5. – Il giudice a quo dubita poi che la norma denunciata sia in
contrasto con l’art. 51, terzo comma, della Costituzione, nella parte
in cui esso dispone che il chiamato a funzioni pubbliche elettive ha
diritto a conservare il posto di lavoro.
Anzitutto, è da osservare al riguardo che il precetto
costituzionale si riferisce al soggetto che è stato chiamato a
funzioni pubbliche elettive, mentre nella specie in esame si presuppone
che il magistrato sia rimasto soccombente, e solo proprio in relazione
a tale soccombenza entra in funzione la disposizione denunziata.
Ma, se pure una estensione fosse possibile, è decisivo rilevare
che, in precedenza, questa Corte si è occupata dell’interpretazione
del precetto suindicato, ed ha ritenuto che “conservare il posto” vuol
dire soltanto mantenere il rapporto di lavoro o di impiego, ma non già
continuare nell’esercizio delle funzioni espletate dall’impiegato
interessato (cfr. sent. 18 febbraio 1960 n. 6).
Tale criterio si fonda sul significato che la formula legislativa
ha tradizionalmente nel nostro ordinamento, come con numerosi richiami
la ricordata sentenza ha avuto cura di dimostrare, il che né
l’ordinanza di rimessione né l’interessato hanno contestato. D’altro
lato, ciò è imposto anche da esigenze logiche, in quanto, con un
diverso orientamento, si avrebbero gravi inconvenienti e, in
particolare, potrebbe essere compromessa la funzionalità degli uffici
per i quali il personale previsto dal ruolo organico risulti già
esiguo.
6. – Rimane da esaminare l’ultimo problema sollevato dall’ordinanza
di rimessione, secondo cui la disposizione denunziata, sancendo
direttamente l’obbligatorietà del trasferimento, contrasterebbe con
l’art. 107, primo comma, Cost., in quanto sottrarrebbe al Consiglio
superiore della magistratura il potere di valutare l’opportunità del
trasferimento stesso.
In contrario va però brevemente osservato che la norma di
riferimento indicata attribuisce al Consiglio superiore della
magistratura soltanto la competenza a pronunciare il provvedimento di
trasferimento ad altra sede, ma non prescrive affatto che la
valutazione dei motivi debba essere necessariamente rimessa caso per
caso alla discrezionalità dello stesso Consiglio e non possa, invece,
essere fatta direttamente dalla legge con una disposizione generale.
Rientra, per contro, nell’ambito del potere discrezionale spettante
al legislatore ordinario o provvedere direttamente con una disposizione
vincolante, come avviene, oltre che nel caso qui considerato, nelle
fattispecie previste dagli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario
(approvato con r.d. 30 gennaio 1941 n. 12), ovvero rimettere la
valutazione nei singoli casi al Consiglio superiore (art. 2 r.d.l. 31
maggio 1946 n. 511), salva sempre la competenza dello stesso Consiglio
ad emettere il relativo provvedimento.
Conclusivamente, deve dirsi che la questione in esame non è
fondata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 8, secondo comma, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, sollevata con
riferimento agli artt. 3 e 51, primo e terzo comma, nonché 107, primo
comma, della Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale del
Piemonte con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 1982.
F.to: LEOPOLDO ELIA – ANTONINO DE
STEFANO – GUGLIELMO ROEHRSSEN ORONZO
REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI –
LIVIO PALADIN – ARNALDO MACCARONE –
ANTONIO LA PERGOLA VIRGILIO ANDRIOLI
– GIUSEPPE FERRARI – FRANCESCO SAJA –
GIOVANNI CONSO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere