Sentenza N. 173 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
14/07/1971
Data deposito/pubblicazione
14/07/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/07/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
269 del codice di procedura penale e del predetto art. 236 in relazione
all’art. 341 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 30
ottobre 1970 dal pretore di Mogoro nel procedimento penale a carico di
Marongiu Antonio, iscritta al n. 359 del registro ordinanze 1970 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22 del 27
gennaio 1971.
Udito nella camera di consiglio del 4 giugno 1971 il Giudice
relatore Enzo Capalozza.
1. – Nel corso di un procedimento penale a carico della guardia
comunale Antonio Marongiu, arrestato in flagranza per oltraggio ad un
appuntato dei carabinieri e posto in libertà provvisoria dal pretore
di Ales, che rimetteva, poi, gli atti, per competenza, a quello di
Mogoro, questo ultimo pretore, con ordinanza del 30 ottobre 1970,
sollevava questione di legittimità costituzionale delle seguenti
disposizioni:
a) art. 236 del codice di procedura penale, in riferimento all’art.
13 della Costituzione;
b) combinato disposto degli artt. 341 del codice penale e 236 del
codice di procedura penale, in riferimento all’articolo 13 della
Costituzione, in quanto – per l’entità della pena prevista nell’art.
341 cod. pen. – è consentito l’arresto facoltativo in flagranza anche
quando l’ufficiale od agente che procede all’arresto sia la stessa
persona offesa dal reato;
c) art. 246 del codice di procedura penale, nella parte in cui
consente all’autorità giudiziaria di non pronunciarsi con atto
motivato sulla convalida dell’arresto, in riferimento all’art. 13 della
Costituzione;
d) artt. 246 e 269 del codice di procedura penale, nelle parti in
cui consentono, in caso di arresto in flagranza, il protrarsi della
carcerazione preventiva o la concessione di libertà provvisoria, senza
previa emanazione, da parte dell’autorità giudiziaria, di un atto
motivato diretto alla restrizione della libertà personale, in
riferimento agli artt. 13, 24, 111 e 3 della Costituzione.
Ad avviso del pretore, le questioni sarebbero rilevanti, sia
perché, fino a quando esse non saranno risolte, non rientrerebbe nei
suoi poteri di modificare in senso più favorevole il provvedimento di
concessione della libertà provvisoria, che dà luogo ad una situazione
assai più gravosa di quella dell’imputato a piede libero; sia perché,
analogamente a quanto sembra dedursi dalla sentenza n. 89 del 1970 di
questa Corte, essendo state denunziate norme di procedura applicate nel
corso di un giudizio non ancora definito, sarebbe evidente l’influenza
di queste norme sugli atti successivi del procedimento, nonché
sull’apprezzamento delle risultanze di merito.
2. – Sulla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni,
per quanto concerne la prima, il pretore afferma che l’istituto
dell’arresto in flagranza, a differenza del fermo di polizia,
travalicherebbe i limiti posti dall’art. 13 della Costituzione, essendo
da escludere che la mera indicazione della pena edittale soddisfi
l’esigenza della tassatività e che la semplice circostanza di essere
stato il reato commesso in flagranza (o quasi flagranza) soddisfi
l’altra congiunta esigenza dell’urgenza e della necessità. In
contrasto anche letterale con quest’ultimo requisito, starebbe, poi,
l’arresto facoltativo in flagranza, che, nella vigente disciplina,
unitamente a quello obbligatorio, troverebbe dei limiti soltanto
negativi negli articoli 240 e 241 del codice di procedura penale.
3. – Quale diretta conseguenza della mancata tassatività dei casi
in cui la polizia può procedere all’arresto, ai sensi del citato art.
236, si porrebbe, inoltre, la questione di legittimità del combinato
disposto di tale norma e di quella dell’art. 341 del codice penale, per
la peculiare veste di persona offesa dal reato, propria dell’ufficiale
od agente procedente, e per il suo conseguente notevole turbamento
psichico, che lo porrebbe nella concreta impossibilità di comportarsi
con la lucidità e serenità necessarie a ridurre al minimo
indispensabile i casi di restrizione della libertà personale.
Al riguardo, il pretore ricorda che l’agente od ufficiale che si
ritenga oltraggiato dovrebbe giudicare della sussistenza, oltre che
dell’eccezionalità necessità ed urgenza di cui al precetto
costituzionale, e, altresì, degli estremi della flagranza (o quasi
flagranza), ai sensi dell’art. 241 del codice di procedura penale, e
dovrebbe, poi, tenere conto delle qualità morali dell’autore di un
reato contro di lui commesso: così come, ai termini dell’art. 240
dello stesso codice, dovrebbe valutare se, per ipotesi, il fatto non
appaia compiuto, ad esempio, come reazione all’atto arbitrario dello
stesso procedente. Agendo questi in una situazione di sospetto e di
parzialità, analoga a quella prevista per la magistratura dagli artt.
60 del codice di procedura penale e 51 del codice di procedura civile,
sarebbe vulnerato il principio di cui al precetto costituzionale
sull’inviolabilità della libertà personale; e dato che la condizione
di scarcerato sarebbe assai diversa da quella di chi non sia stato
affatto arrestato, alla suddetta violazione non potrebbe porre riparo
neppure il successivo intervento dell’autorità giudiziaria.
4. – Il pretore, inoltre, afferma che – mentre per l’articolo 13
della Costituzione non è ammessa alcuna forma di detenzione, se non
per atto motivato dell’autorità giudiziaria, salvi, nei limiti
costituzionalmente consentiti, i provvedimenti provvisori
dell’autorità di pubblica sicurezza, i quali devono essere convalidati
dal magistrato con atti che, vertendo in tema di libertà personale,
debbono parimenti essere motivati – nell’ipotesi di arresto in
flagranza – e ciò in contrasto con il suindicato precetto
costituzionale – l’art. 246 del codice di procedura penale consente al
magistrato di non motivare circa la convalida dell’arresto; ed il
combinato disposto degli artt. 246 e 269 del codice di procedura
penale, in violazione del medesimo precetto, oltre che di quelli
contenuti negli artt. 24, 111 e 3 della Costituzione, permette
all’autorità giudiziaria il protrarsi della custodia preventiva,
ovvero la concessione della libertà provvisoria, senza l’effettiva
pronunzia di un provvedimento motivato ed impugnabile sulla libertà
personale.
Sotto quest’ultimo profilo, il pretore rileva che, anche secondo la
giurisprudenza, il citato art. 246 non imporrebbe al magistrato di
decidere motivatamente sulla convalida dell’arresto, neppure
allorquando egli debba porre il detenuto a disposizione di altra
autorità, non essendo il relativo provvedimento sulla libertà
personale richiesto a pena di nullità; e precisa che l’art. 269,
nell’imporre l’immediata scarcerazione del detenuto nelle ipotesi ivi
precisate, omette di statuire rispetto al caso in cui l’arresto,
benché autorizzato o imposto dalla legge, non sia sostituito da altro
atto equipollente, debitamente motivato, dell’autorità giudiziaria, la
quale siasi limitata a protrarre tacitamente l’arresto operato dalla
polizia. Il provvedimento di questa sarebbe, perciò, titolo perfetto
e definitivo di detenzione nei confronti dell’arrestato, che, oltre ad
essere privato del diritto di impugnare un provvedimento sulla libertà
personale, sarebbe sottoposto ad una ingiustificata disparità di
trattamento nei confronti di qualsiasi altro soggetto che sia stato
fermato ovvero arrestato su ordine o mandato, o infine, che, a
discrezione del magistrato, abbia ricevuto la notifica di un qualche
provvedimento, sulla cui base possa approntare la propria difesa.
Nel giudizio innanzi a questa Corte non vi è stata costituzione di
parte.
1. – Le questioni sollevate dall’ordinanza in epigrafe del pretore
di Mogoro hanno per oggetto la legittimità costituzionale:
a) dell’art. 236 del codice di procedura penale, in riferimento
all’art. 13 della Costituzione;
b) del detto art. 236 del codice di procedura penale in relazione
all’art. 341 del codice penale, in riferimento allo stesso art. 13
della Costituzione;
c) dell’art. 246 del codice di procedura penale, sia isolatamente,
in riferimento all’art. 13 della Costituzione, sia congiuntamente
all’art. 269 dello stesso codice, in riferimento agli artt. 13, 24, 111
e 3 della Costituzione.
2. – La questione relativa all’art. 236 del codice di procedura
penale è infondata.
L’art. 13, terzo comma, della Costituzione autorizza la pubblica
sicurezza ad adottare provvedimenti provvisori restrittivi della
libertà personale senza l’atto motivato dell’autorità giudiziaria,
richiesto dal secondo comma, e si limita a porre condizioni e garanzie
sostanziali e processuali: eccezionalità, necessità, urgenza e
tassatività; comunicazione entro quarantotto ore all’autorità
giudiziaria; inefficacia per mancata convalida dell’autorità
giudiziaria nelle quarantotto ore successive.
Gli estremi della necessità e dell’urgenza, affidati al prudente
apprezzamento degli organi di polizia, nell’esercizio della loro
funzione di pubblica sicurezza – vale a dire della loro essenziale
funzione di istituto – vanno visti sia in relazione alle esigenze
dell’acquisizione e della conservazione delle prove, sia, soprattutto,
alle qualità morali del soggetto attivo, cioè, più in generale, agli
elementi subiettivi ed obiettivi indicati dall’art. 133 cod. pen.
(vedi art. 241 cod. proc. pen., modificato con la legge 18 giugno 1955,
n. 517, che ha eliminato il richiamo alle condizioni sociali del
soggetto stesso). Si tratta, è vero, di eccezione alla regola che
attribuisce all’autorità giudiziaria la competenza ad emettere
provvedimenti coercitivi della libertà personale, ma l’eccezione è in
re ipsa, vale a dire nel fatto in sé – previsto dal testo
costituzionale – che gli organi di polizia debbono provvedere in
sostituzione dell’autorità giudiziaria.
Il requisito alla tassatività, esso pure richiesto dall’art. 13,
comma terzo, Cost., è da ritenersi soddisfatto dalla legge; la quale,
ai fini dell’arresto, determina l’entità della pena del delitto o la
natura della contravvenzione e prende in considerazione i precedenti
del soggetto attivo (delinquente abituale, professionale o per
tendenza; recidivo qualificato; sottoposto a misura di sicurezza
detentiva) o la sua residenza all’estero (art. 236 cod. proc. pen.,
modificato dalla citata legge 1955, n. 517): né il rilievo del pretore
circa la pretesa insufficienza dei criteri sembra aver fondamento, dal
momento che l’identificazione dei reati (e delle situazioni) per cui si
può procedere all’arresto in flagranza è certamente, anche se
indirettamente operata dalla legge, così come la norma costituzionale
di raffronto esige.
3. – È, altresì, infondata la questione attinente all’articolo
236 del codice di procedura penale, in relazione all’articolo 341 del
codice penale, nella misura in cui affida alla discrezionalità
dell’oltraggiato il consentito arresto (in flagranza)
dell’oltraggiante.
A prescindere che vi sono numerosi altri reati, accanto
all’oltraggio, in cui parte offesa è, o può essere, colui al quale è
conferito il potere di arresto, le garanzie per il prevenuto, sotto la
prospettazione dell’art. 13 della Costituzione, sono le stesse, sia che
l’arresto venga effettuato direttamente dall’oltraggiato, sia che venga
effettuato da altri, perché non mutano le condizioni poste dalla
legge, né i controlli ad opera dell’autorità giudiziaria.
Non giova l’argomento – addotto dall’ordinanza – tratto dall’art.
60 cod. proc. pen., circa la rimessione degli atti a un diverso ufficio
giudiziario, in caso di offesa a un giudice o a un magistrato del
pubblico ministero, sia perché la competenza a disporre l’arresto, ai
sensi degli artt. 435, primo comma, e 436, secondo comma, cod. proc.
pen., per il reato commesso in udienza, non è sottratta al magistrato
offeso; sia perché l’invocato art. 60 cod. proc. pen. concerne il
giudizio, non la misura coercitiva cautelare.
Del resto, non va trascurato che l’arresto può dar luogo a
sanzione disciplinare o, persino, penale contro l’ufficiale o l’agente
di polizia giudiziaria o della forza pubblica che l’abbia eseguito
arbitrariamente o abbia altrimenti violato i propri doveri (vedi artt.
239 e 240 cod. proc. pen.).
Sarebbe, oltre tutto, irrazionale e addirittura paradossale che
l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria o della forza pubblica,
parte lesa di un fatto di reato contro la pubblica amministrazione,
dovesse subire, inerte e impotente, un’offesa anche se grave, anche se
reiterata, anche se commessa in presenza di più persone: dovesse,
cioè, rinunciare ad esercitare quel potere che la legge gli
attribuisce a protezione non di se stesso, ma del pubblico interesse,
che è oggetto della tutela giuridico-penale nel reato di oltraggio.
È vero che l’offeso non si trova nelle migliori condizioni per una
serena valutazione e che, in elevata percentuale, gli incolpati di
oltraggio vengono tratti in arresto dallo stesso offeso nell’onore o
nel prestigio; ma l’inconveniente si neutralizza o, quanto meno, si
attenua col rispetto rigoroso delle altre regole contenute nell’art.
13, terzo comma, Cost., che afferma e conferma che il principio della
inviolabilità della libertà personale, contenuto nel primo comma, non
esprime un’astratta postulazione ideologica, bensì impone ai pubblici
poteri precisi imperativi giuridici.
4. – A diversa conclusione deve giungersi quanto al controllo – di
diritto e di fatto – da parte dell’autorità giudiziaria sull’eseguito
arresto facoltativo in flagranza.
L’art. 246 viene interpretato dalla giurisprudenza nel senso che il
decreto motivato di convalida, da emanarsi entro 48 ore dalla
presentazione dell’arrestato, e non oltre 96 ore dall’arresto, sia
dovuto solo per la liberazione dell’arrestato nei casi previsti dal
primo e dal secondo comma dell’art. 246 – che non attengono al
sindacato sulla facoltatività dell’arresto -; e, quanto al terzo comma
dello stesso art. 246, soltanto allorché l’autorità giudiziaria
competente per il procedimento non sia quella cui l’arrestato venga
presentato (e neppure a pena di nullità).
La norma così interpretata è manifestamente illegittima.
Infatti, l’obbligo del decreto motivato di convalida, in mancanza del
quale l’arresto è revocato ipso iure, è disposto nell’art. 13, comma
terzo, della Costituzione per ogni provvedimento provvisorio preso
dall’autorità di pubblica sicurezza in sostituzione del giudice e
quindi per ogni provvedimento d’arresto (obbligatorio o facoltativo) o
di fermo. Ne deriva che l’art. 246 cod. proc. pen., poiché non prevede
in ogni caso quell’obbligo con le sue conseguenze, è per tale motivo
costituzionalmente illegittimo: e lo è pure nella parte che concerne
il giudizio direttissimo, come si dirà anche in appresso.
5. – Dichiarata in questi termini l’incostituzionalità dell’art.
246 cod. proc. pen., non è necessaria un’analoga pronuncia rispetto al
combinato disposto della stessa norma e dell’art. 269 (custodia
preventiva e scarcerazione).
Invero, l’art. 269 deve essere interpretato alla luce dell’art.
246 così come risulta dalla predetta dichiarazione di illegittimità:
ne deriva che anche qui la protrazione della custodia preventiva o la
concessione della libertà provvisoria deve essere preceduta da un
motivato provvedimento del giudice.
Non può dirsi, infatti, che la concessione della libertà
provvisoria conduca alla sanatoria della irregolare situazione,
dappoiché la posizione di chi venga scarcerato perché ingiustamente
detenuto è ben diversa da quella di chi abbia ottenuto il “beneficio”
della libertà provvisoria (vedi artt. 282 e 292 cod. proc. pen.); la
quale presuppone, ovviamente, l’osservanza e la retta applicazione
delle norme che regolano l’arresto, demandato all’autorità di pubblica
sicurezza, e il sindacato del giudice sull’operato di questa.
6. – Altrettanto va detto in relazione agli artt. 502 e 505, che
non sono stati denunciati ma che – la Corte non può fare a meno
d’osservare – devono essere ovviamente interpretati alla luce dell’art.
246 quale risulta dopo la predetta dichiarazione di illegittimità
costituzionale. Non c’è dubbio che la garanzia del decreto motivato
sul mantenimento dell’arresto vada obbligatoriamente osservata anche
quando il procuratore della Repubblica o il pretore ritenga di
procedere a giudizio direttissimo (art. 246, terzo comma, in relazione
agli artt. 502 e 505 cod. proc. pen.): ché la forma del rito – la
quale anziché dalla non esigenza di speciali indagini può dipendere
dalla condizione dell’incolpato: art. 502, ult. cpv.; o dalla natura
del reato: art. 21, terzo comma, legge 8 febbraio 1948, n. 47; art.
112 d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 – non è tale da determinare la messa
in mora delle garanzie costituzionali sancite dall’art. 13. Insomma,
anche quando si proceda al giudizio direttissimo, occorre che sia
rispettato il doppio termine di 48 ore (previsto dall’art. 13, terzo
comma, Cost. per tutti i casi di arresto in flagranza) e perciò il
provvedimento che dispone il mantenimento dell’arresto ex art. 502 deve
essere inteso come decreto motivato.
Fra l’altro si ponga mente, in particolare, che, chiuso il
dibattimento del giudizio direttissimo, il giudice può disporre che si
proceda all’istruzione formale (art. 504 cod. proc. pen.): sicché non
è da escludere che il mancato controllo sul retto esercizio della
discrezionalità dell’arresto in flagranza, per un reato per il quale
sia instaurato il rito abbreviato, si risolva in un’ingiusta detenzione
sino al termine della fase dibattimentale dello stesso giudizio
direttissimo, allorché la scarcerazione deve, poi, essere ordinata in
quanto la legge non consenta il mandato di cattura (art. 504, terzo
comma, cod. proc. pen.).
7. – In conclusione, l’unica convalida indiretta non contrastante
con l’art. 13 è quella della emissione di un ordine di cattura,
contenente la contestazione dell’accusa e gli altri elementi
indispensabili (artt. 243 e 251 in relazione all’articolo 264 cod.
proc. pen.): in tale caso, il più contiene il meno e sono
salvaguardati i diritti dell’incolpato.
8. – Per effetto della dichiarazione di parziale illegittimità
costituzionale dell’art. 246 cod. proc. pen. l’autorità giudiziaria,
come innanzi si è detto, ha l’obbligo di adottare un motivato
provvedimento sulla convalida dell’arresto. Ma poiché tale
provvedimento, reso necessario dall’attuale pronunzia, resterebbe
sottratto ad ogni controllo di legittimità, la Corte, in forza
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ed in riferimento
all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, deve dichiarare la
illegittimità costituzionale dell’art. 263 bis cod. proc. pen., nella
parte in cui esclude il ricorso per cassazione contro il predetto
provvedimento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 246 del
codice di procedura penale, nella parte in cui esclude l’obbligo
dell’autorità giudiziaria di decidere con espresso e motivato
provvedimento sulla convalida dell’arresto in flagranza;
2) in forza dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 263 bis del codice di
procedura penale, nella parte in cui esclude il ricorso per cassazione
contro il provvedimento di convalida dell’arresto emesso ai sensi
dell’art. 246 del codice di procedura penale nel testo risultante dalla
dichiarazione di parziale illegittimità di cui al n. 1;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 236 del codice di procedura penale, sollevata, con
l’ordinanza in epigrafe, in riferimento all’art. 13 della Costituzione,
nella parte in cui consente l’arresto facoltativo in flagranza;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 236 del codice di procedura penale, in relazione all’art. 341
del codice penale, nella parte in cui consente l’arresto facoltativo in
flagranza anche allorché chi procede all’arresto sia la persona offesa
dal reato, questione sollevata con la stessa ordinanza, in riferimento
all’art. 13 della Costituzione;
5) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 del codice di
procedura penale, sollevata, con la medesima ordinanza, in riferimento
all’art. 13 della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI-
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.