Sentenza N. 173 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
30/07/1981
Data deposito/pubblicazione
30/07/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/07/1981
EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO –
Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof.
LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA –
Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
comma quinto, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della
delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) e
dell’art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972 (Norme sulle
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), promossi con le
seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 14 dicembre 1978 dal giudice istruttore del
Tribunale di Milano sul ricorso proposto dalla Pia Fondazione Rhodense
ed altra contro il Comune di Rho, iscritta al n. 200 del registro
ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 119 del 2 maggio 1979;
2) due ordinanze emesse il 22 marzo 1979 dal Tribunale di Milano
sui ricorsi proposti dall’Opera Pia Fondazione Biffi e Opera Pia don
Adalberto Catena contro il Comune di Milano e la Regione Lombardia ed
altro, iscritte ai nn. 558 e 559 del registro ordinanze 1979 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 265 del 26
settembre 1979.
Visti gli atti di costituzione della Pia Fondazione Rhodense,
dell’Opera Pia Don Adalberto Catena, dell’Opera Pia Fondazione Biffi e
del Comune di Milano e gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri e della Regione Lombardia;
udito nell’udienza pubblica del 29 aprile 1981 il giudice relatore
Leopoldo Elia;
uditi gli avvocati Aldo Sandulli per le Opere Pie Fondazione Biffi
e don Adalberto Catena, Pietro Marchese e Mario Bassani per il Comune
di Milano, Paolo De Camelis per la Pia Fondazione Rhodense e l’avvocato
dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
1. – Con ordinanza emessa il 14 dicembre 1978 il giudice istruttore
del Tribunale di Milano, nel corso del procedimento cautelare
(sequestro giudiziario) promosso dalla Pia Fondazione Rhodense, in
pendenza di giudizio di merito, relativo all’accertamento del diritto
di detta fondazione di conservare la titolarità delle sue funzioni e
dei suoi beni, pur dopo la nuova normativa che prevede il trasferimento
dei beni IPAB ai comuni (art. 25, quinto comma, del d.P.R. 24 luglio
1977, n. 616, recante “Attuazione della delega di cui all’art. 1 della
legge 22 luglio 1975, n. 382”) e nell’imminenza di tale trasferimento
(previsto per il 1 gennaio 1979 dalla detta norma) oltre che in
pendenza di regolamento di giurisdizione (in seguito al quale il
giudizio di merito era stato sospeso), sollevava questione di
legittimità costituzionale del detto art. 25, quinto comma, del d.P.R.
n. 616 del 1977, per contrasto con gli artt. 76, 77, primo comma, 117,
118, 38, ultimo comma, della Costituzione e dell’art. 1 della legge 17
luglio 1890, n. 6972 e successive modificazioni, recante “Norme sulle
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, che sottopone a
regime pubblicistico tali istituti, per contrasto con l’art. 38, ultimo
comma, della Costituzione.
La questione sarebbe rilevante, ad avviso del giudice a quo, dato
che, ove fosse dichiarata l’incostituzionalità delle norme che ne sono
oggetto, verrebbe anche ad esistere il fumus boni juris necessario per
concedere il provvedimento cautelare.
Sussisterebbe del pari la “non manifesta infondatezza”. L’art. 1,
lettere a), b) ed e) della legge 22 luglio 1975, n. 382 – Norme
sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica
amministrazione – delega infatti il Governo ad emanare uno o più
decreti aventi valore di legge, diretti a trasferire alle regioni, tra
l’altro, le funzioni amministrative statali necessarie a completare
quelle già attribuite, nonché le funzioni in precedenza esercitate da
enti pubblici nazionali od interregionali ed a trasferire ai comuni,
alle province ed alle comunità montane funzioni di esclusivo interesse
locale. L’art. 25, quinto comma, del d.P.R. n. 616 del 1977, nel
prevedere a sua volta il trasferimento di “funzioni, personale e beni”
delle IPAB regionali in favore dei comuni, risulterebbe illegittimo,
sotto almeno tre profili: perché la legge di delega, con riferimento
ai comuni, non consentirebbe il trasferimento di funzioni in precedenza
esercitate da enti con personalità giuridica autonoma (la qual cosa
esplicitamente consente solo con riferimento alla regione) e perché
non consentirebbe il trasferimento di qualsiasi funzione infraregionale
ai comuni medesimi ma solo di funzioni aventi interesse esclusivamente
locale. Il trasferimento previsto dalla legge n. 382 del 1975 dovrebbe
intendersi infine, mancando esplicite disposizioni in senso contrario,
riferito ai soli enti in rapporto strumentale rispetto allo Stato e non
a tutti gli enti pubblici.
Un trasferimento più ampio sarebbe, del resto, incompatibile con
gli artt. 117 e 118 della Costituzione che si riferiscono alle
attività qualificabili come “funzione amministrativa” esercitate in
precedenza dallo Stato o, a tutto concedere, anche da enti strumentali
ma non alle attività esercitate da enti autonomi che perseguono fini
propri, pur quando sono dotati di personalità giuridica pubblica.
Il trasferimento ai comuni delle IPAB contrasterebbe inoltre con il
principio di libertà dell’assistenza privata enunziato dall’art. 38,
ultimo comma, della Costituzione. Vero è che l’art. 1 della legge 17
luglio 1890, n. 6972 conferisce carattere pubblicistico, al fine di
assoggettarlo ai controlli governativi, a qualunque istituto sia
diretto a prestare ai poveri “assistenza, educazione, istruzione,
avviamento a qualche professione, arte o mestiere”; ma il principio di
libertà dell’assistenza privata esigerebbe, quanto meno, che non
venissero alterati i caratteri essenziali dell’ente, pur pubblicizzato,
quando questo sia sorto dall’iniziativa privata e sia alimentato con
denaro privato. Ove questo limite non si ritenesse di poter affermare,
la censura di costituzionalità verrebbe allora ad investire lo stesso
art. 1 della menzionata legge n. 6972 del 1890, dato che lascerebbe
alla beneficenza privata margini talmente ristretti (comitati
temporanei di soccorso, fondazioni di famiglia) da non essere
compatibili con l’affermata libertà della medesima.
2. – Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri,
attraverso l’Avvocatura dello Stato, deducendo l’infondatezza della
questione.
Non sarebbe significativa la differenza, rilevata nell’ordinanza
del giudice a quo, tra la dizione delle lettere a) e b) dell’art. 1
della legge n. 382 del 1975 e la dizione della lettera e): nel primo
caso, infatti, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, occorreva
precisare (per correggere l’indirizzo restrittivo in proposito
affermato dall’art. 17 della precedente legge 16 maggio 1970, n. 281)
che le attribuzioni trasferite erano sia quelle in precedenza svolte
dallo Stato sia quelle svolte da enti pubblici; nel secondo caso
nessuna precisazione occorreva dato che nulla in precedenza era stato
disposto in ordine ai comuni ed alle province. Le parole “funzioni
amministrative” di cui alla lettera e) dovrebbero dunque intendersi
comprensive di ambedue le ipotesi contemplate dalle precedenti lettere
a) e b) e cioè sia delle funzioni svolte dallo Stato sia delle
funzioni svolte da enti pubblici con personalità giuridica autonoma.
Il terzo comma del medesimo art. 1 della legge n. 382 del 1975, del
resto, precisando, senza distinguere fra trasferimento ai comuni, alle
province od alle regioni, che il legislatore delegato dovrà
uniformarsi a criteri oggettivi al fine di ricomporre settori organici
di materie, senza aver riguardo alle competenze dei Ministeri, degli
organi periferici dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche,
eliminerebbe ogni residuo dubbio, escludendo appunto che in qualsiasi
caso possa aver rilievo il criterio dell’appartenenza soggettiva della
funzione stessa.
Le istituzioni di pubblica beneficenza infraregionali trasferite
dal d.P.R. n. 616 del 1977 ai comuni svolgerebbero, d’altra parte,
quelle funzioni di interesse locale cui si riferisce l’art. 1, lettera
e) della legge n. 382 del 1975: neppure sotto questo profilo
sussisterebbe dunque eccesso di delega.
Quanto disposto corrisponderebbe al disegno tracciato dagli artt.
117 e 118 della Costituzione, che definiscono le competenze regionali
mediante criteri strettamente oggettivi, in relazione alle materie,
senza distinguere tra competenze precedentemente svolte dallo Stato, da
enti pubblici strumentali od ausiliari. Limitazioni soggettive non
risultano neppure dalle norme che concernono gli enti territoriali
minori (art. 128, Cost.). Argomenti in senso contrario non potrebbero
desumersi dalla VIII disposizione transitoria che regolerebbe un solo
aspetto (forse il più cospicuo) del trasferimento di poteri alle
regioni ma non intenderebbe modificare il disegno complessivo delineato
dagli artt. 117 e 118 della Costituzione.
Una volta poi che lo Stato ha assunto tra i propri compiti quello
di provvedere anche all’assistenza dei bisognosi non può, ad avviso
dell’Avvocatura dello Stato, revocarsi in dubbio che l’attività
conseguente sia riconducibile al concetto di “funzione amministrativa”.
La libertà dell’assistenza privata non implicherebbe, d’altra
parte, un dovere di ripristinare quelle istituzioni che già con la
legge del 1890 erano state dichiarate pubbliche, né un limite alla
estensione dell’assistenza pubblica in generale. Ove la Costituzione ha
inteso garantire più intensamente l’attività sociale dei privati, ad
esempio in materia scolastica, le norme hanno assunto diversa e ben
maggiore precisione. Nella stessa Assemblea costituente, del resto, si
sarebbe affermato che il principio di libertà dell’assistenza privata
era diretto a garantire quelle forme di beneficenza più schietta e
generosa che la legge del 1890 non intese e non poteva disciplinare e
si sarebbe sottolineato che si trattava di norma forse superflua, utile
solo ad eliminare eventuali residui dubbi. La Corte, del resto, già
con la sentenza n. 139 del 1972, avrebbe correttamente distinto
l’ambito della beneficenza pubblica, così come delineato dalla legge
del 1890, dall’assistenza privata, libera ai sensi dell’ultimo comma
dell’art. 38 della Costituzione.
Non esiguo peraltro sarebbe il campo in cui può esplicarsi
l’assistenza privata ricomprende le istituzioni temporanee, quelle a
vantaggio di famiglie determinate, le società, le associazioni, le
fondazioni aventi carattere meramente privatistico, la beneficenza
individuale.
3. – Si costituiva la Pia Fondazione Rhodense soffermandosi in
breve sul tema della legittimazione del giudice a quo e chiedendo
l’accoglimento della questione proposta, pur senza rinunziare agli
ulteriori motivi – implicitamente disattesi dall’ordinanza introduttiva
del presente giudizio che – erano stati posti a base della istanza di
sequestro giudiziario e concernevano il carattere educativo-religioso
dell’ente e la sua dimensione interregionale.
4. – Questioni del tutto analoghe venivano sollevate dal Tribunale
civile di Milano, con ordinanze di identico tenore emesse il 22 marzo
1979 nei procedimenti civili tra l’Opera Pia Fondazione Biffi ed il
Comune di Milano e tra l’Opera Pia don Adalberto Catena, la Regione
Lombardia ed il Comune di Milano.
Nel primo caso l’Opera Pia Fondazione Biffi, IPAB infraregionale,
aveva convenuto il Comune di Milano per l’accertamento del suo diritto
a continuare ad esistere e svolgere l’attività di istituto. Ciò
perché essa Opera Pia Fondazione Biffi avrebbe natura di fondazione
privata ed illegittimamente sarebbe stata ricompresa tra le IPAB, in
contrasto con la volontà espressa nell’atto di fondazione (testamento)
e senza tener conto della sua natura e dei suoi scopi (che non sono
quelli di prestare assistenza ai bisognosi, ma di offrire ospitalità a
signore anziane, qualificate da determinati requisiti di ceto,
provenienza, educazione); perché, ove anche i suoi scopi dovessero
ritenersi riconducibili a quelli indicati dalla legge n. 6972 del 1890,
risulterebbe contrario a Costituzione (per i motivi già illustrati
nell’esporre il contenuto della precedente ordinanza) il trasferimento
del patrimonio delle Opere Pie ai comuni.
Nel secondo caso analoga azione di accertamento era stata promossa
dall’Opera Pia don Adalberto Catena sulla base di rilievi particolari
attinenti alla sua natura ed ai suoi scopi (cura balneare salsoiodica
ad ammalati poveri iscritti nel registro della popolazione del Comune
di Milano, con preferenza per quelli che abitano nella parrocchia San
Fedele, indissolubilmente congiunta ad educazione religiosa) e
contestando in generale, per i motivi anzidetti, la costituzionalità
del trasferimento dei beni delle IPAB ai comuni.
Il tribunale, ritenuta l’esistenza di un interesse ad agire
(conseguente allo stato di incertezza effettivamente venutosi a creare
dopo l’entrata in vigore della nuova normativa) e ritenuta la
legittimazione passiva del Comune di Milano, oltreché della regione,
valutava preliminarmente, in seguito ad eccezione di parte convenuta,
l’esistenza della giurisdizione del giudice ordinario. Riteneva
rilevante, a tal fine, questione di legittimità costituzionale della
norma che prevede il trasferimento dei beni dalle istituzioni pubbliche
di assistenza e di beneficenza e della norma (contenuta nella legge n.
6972 del 1890) che sottopone a regime pubblicistico tali istituti,
osservando che, ove una di tali norme od entrambe venissero a mancare,
verrebbe meno, in radice, il potere dell’ente territoriale di acquisire
al proprio patrimonio tali beni e si configurerebbe un vero diritto
soggettivo all’esistenza delle istituzioni medesime, divenendo quindi
incontestabile la giurisdizione del giudice ordinario.
In occasione del procedimento promosso dall’Opera Pia don Adalberto
Catena il tribunale sollevava, in base ai medesimi parametri, questione
di costituzionalità anche dell’art. 113 del d.P.R. n. 616 del 1977,
non risultando allo stato ancora accertata la dimensione dell’ente
(infraregionale, interregionale, nazionale).
5. – Si costituiva, in entrambi i giudizi, il Presidente del
Consiglio dei ministri, attraverso l’Avvocatura dello Stato, deducendo
l’infondatezza delle questioni con argomenti analoghi a quelli svolti
nel giudizio di cui già si è fatto cenno.
Si costituivano l’Opera Pia Fondazione Biffi e l’Opera Pia don
Adalberto Catena aderendo alle censure di costituzionalità prospettate
nelle ordinanze introduttive. Si costituiva anche, in entrambi i
giudizi, il Comune di Milano, deducendo l’infondatezza delle questioni.
L’intento del legislatore delegante di trasferire alle regioni settori
organici di materie, secondo “criteri oggettivi, desumibili dal pieno
significato che esse hanno e dalla più stretta connessione esistente
tra funzioni affini, strumentali e complementari” ed a province,
comuni, comunità montane “funzioni amministrative di interesse
esclusivamente locale nelle materie indicate dall’art. 117 della
Costituzione nonché … altre funzioni di interesse locale che valgano
a rendere possibile l’esercizio organico delle funzioni amministrative
loro attribuite a norma della legislazione vigente …”, chiaramente
espresso nell’art. 1 della legge di delega, risulterebbe pienamente
rispettato. Nessuna distinzione il legislatore ha introdotto tra
funzioni dello Stato e degli enti pubblici e nessuna distinzione deve
introdurre l’interprete, tanto più che una distinzione finirebbe con
il risultare incompatibile con la ratio, così chiaramente espressa,
della riforma.
Tutto ciò escluderebbe anche il lamentato contrasto con gli artt.
117 e 118 della Costituzione, che si ispirano ad analoghi criteri
oggettivi.
Neppure sarebbe pertinente il richiamo alla libertà
dell’assistenza privata, garantita dall’art. 38, ultimo comma, della
Costituzione, dato che la norma in esame provvede ad una ricomposizione
della sfera pubblica e non tocca né limita la sfera rimasta privata
pur dopo la riforma del 1890. Tale sfera a sua volta sarebbe
sufficientemente ampia non risultando limitata ai comitati di soccorso
(con carattere temporaneo) ed alle fondazioni di famiglia ma
comprendendo, secondo l’espresso dettato legislativo, le società e le
associazioni rette da ordinamento privatistico.
Nel giudizio che ha origine dall’azione proposta dalla Opera Pia
don Adalberto Catena presentava le sue deduzioni, fuori termine, la
Regione Lombardia; la sua costituzione deve pertanto considerarsi
inammissibile.
6. – I giudizi, come sopra promossi, venivano portati all’udienza
di discussione del 29 aprile 1981, in seguito all’ordinanza 17 ottobre
1980, n. 145, di questa Corte. In tale sede le parti sviluppavano
ulteriormente i rispettivi assunti.
1. – I giudizi promossi dall’ordinanza del giudice istruttore del
Tribunale di Milano e dalle due successive ordinanze del Tribunale di
Milano hanno tutti ad oggetto l’art. 25, comma quinto, del d.P.R. 24
luglio 1977, n. 616 (cui si aggiunge, nella seconda ordinanza del
tribunale, l’art. 113 dello stesso decreto) per violazione degli artt.
76, 77, comma primo, 117, 118 e 38, ultimo comma, della Costituzione;
nonché l’art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, per violazione
dell’art. 38, ultimo comma, della Costituzione. I tre giudizi vanno
pertanto decisi con unica sentenza.
2. – Dev’essere preliminarmente dichiarata inammissibile la
questione sollevata dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, con
ordinanza emessa dopo che era stata proposta dalla parte resistente
istanza alle Sezioni Unite Civili della Corte di cassazione per
regolamento preventivo di giurisdizione.
A parte ogni questione circa la competenza del giudice istruttore a
norma dell’art. 673, secondo comma, del codice di procedura civile,
insuscettibile di presa in considerazione in questa sede (sentenza n.
65 del 1962), deve confermarsi (sentenze nn. 221 del 1972 e 135 del
1975) che è inammissibile la questione di legittimità costituzionale
sollevata dal giudice di merito dopo la proposizione del ricorso per
regolamento di giurisdizione giacché, a seguito della sospensione del
processo in corso, non possono essere compiuti atti del procedimento ed
è perciò preclusa al giudice ogni pronunzia anche in tema di
pregiudiziali (combinato disposto degli artt. 41, 298 e 367 cod. proc.
civ.). Pur se a tale regola può derogarsi per gli atti urgenti e per i
provvedimenti cautelari in ispecie (sentenze nn. 73 e 177 del 1973), è
altresì indubbio che il giudice è legittimato a sollevare questioni
di legittimità costituzionale soltanto quando si riferiscono
esclusivamente alle norme da applicare in quella sede e non rilevino,
come nel caso di specie, proprio per la risoluzione della questione di
giurisdizione (cfr. in particolare sentenze n. 73 del 1973, n. 135 del
1975, n. 118 del 1976 e n. 186 del 1976).
3. – In ordine alle questioni residue, la Corte si è prospettata
il dubbio se, per il sopravvenire della legge della Regione Lombardia 7
marzo 1981, n. 13 (“Modalità di trasferimento, ai sensi dell’art. 25
del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, dei beni e del personale relativi a
talune IPAB operanti nell’ambito regionale”, in Suppl. ordinario al n.
10 – 11 marzo 1981 del Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia),
si dovessero restituire gli atti al giudice a quo per il riesame della
rilevanza. Ma il carattere attuativo in ordine ai disposti del citato
art. 25 enunziato nella stessa legge lombarda e la portata parziale di
essa in ordine ai complesso delle IPAB infraregionali prese in
considerazione dalla disposizione denunziata hanno indotto questa Corte
a ritenere tuttora rilevanti le questioni sollevate.
4. – Occorre innanzitutto esaminare la censura di violazione degli
artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione per eccesso di delega
rispetto all’oggetto e alle finalità determinate nella legge 22 luglio
1975, n. 382. Secondo le ordinanze di rimessione la legge delega “non
contemplava, sotto alcun profilo, la possibilità di attuare
trasferimenti di funzioni precedentemente esplicate da enti operanti in
un ambito infraregionale: e ciò con riferimento sia ai trasferimenti
contemplati dalle menzionate lettere a) e b) (dell’art. 1, comma primo)
a favore delle regioni; sia con riferimento ai trasferimenti previsti
dalla lettera e) a favore delle province e dei comuni”.
La questione così proposta è fondata.
5. – L’esame del testo dell’art. 1 della legge n. 382 del 1975 fa
emergere in modo assai chiaro che il legislatore delegante, per ciò
che concerne il trasferimento di funzioni amministrative alle regioni
nelle materie di loro spettanza (trasferimento precedente, da un punto
di vista logico, ad ogni attribuzione di funzioni dello stesso tipo
agli enti locali di cui all’art. 118, comma primo, Cost.) ha
considerato soltanto enti pubblici nazionali ed interregionali,
specificando che il trasferimento stesso riguardava anche gli uffici, i
beni ed il personale indispensabile all’esercizio delle funzioni
trasferite. Ora, anche a voler assumere, in ipotesi, che il
legislatore intendesse attribuire ai comuni funzioni di altri enti, per
così dire omisso medio e cioè senza premettere, nemmeno in via di
enunciazione, il trasferimento previo alle regioni, resterebbe
inesplicabile come mai di tali enti in ambito infraregionale non si sia
fatta menzione alcuna nella lettera e) dell’art. 1, comma primo, della
citata legge di delega, e tantomeno risulti indicato il trasferimento
ai comuni dei beni e del personale di queste pubbliche istituzioni.
L’Avvocatura dello Stato oppone che la formula della lettera e) deve
intendersi come comprensiva sia della ipotesi prevista nella lettera a)
(funzioni già esercitate dalle amministrazioni statali) sia di quella
ritenuta nella lettera b) (funzioni già esercitate dagli enti
pubblici); e ciò perché solo per gli enti di carattere nazionale ed
interregionale era necessaria una espressa menzione, dato che la
precedente legge delega di trasferimento delle funzioni amministrative
alle regioni a statuto ordinario (art. 17 della legge n. 281 del 1970)
limitava il trasferimento stesso alle funzioni già esercitate dalle
amministrazioni statali; mentre l’attribuzione agli enti locali di
funzioni ex art. 118, primo comma, disposta solo con la legge n. 382
del 1975, non richiedeva la distinzione tra funzioni delle
amministrazioni dello Stato e quelle di altri enti pubblici. Ma, al
contrario, deve osservarsi che una espressa indicazione sarebbe stata a
fortiori necessaria, perché, come più analiticamente si dirà in
seguito, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza erano
già state prese in considerazione dal legislatore delegato del 1972,
allorché aveva trasferito alle regioni le funzioni concernenti le IPAB
previste dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972, e successive
modificazioni ed integrazioni, operanti nel territorio regionale (art.
1, comma secondo, lett. a) dei d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9
“Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni
amministrative statali in materia di beneficenza pubblica e del
relativo personale”).
Né potrebbe, in via interpretativa, ritenersi, come afferma
l’Avvocatura dello Stato, che l’indicazione degli enti nazionali
“maggiori” in rapporto alle regioni nella lettera b) dell’art. 1, comma
primo, legge n. 382 dei 1975, comporti, per una sorta di parallelismo,
che quella degli enti “minori” in rapporto ai comuni sia da
sottointendersi perché logicamente implicata: a tacer d’altro, per la
profonda differenza che corre tra i caratteri più significativi degli
enti nazionali e interregionali, autentiche proiezioni, di regola,
dell’organizzazione statuale, e gli enti infraregionali della categoria
IPAB, non essendo sufficiente a unificarli, da questo punto di vista,
il carattere della comune “pubblicità”.
Chi sostiene la legittimità costituzionale dell’art. 25, comma
quinto, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, afferma che tale conclusione
sarebbe confermata dalle formule usate dal legislatore delegante nella
lettera e) dell’art. 1, primo comma, della legge n. 382 del 1975; in
effetti questo testo parlerebbe di “attribuzione” in termini ampi,
contrapponendosi nettamente ai “trasferimenti” di cui alle precedenti
lettere a) e b). Sì può peraltro osservare che, a parte la priorità
logica dei “trasferimenti” sulle attribuzioni (che non potrebbero
comunque contrapporsi ai primi per maggior ampiezza), non si può
conferire sicuro rilievo interpretativo ad una formulazione che ricalca
pedissequamente quella contenuta nell’art. 118, primo comma, della
Costituzione. Né è possibile ritenere con l’Avvocatura dello Stato
che il criterio direttivo di cui al n. 1, dell’art. 1, terzo comma,
della citata legge delega (identificazione delle materie da trasferire
in base a criteri oggettivi e non alle competenze degli organi centrali
e periferici dallo Stato) rechi conforto all’opinione favorevole alla
legittimità costituzionale dell’art. 25, comma quinto: in realtà,
parlandosi di “trasferimento” delle funzioni concernenti le materie
identificate secondo il criterio oggettivo, si deve escludere che il
criterio stesso si riferisca anche alla lettera e) del primo comma,
nella quale, per l’esercizio organico delle funzioni “attribuite”, è
prevista la possibilità di attribuire ulteriori funzioni di interesse
locale, rendendosi così ultroneo il richiamo alle funzioni affini,
strumentali e complementari contenuto nel n. 1 dell’art. 1, comma
terzo. Senza dire che il “trasferimento” è ivi espressamente previsto
in rapporto alle “attribuzioni costituzionalmente spettanti alle
regioni per il territorio e il corpo sociale”. Inoltre l’accenno,
nell’ultima parte della lettera e), art. 1, comma primo, a discipline
disposte dal legislatore delegato “per regolare i relativi rapporti
finanziari” – riferibile all’intera normativa contenuta nella lettera
e) – sembra alludere a rapporti con le amministrazioni statali,
determinati, appunto, dall’attribuzione di funzioni amministrative
esercitate fino allora da tali amministrazioni. Infine, non appare
ammissibile, per precetti che comporterebbero la soppressione di enti a
caratteristiche peculiari come la IPAB infraregionali, adottare canoni
ermeneutici che, al fine di determinare l'”oggetto” o gli “oggetti” la
cui definitezza è imposta al legislatore delegante dall’art. 76 della
Costituzione, darebbe assoluta prevalenza al criterio oggettivo
(definizione della materia) su quello soggettivo (tipo di enti
considerati).
6. – Va pure sottolineato che la legge n. 382 del 1975 (al pari
della legge 16 maggio 1970, n. 281) disciplina negli articoli che qui
interessano un particolare tipo di delega finalizzata al trasferimento
di funzioni amministrative dallo Stato e dagli enti pubblici nazionali
e interregionali alle regioni di diritto comune, nonché
all’attribuzione, peraltro facoltativa per il legislatore delegante, di
funzioni agli enti locali ex art. 118, primo comma, della Costituzione.
Tuttavia, a parte il carattere di delega per l’attuazione
costituzionale (Disp. trans. e fin. Cost. VIII e IX) che assumono
queste leggi, è da dire che in realtà le deleghe di trasferimento non
possono non comportare, in situazioni come queste, anche una delega per
parziale riforma delle materie e dei settori di materie considerate;
mentre riforme di carattere generale restano condizionate all’adozione
da parte del Parlamento di leggi contenenti i nuovi principi
fondamentali ex art. 117 della Costituzione. Del resto, più forte è
la carica riformatrice contenuta nelle deleghe di trasferimento, più
evidente è la necessità che l'”oggetto” della riforma sia in termini
chiari previsto nei tratti normativi e fattuali che le connotano e che
siano previsti principi e criteri direttivi in ordine al superamento
della normativa vigente (nella fattispecie la legge 17 luglio 1890, n.
6972).
Se è vero che la legge n. 382 del 1975, a differenza della legge
n. 281 del 1970, ha valorizzato, per l’identificazione delle materie da
trasferire, accanto al criterio oggettivo anche quello teleologico a
favore delle regioni, è altresì certo che il fine complessivo della
delega consisteva nel “completare” il trasferimento delle funzioni
amministrative statali e parastatali, considerate per settori organici.
Peraltro, l’art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977 non
completa affatto la disciplina di trasferimento già realizzata con il
citato art. 1, comma secondo, lettera a) del d.P.R. 15 gennaio 1972, n.
9, ma piuttosto la modifica radicalmente in quanto, invece di mantenere
i poteri delle regioni sugli enti previsti dalla legge Crispi del 1890,
attribuisce ai comuni le funzioni degli enti IPAB a tal fine soppresse.
È manifesto che un mutamento così profondo nel regime di queste
istituzioni, tale da determinarne in via generale l’eliminazione (con
la clausola di salvezza per quelle attive precipuamente nella sfera
educativo-religiosa), presupponeva da parte del legislatore delegante
una indicazione in termini non equivoci del thema transferendum.
7. – Ulteriori sintomi di una effettiva forzatura realizzatasi,
rispetto alla legge di delega, con l’art. 25, comma quinto, del d.P.R.
n. 616 del 1977, possono poi ravvisarsi in due regole di carattere
collaterale. Non si intende in base a quale presunzione le funzioni
delle IPAB infraregionali siano state senza alcuna distinzione
considerate di interesse esclusivamente locale (nella fattispecie,
comunale), quando è fin troppo noto che in numerosi casi la loro
funzione è ultracomunale. Mentre rimane priva di ogni ragionevole
spiegazione la differenza di trattamento adottato a danno degli enti
(quelli infraregionali) che avevano, diversamente da quelli nazionali,
caratteristiche storiche e peculiarità attuali di autonoma gestione:
non consentendo a questi ultimi di poter valorizzare la struttura
associativa che eventualmente avessero (art. 115 del d.P.R. n. 616 del
1977) per sottrarsi al trasferimento ai comuni.
8. – Dai lavori preparatori della legge n. 382 del 1975 non si
traggono elementi di sostegno alla opinione favorevole alla
legittimità costituzionale dell’art. 25, comma quinto, del d.P.R. n.
616 del 1977; anzi emergono dati significativamente contrari.
Innanzitutto non si rinviene negli atti di entrambe le Camere, né
in Commissione né in Assemblea, alcun cenno alla possibilità per il
legislatore delegato di addivenire alla soppressione delle IPAB o di
enti infraregionali con caratteristiche analoghe. Vero è che una
autentica discussione generale, come ci si attenderebbe su disegni di
legge di così grande rilievo politico e istituzionale, non ebbe luogo
né al Senato della Repubblica né alla Camera dei Deputati: la
singolarità della vicenda è da attribuirsi al modo nel quale il
testo del disegno di legge inizialmente sottoposto al Senato per
prorogare una delega in materia di riordinamento dell’amministrazione
(Sen. Rep., VI Leg., d.d.l. n. 114) fu in pratica accantonato con una
serie di emendamenti integralmente sostitutivi sia del vecchio testo
governativo che di quello elaborato nella prima Commissione del Senato.
È appunto a tale commissione che il Ministro per l’organizzazione
della pubblica amministrazione, d’intesa con il Ministro per i
problemi relativi all’attuazione delle regioni, presentò gli
emendamenti che contenevano le nuove norme sul trasferimento alle
regioni delle funzioni amministrative dello Stato e degli enti
nazionali (Sen. Rep., VI Leg., Res. somm. 5, 13 e 20 febbraio 1974).
La successiva discussione, durante la quale al Senato ma soprattutto
alla Camera furono abbandonate le parti più rilevanti del nuovo testo
in tema di riordinamento degli uffici centrali e periferici della
pubblica amministrazione, lasciò in pratica intatto il complesso
normativo predisposto per gli ulteriori trasferimenti di funzioni alle
regioni di diritto comune, confermandosi così la scelta decisamente
regionalista maturata nei mesi che precedettero la presentazione degli
emendamenti (Camera dei dep., VI Leg., d.d.l. n. 3157 e 3157 bis).
In particolare, tra gli emendamenti presentati allora dal Ministro
per l’organizzazione della pubblica amministrazione, figurava una
lettera e) dell’art. 1, comma primo, relativo alla delega al Governo
per l’attribuzione ai comuni ed agli altri enti locali di funzioni di
interesse esclusivamente locale: nella commissione senatoriale, ma
senza successo, esponenti dell’opposizione proposero che la
attribuzione delle nuove funzioni ai comuni ed agli altri enti locali
riguardassero materie diverse da quelle indicate nell’art. 117 della
Costituzione (Sen. Rep., VI Leg., Res. somm. 13 febbraio 1974, pag.
27). Il testo della lettera e), approvato dalla Commissione, perveniva
dunque all’assemblea del Senato in una formulazione che anticipava non
solo nella sostanza, ma anche, per gran parte, nella lettera, la
redazione della lettera e), prima parte, quale è poi passata nella
legge n. 382 del 1975. È peraltro da notare che il testo sottoposto
all’assemblea senatoriale conteneva al secondo comma dell’art. 1 un
principio o criterio direttivo per l’assolvimento della delega di cui
alla lettera e) così formulato: “4) l’attribuzione diretta a province,
comuni ed altri enti locali di funzioni di interesse esclusivamente
locale obbedirà a criteri di omogeneità evitando la coesistenza di
competenze residue della regione; saranno altresì regolati i rapporti
finanziari tra i vari enti”.
Nella discussione in assemblea furono respinti gli emendamenti
presentati da esponenti dell’opposizione (emendamenti 1/19 e 1/20 in
Sen. Rep., VI Leg., Res. sten. 6 giugno 1974) tendenti in via
principale a far cadere per intero la delega della lettera e), ed in
subordinata a limitare alle materie diverse da quelle previste
nell’art. 117 della Costituzione le attribuzioni agli enti locali.
Emergeva chiaramente in tali proposte il timore che il Governo potesse
servirsi della delega della lettera e) al fine di perseguire un disegno
di compressione delle attribuzioni regionali, attraverso lo spostamento
agli enti locali di funzioni già trasferite alle regioni. Tra l’altro
veniva criticata la formulazione della delega nella lettera e) perché
riproduttiva; puramente e semplicemente, di quella dell’art. 118, comma
primo, della Costituzione. Del resto, mentre risultava soppresso il
criterio direttivo n. 4, secondo comma, già citato, era approvato un
testo più restrittivo della lettera e) perché il legislatore delegato
poteva attribuire agli enti locali solo le funzioni amministrative che
alla data di entrata in vigore della futura n. 382 non fossero state
trasferite alle regioni (clausola limitativa cancellata dalla Camera);
peraltro il Governo era pure delegato, ai sensi degli artt. 5 e 128
della Costituzione (riferimento poi venuto meno) ad attribuire le
ulteriori funzioni di cui è parola nel testo definitivo della lettera
e), seconda parte, così come passata nella legge.
È poi degno di nota che gli autori di tutti i disegni e proposte
di legge per la riforma dell’assistenza presentate dopo l’entrata in
vigore della legge n. 382 del 1975 (con i più diversi intendimenti
verso le IPAB: dal riordinamento alla soppressione) siano partiti dal
presupposto che le IPAB stesse, quanto alla loro sopravvivenza, non
erano minimamente ricomprese nel raggio dei poteri conferiti al
legislatore delegato. Né dalle relazioni dei presentatori emerge in
alcun modo che si tendesse, esplicitamente o anche implicitamente, a
revocare una delega accordata in parte qua con la legge n. 382 del 1975
(Camera dep., VII Leg., proposta Cassanmagnago ed altri, n. 19, art.
15; proposta Massari, n. 870, art. 5; proposta Lodi ed altri, n. 1173,
art. 12; proposta Aniasi ed altri, n. 1237, art. 14; proposta
Cassanmagnago, n. 1484, art. 13). E non è senza significato che le
ultime quattro proposte di legge di cui si è fatto cenno siano state
presentate nel periodo febbraio-maggio 1977, quando il dibattito
sull’attuazione della legge di delega n. 382 del 1975 aveva già
trovato ampi sviluppi.
9. – Non si può poi trascurare – nella fattispecie l’atteggiamento
della Commissione ministeriale (Commissione Giannini) in ordine alle
IPAB infraregionali. Il testo delle proposizioni normative IV e XXIII
allegato alla relazione per la parte relativa alla sanità e servizi
sociali è chiaramente indicativo dei limiti entro i quali, secondo la
commissione, poteva operare il legislatore delegato. Nella proposizione
IV, lettera d) tra le funzioni amministrative trasferite alle regioni
era compresa quella relativa: “all’istituzione, modificazione e
soppressione degli enti pubblici infraregionali, diversi da comuni,
province e comunità montane, i quali operino esclusivamente nelle
materie di competenza regionale”; e nella proposizione XXIII si
aggiungeva: “Nell’esercizio delle funzioni previste dal precedente art.
4, lettera d), le regioni si atterranno alle norme vigenti fino a
quando non avranno disciplinato con legge nuovi procedimenti per il
riordino e la riorganizzazione degli enti, ivi compresa la loro
soppressione qualora il passaggio ai comuni delle relative funzioni sia
necessario od opportuno per assicurarne l’esercizio in modo integrato
con le funzioni ad essi attribuite a norma del precedente art. 18”.
“In caso di fusione o di trasformazione, in qualsiasi forma, di
istituzioni pubbliche di assistenza o beneficenza, soggette alla legge
17 luglio 1890, n. 6972, nel Consiglio di amministrazione dei nuovi
enti dovrà essere assicurata la rappresentanza degli interessi
originari dell’ente o degli enti fusi o trasformati”.
Sarebbe fuori luogo in questa sede ogni valutazione circa la
rispondenza delle citate proposizioni normative ai canoni della legge
di delega: ciò che importa è rilevare come esse presupponessero il
permanere della disciplina dettata dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972,
e successive modificazioni, fino a quando non fossero intervenute leggi
regionali ad hoc, vincolate comunque “ad assicurare” nelle nuove
strutture ” la rappresentanza degli interessi originari” dei vecchi
enti.
10. – Come è noto, il procedimento per l’attuazione della legge
di delega n. 382 del 1975 era circondato da particolari garanzie:
soprattutto era previsto un doppio intervento consultivo della
Commissione bicamerale per le questioni regionali. Tale innovazione
dimostrava l’intento del legislatore delegante di recuperare così un
contributo di particolare rilievo da parte di un organo parlamentare:
contributo che per le note vicende politiche, culminate nel voto della
Camera dei Deputati del 15 luglio 1977, acquistava una importanza anche
maggiore di quella prevedibile nel periodo di elaborazione della legge
di delega. Ed è proprio in seno a tale commissione che, con qualche
dubbio circa un possibile “eccesso di delega”, si stabilì di includere
la norma sul trasferimento delle funzioni, del personale e dei beni
delle IPAB infraregionali nell’art. 26 della legge delegata, divenuto
poi art. 25 nel testo approvato dal Consiglio dei ministri (Camera dei
Deputati – Senato della Repubblica, L’attuazione della “382”, 1977, II,
pagg. 925 e 966-967; sedute della Commissione 16 giugno (prima
lettura) e 19 luglio 1977 (seconda lettura)) . L’unico elemento
evocato a sostegno della proposta (L’attuazione, cit., pagg. 865 e 883)
è un richiamo alla disciplina della legge 20 marzo 1975, n. 70
(Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di
lavoro del personale dipendente), richiamo che non appare pertinente
dato che l’art. 2 della legge n. 70 del 1975 esclude in modo espresso
le IPAB dall’applicazione della legge stessa. Piuttosto, risulta
evidente l’intento di assimilare, nel trasferimento delle funzioni, del
personale e dei beni, gli enti nazionali e gli enti infraregionali, in
quanto le funzioni’ ineriscono alle materie indicate nell’art. 117
della Costituzione (L’attuazione, pag. 865).
Circa l’autorevolezza del parere definitivo della Commissione
intercamerale per le questioni regionali, essa è testimoniata dalla
mozione votata a larghissima maggioranza dalla Camera dei Deputati tra
il 15 e il 16 luglio 1977, nella quale si impegnava il Governo ad
attuare la legge n. 382 “sulla base delle conclusioni definitive a cui
perverrà la Commissione interparlamentare per le questioni regionali”.
Nell’allegato, poi, che riproduceva il testo dell’accordo tra i
partiti, in sento negli atti parlamentari, le forze politiche
dichiaravano di impegnarsi “ad ogni livello di responsabilità
istituzionale, per una piena assunzione dell’intesa unitaria”
(raggiunta in Commissione) “nel provvedimento definitivo previsto dalla
legge delega n. 382”. Nella mozione programmatica già citata si
riteneva tra l’altro necessaria, per l’attuazione della legge n. 382,
“la definizione conseguente del potere degli enti locali allo scopo di
eliminare il disordine creato nelle istituzioni e per la incontrollata
dilatazione della spesa pubblica, dal proliferare di enti intermedi ai
quali manca ogni raccordo istituzionale”.
Malgrado questi ulteriori elementi di non trascurabile rilievo, è
però da confermare che il parere della Commissione parlamentare,
chiamata ad intervenire nel procedimento di attuazione della legge di
delega, non solo non è vincolante (sentenza n. 78 del 1957), ma non
può esprimere interpretazioni autentiche delle leggi di delega.
Tantomeno la “lacuna” della legge di delegazione potrebbe essere
colmata con l’approvazione di una mozione o di un ordine del giorno di
una assemblea legislativa (come l’ordine del giorno 18 dicembre 1970
del Senato), perché non è per queste vie che si può estendere
l’oggetto della delega.
11. – Da quanto si è esposto risulta con chiarezza che il
Parlamento, durante tutto l’iter della legge di delegazione (febbraio
1974-luglio 1975), non intese abbinare alla delega per il trasferimento
di funzioni una delega per la riforma, sia pure parziale, del regime
delle IPAB infraregionali; non intese, cioè, di anticipare su questo
punto la legge generale di riforma dell’assistenza. Tra l’altro, la
realizzazione di un simile intento avrebbe richiesto un esame sia pure
sommario dei criteri di superamento del regime contenuto nella legge 17
luglio 1890, n. 6972. Non poteva essere ignorato lo spessore storico
delle istituzioni disciplinate da questa legge organica né si poteva
omettere una riconsiderazione dei principi fondamentali che la
ispirarono (rispetto della volontà dei fondatori, controlli
giustificati dal fine pubblico dell’attività svolta in situazioni di
autonomia). Inoltre sarebbe stato motivo di riflessione la pluralità
di forme e di modi in cui l’attività assistenziale viene prestata,
differenze non prese come tali in considerazione dalla legge Crispi,
preoccupata di unificare sul piano delle figure soggettive (al fine di
sottoporle al controllo dell’autorità civile) i vari tipi di Opere Pie
formatesi nel corso di una vicenda di durata ultrasecolare. Ma, dopo
l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, intraprendere una
riforma del sistema, come è configurato dalla legge Crispi, comporta
che si faccia debito conto dei precetti contenuti negli artt. 18, 19,
33 e 38 della Carta costituzionale e che sia affrontato, alla luce
dell’art. 38, ultimo comma, il tema del pluralismo delle istituzioni in
relazione alle possibilità di pluralismo nelle istituzioni (XXIII
proposizione normativa Commissione Giannini). Fin quando ciò non sia
avvenuto, è necessario che in sede di trasferimento di funzioni
amministrative alle regioni e di attribuzioni di altre funzioni agli
enti locali si osservino i principi della legislazione statale vigente,
come aveva in realtà fatto, su questo punto, il legislatore delegato
del 1972. Anticipare in sede di legislazione delegata, senza un
puntuale sostegno nella legge di delega, principi così innovatori di
riforma (tali da comportare l’eliminazione generalizzata delle IPAB
infraregionali) significa prendere una scorciatoia che la disciplina
costituzionale della delegazione legislativa rende del tutto
impraticabile.
In effetti, come dimostra la giurisprudenza di questa Corte (in
particolare le sentenze nn. 35 del 1960 e 243 del 1976), presentano
carattere specifico, pur nell’ambito della più comprensiva figura
dell'”eccesso di delega” (sentenza n. 3 del 1957), quei vizi della
legge delegata che riguardano i cosiddetti limiti strutturali imposti
in via preliminare dall’art. 76 della Costituzione e dalla legge di
delega: limiti attinenti appunto al tempo determinato per l’attuazione
della delega stessa ed all’oggetto o agli oggetti definiti sui quali
dovrà operare la nuova disciplina. In particolare, l’eccedere dai
limiti della delegazione configura piuttosto un difetto, sia pur
parziale, di delega o meglio un eccesso dalla delega, che si distingue
dalle ipotesi di relativa difformità della normativa delegata dai
principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione o
deducibili aliunde. Pur non potendosi trascurare situazioni di
interferenza tra “oggetto definito” e “principi e criteri direttivi”,
vi sono fattispecie nelle quali l’eccesso dalla delega assume, come nel
caso esaminato in questa pronuncia, autonomo, preliminare e dirimente
rilievo.
12. – Assai serie sone le conseguenze della mancanza, a tutt’oggi,
della legge sulla riforma dell’assistenza pubblica. Com’è noto, dopo
l’entrata in vigore del d.P.R. n. 616 del 1977, sono intervenuti nuovi
provvedimenti e nuove iniziative non certo ispirate ai criteri che
hanno presieduto all’approvazione dell’art. 25, comma quinto, della
predetta legge delegata. Innanzitutto il 17 maggio 1978 fu presentato
alla Camera dei Deputati un disegno di legge del Ministro dell’interno
“ad interim” (Riordinamento dell’assistenza sociale), poi rimasto senza
seguito, che all’art. 15 escludeva dal trasferimento ai comuni le IPAB
“che non svolgono in modo precipuo attività inerenti la sfera
educativo-religiosa e che sono in grado, per l’efficiente
organizzazione di strutture e di personale, anche volontario, di
continuare la propria attività”. Successivamente due decreti-legge non
convertiti (d.l. 29 marzo 1979, n. 113 e d.l. 19 giugno 1979, n. 209
“Norme per la disciplina del trasferimento ai comuni delle istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza operanti nell’ambito regionale”)
contenevano importanti esclusioni dal trasferimento di intere categorie
di IPAB diverse da quelle previste nell’art. 25 del d.P.R. n. 616 del
1977. In particolare, secondo i decreti-legge non convertiti, sarebbero
state escluse dal trasferimento ai comuni le IPAB aventi struttura
associativa, quelle promosse ed amministrate da privati e operanti
prevalentemente con mezzi di provenienza privata nonché le IPAB di
ispirazione religiosa. Né ulteriori iniziative per risolvere il nodo
delle IPAB, in sede di elaborazione della legge per la riforma
dell’assistenza, hanno avuto finora un esito positivo. (Ma deve farsi
menzione dell’art. 45 della legge 23 dicembre 1978, n. 833
“Istituzione del servizio sanitario nazionale”, articolo che esclude
dal trasferimento ai comuni le associazioni di volontariato che
concorrono ai fini istituzionali del servizio sanitario, anche se
attualmente riconosciute come IPAB).
La conseguenza più ovvia di questa situazione, a dir poco incerta,
è davvero paradossale: mentre il legislatore delegato del 1977 aveva
utilizzato ultra vires come dato unificante la “pubblicità” delle
IPAB, gli eventi successivi provocavano profonde disparità di
trattamento, del tutto ingiustificate, tra IPAB considerate in genere
e, inoltre, tra IPAB di diverse regioni’.
Quanto al primo punto, basti ricordare come non si sia consentito
alla Commissione di cui al sesto comma dell’art. 25 di completare la
propria attività, risultando così non scrutinato, ai fini della
esclusione dal trasferimento (attività inerenti la sfera
educativo-religiosa), un numero cospicuo di enti.
Quanto al secondo punto, vanno rilevate talune differenze di ordine
non secondario tra leggi regionali adottate per una prima attuazione
dell’art. 25 (leggi della Regione Emilia-Romagna 8 aprile 1980, n. 25;
della Regione Piemonte 10 aprile 1980, n. 20; della Regione Umbria 17
maggio 1980, n. 46; della Regione Basilicata 4 dicembre 1980, n. 50 e
della Regione Lombardia 7 marzo 1981, n. 13). Infine, si deve ricordare
che il d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (Norme di attuazione dello Statuto
speciale per la Sardegna in riferimento alla legge 22 luglio 1975, n.
382 e al decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.
616) ha escluso dal trasferimento varie categorie di IPAB, adottando in
pieno tutti i criteri di esclusione accolti nei decreti-legge del 1979,
peraltro non convertiti. E ciò a tacere di situazioni ulteriormente
differenziate in altre regioni a Statuto speciale.
Tale stato di cose, se da un lato conferma una parziale
operatività delle norme dell’art. 25, che non hanno dunque natura
meramente programmatica, dall’altro mette in luce gravi disparità di
trattamento tra IPAB e IPAB in relazione a circostanze che non
dovrebbero influire sulla concreta applicabilità del principio
d’eguaglianza alle persone giuridiche, comprese quelle pubbliche (sent.
n. 25 del 1966).
13. – L’accoglimento della prima censura di incostituzionalità
rivolta all’art. 25, comma quinto, per violazione degli artt. 76 e 77,
comma primo, della Costituzione, rende superfluo l’esame delle altre
censure per contrasto con gli artt. 117, 118 e 38, ultimo comma, della
Costituzione; nonché il controllo sulla legittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972. Quanto all’art. 113
del d.P.R. n. 616 del 1977, esso non è richiamato a proposito in un
giudizio promosso per verificare la legittimità costituzionale
dell’art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977.
Accertata la illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma
quinto, del decreto citato, si rende necessaria l’applicazione
dell’art. 27, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 al fine di
dichiarare la conseguenziale illegittimità di altre disposizioni dello
stesso art. 25.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, quinto
comma, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 “Attuazione della delega di
cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382”;
dichiara, inoltre, a norma dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, l’illegittimità costituzionale:
a) del comma sesto dello stesso art. 25;
b) del comma settimo dello stesso art. 25 limitatamente alle
parole: “L’elenco di cui al comma precedente è approvato con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri. Ove, entro il 1 gennaio
1979, non sia approvata la legge di riforma di cui al precedente quinto
comma” e alle parole “nonché il trasferimento dei beni delle IPAB di
cui ai commi precedenti”;
c) del comma nono dello stesso art. 25 limitatamente alle parole:
“e delle IPAB di cui al presente articolo”.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 luglio 1981.
F.to: GIULIO GIONFRIDA – EDOARDO
VOLTERRA – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere