Sentenza N. 174 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
14/07/1971
Data deposito/pubblicazione
14/07/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/07/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI –
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO
– Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI, Giudici,
legge 15 luglio 1966, n. 604, recante norme sui licenziamenti
individuali, promosso con ordinanza emessa il 3 dicembre 1969 dal
pretore di Voltri nel procedimento civile vertente tra Erede Ugo e
l’Ospedale Martinez di Pegli, iscritta al n. 4 del registro ordinanze
1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37
dell’11 febbraio 1970.
Visti gli atti di costituzione di Erede Ugo e d’intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 giugno 1971 il Giudice relatore
Vincenzo Michele Trimarchi;
uditi l’avv. Franco Agostini, per l’Erede, ed il sostituto avvocato
generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
1. – Ugo Erede, premesso che dal 1926 aveva prestato la propria
opera di consulente ostetrico ginecologo con funzione di primario
presso l’ospedale Martinez di Pegli e che il 2 agosto 1968 era stato
licenziato senza ricevere la comunicazione dei relativi motivi,
conveniva, con citazione del 30 agosto 1968, l’ente davanti al pretore
di Voltri e chiedeva che, ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604,
il licenziamento fosse dichiarato inefficace.
Durante il corso del giudizio, assumeva che codesto licenziamento
immotivato fosse in realtà determinato da ragioni politiche e
religiose, e chiedeva di provare ciò, eccependo preliminarmente
l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, in relazione agli artt.
4, 2 e 5, della detta legge ed in violazione degli artt. 3, 4 e 35,
comma primo, della Costituzione.
Nel contrasto delle parti, il pretore, con sentenza non definitiva
del 3 dicembre 1969, accertava l’esistenza di un rapporto di impiego
privato tra l’Erede e l’amministrazione ospedaliera. E con ordinanza di
pari data dichiarava rilevante e non manifestamente infondata la
sollevata questione, disponendo la rimessione degli atti a questa
Corte. Secondo il pretore, il giudizio in corso, infatti, non avrebbe
potuto essere definito senza la preventiva soluzione del problema di
legittimità costituzionale; e la norma denunciata, ammettendo nei
riguardi dei prestatori di lavoro in essa specificati l’applicabilità
dell’art. 4 e non anche degli artt. 2 e 5, limiterebbe, in violazione
delle citate disposizioni della Costituzione, la possibilità del
lavoratore ultrasessantacinquenne o pensionato di difendersi da un
licenziamento per motivi politici, religiosi e sindacali, e qualora
questi non fossero esplicitamente dichiarati dal datore di lavoro.
Davanti a questa Corte si costituiva l’Erede, che, a mezzo degli
avvocati Franco Agostini e Giambattista Lazagna, con deduzioni
depositate il 3 marzo 1970, chiedeva che le norme denunciate fossero
dichiarate illegittime. E spiegava intervento, a mezzo dell’Avvocatura
generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, che,
con atto depositato il 3 marzo 1970, concludeva, invece, per la non
fondatezza della questione.
2. – L’Erede, a sostegno della sua richiesta, deduceva che, in
forza dello specifico richiamo agli artt. 4 e 9 contenuto nell’art. 11
della legge n. 604 del 1966 e per esclusione, non sarebbero applicabili
ai prestatori di lavoro aventi diritto alla pensione o
ultrasessantacinquenni le disposizioni di cui agli artt. 2 e 5 della
stessa legge, e che ciò comporterebbe una sperequazione anche in
relazione all’ipotesi di cui al detto art. 4: “anche in questa ipotesi,
infatti, le norme degli artt. 2 e 5 debbono considerarsi integrative
dello stesso art. 4, quanto alla sua possibilità di effettiva
realizzazione, in un contesto nel quale non può effettuarsi la
estinzione voluta dal legislatore se non travolgendo lo stesso art. 4”.
L’Avvocatura dello Stato, preliminarmente, avanzava dei dubbi
sull’assolvimento da parte del giudice a quo dell’onere di motivazione
circa la rilevanza. Mancando un’idonea motivazione, si ignora, ad
esempio se l’attore fosse un pensionato o un ultrasessantacinquenne, se
l’amministrazione convenuta impiegasse oltre 35 dipendenti, ed infine
se il rapporto dedotto in giudizio potesse rientrare nella materia
disciplinata dalla legge n. 604 del 1966 e cioè si trattasse di
rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel quale la stabilità non
fosse assicurata da norma di legge o di regolamento.
Si rimetteva, comunque, a questa Corte circa il notato difetto di
motivazione.
Nel merito, l’Avvocatura, come si è detto, escludeva che potessero
sussistere le dedotte violazioni dei principi costituzionali. A suo
avviso, il giudice a cuo avrebbe considerato su di un medesimo piano
concettuale il regime probatorio attinente al licenziamento intimato
senza giusta causa o giustificato motivo (artt. 1, 2, 5 e 8) e quello
attinente al licenziamento determinato da ragioni di credo politico,
fede religiosa, appartenenza ad un sindacato ovvero sartecipazione ad
attività sindacali. E tali regimi, invece, andavano tenuti distinti.
perché in relazione al primo è il datore di lavoro tenuto a
dimostrare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo, ed
in relazione al secondo è il lavoratore che deve provare che il
licenziamento è stato determinato da quelle ragioni, che ne comportano
la nullità.
A quest’ultimo regime non sottostanno solo i pensionati e gli
ultrasessantacinquenni, ma tutti i lavoratori. E per ciò è da
escludersi che sussista, per quanto attiene alle prove, una limitazione
dei diritti del lavoratore anziano rispetto agli altri lavoratori.
D’altra parte, non sembra che l’atto scritto richiesto per il
licenziamento dei lavoratori non anziani dall’art. 2, possa di per sé
costituire garanzia per il lavoratore. Anche quando, infatti, il
licenziamento fosse motivato per iscritto (e fuori dei casi difficili a
verificarsi in cui il datore di lavoro dovesse ammetterne la nullità,
attraverso la dichiarazione dei motivi), l’onere probatorio circa i
veri (ed illegittimi) motivi verrebbe sempre a gravare sul lavoratore
(sia o non sia pensionato o ultrasessantacinquenne).
3. – All’udienza del 16 giugno 1971, l’avv. Agostini, per l’Erede,
insisteva nelle precedenti richieste e ad integrazione delle ragioni
già svolte, metteva in evidenza particolari e specifici profili della
questione. Il sostituto avvocato generale dello Stato Casamassima, per
il Presidente del Consiglio dei ministri, contestava l’assunto della
parte privata e si riportava alle conclusioni di cui all’atto di
intervento.
1. – Il pretore di Voltri, con l’ordinanza indicata in epigrafe,
sottopone all’esame della Corte la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 11, in riferimento agli artt. 4, 2 e 5, della
legge 15 luglio 1966, n. 604 (contenente norme sui licenziamenti
individuali), per contrasto con l’art. 3 e con gli artt. 4 e 35, comma
primo, della Costituzione.
Posto che con il detto art. 11 il legislatore, “nei riguardi dei
prestatori di lavoro che siano in possesso dei requisiti di legge per
avere diritto alla pensione di vechiaia o che abbiano comunque superato
il 65 anno di età”, dichiara applicabile la disposizione dell’art. 4
(secondo cui “il licenziamento determinato da ragioni di credo politico
o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla
partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla
motivazione adottata”) e non considera invece applicabili gli artt. 2 e
5 (secondo cui il licenziamento e l’indicazione dei relativi motivi, se
richiesta, devono essere comunicati per iscritto, ed il datore di
lavoro è tenuto a provare la sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo di licenziamento), sarebbe di fatto limitata “la
possibilità del lavoratore ultrasessantacinquenne o pensionato di
difendersi da un licenziamento per motivi politici, religiosi e
sindacali, se questi non siano esplicitamente dichiarati dal datore di
lavoro”.
Per ciò, il lavoratore anziano non troverebbe protezione contro il
licenziamento per uno di questi motivi, e la limitazione violerebbe i
citati artt. 3, 4 e 35, comma primo, della Costituzione che
stabiliscono rispettivamente l’uguaglianza dei cittadini, la loro pari
dignità sociale, senza distinzione particolarmente relativa alle
condizioni sociali (tra le quali è l’età), e la tutela del diritto al
lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
2. – In base alle dirette risultanze dell’ordinanza di rimessione
potrebbero prospettarsi dubbi in ordine all’assolvimento da parte del
pretore dell’onere di motivazione circa il giudizio di rilevanza.
Ma, se si tiene conto anche e soprattutto del contenuto della
sentenza non definitiva, emessa nello stesso giorno dell’ordinanza e da
questa richiamata, emergono elementi sufficienti perché la Corte debba
considerare rilevante la questione nei termini in cui è stata
proposta.
Ricorre, infatti, la necessaria pregiudizialità in funzione della
decisione nel merito, perché è pacifico tra le parti che il
prestatore di lavoro fosse, al momento del licenziamento di età
superiore ai 65 anni e non è oggetto di contestazione il numero dei
dipendenti dell’ente e perché risulta dalla sentenza che tra le parti
sussisteva un rapporto d’impiego privato.
3. – Secondo il pretore di Voltri sarebbe di fatto limitata la
possibilità del lavoratore ultrasessantacinquenne o pensionato di
difendersi da un licenziamento per motivi politici, religiosi e
sindacali, e qualora i motivi del licenziamento non siano
esplicitamente dichiarati dal datore di lavoro. In tal caso il
lavoratore anziano verrebbe a trovarsi in una posizione diversa e meno
favorevole di quella del lavoratore non anziano, perché essendo
esclusa dall’art. 11 l’applicabilità nei suoi confronti degli artt. 2
e 5, non avrebbe diritto a ricevere per iscritto il licenziamento e
l’indicazione dei relativi motivi e non potrebbe giovarsi del vantaggio
connesso al fatto che l’onere della prova, circa la giusta causa o il
giustificato motivo, gravi sul datore di lavoro.
La questione viene in tal modo prospettata con riferimento alla
differente posizione del lavoratore anziano e di quello non anziano a
proposito della distribuzione ed incidenza dell’onere della prova tra
le parti, nell’ipotesi di licenziamento effettivamente posto in essere
per uno dei motivi previsti dall’art. 4. Ed a rigore non tocca, se non
in modo del tutto indiretto, la materia, di natura sostanziale, della
licenziabilità ad nutum.
Alla Corte pare non dubbio che, nonostante la portata generale
dell’art. 4, applicabile a tutti i lavoratori di cui alla legge n. 604
del 1966, e la costante incidenza sopra tali lavoratori dell’onere
della prova nei giudizi di nullità dei licenziamenti determinati da
motivi politici, religiosi e sindacali, il fatto che, di fronte ad un
licenziamento del genere, il datore di lavoro sia esentato dall’obbligo
di comunicare per iscritto il licenziamento e, se richiesto, i motivi,
e soprattutto sia liberato dall’onere di provare la giusta causa ed il
giustificato motivo, comporti per il lavoratore anziano una tutela
sensibilmente inferiore a quella riconosciuta al lavoratore non
anziano. L’avente diritto alla pensione di vecchiaia e
l’ultrasessantacinquenne infatti non possono ottenere, e senza bisogno
di assolvere sul punto alcun onere di carattere probatorio, che il
licenziamento sia dichiarato ineffcace (a seguito della mancata
osservanza dell’art. 2 da parte del datore di lavoro) ovvero risulti
operante sia pure con le conseguenze previste dall’art. 8 (ed ora possa
essere annullato, a sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.
300) (a seguito della mancata prova della giusta causa o del
giustificato motivo, e sempre da parte del datore di lavoro in base
all’art. 5). E non rileva, dato che la norma è operativa nei confronti
di tutti i lavoratori, che questi, anche se anziani, debbano provare
che i licenziamenti che li riguardino, siano stati posti in essere per
i motivi indicati nell’art. 4.
Esaminata, pertanto, la questione sotto il particolare profilo ora
considerato, dall’inapplicabilità degli artt. 2 e 5, in forza
dell’art. 11, ai lavoratori anziani, potrebbe dedursi l’esistenza di
una ingiustificata disparità di trattamento (in contrasto con l’art.
3 della Costituzione) e di una insufficiente tutela del diritto al
lavoro (con la violazione degli artt. 4 e 35, comma primo, della
Carta).
Ad avviso della Corte, però, non si prestano ad essere considerati
sullo stesso piano i lavoratori che “siano in possesso dei requisiti di
legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia” e quelli che
“abbiano comunque superato il 65 anno di età”.
Nei riguardi dei lavoratori che si trovino nella prima delle due
condizioni soggettive, a ben guardare, la previsione di un trattamento
diverso da quello disposto per i lavoratori non anziani risponde a
ragioni, le quali, anche se in astratto e in generale potrebbero essere
ritenute non sufficienti, debbono dirsi concretamente coerenti ed
adeguate. Tali lavoratori, infatti, si presuppone che abbiano diritto
alla pensione di vecchiaia: e la loro licenziabilità (fuori delle
ipotesi di cui all’articolo 4) non ha riscontro nell’eventualità che
essi possano rimanere senza retribuzione e senza trattamento di
quiescenza per vecchiaia. D’altra parte, in una società, come quella
attuale, in cui si hanno disoccupazione e sottooccupazione, la mancata
piena tutela del diritto al lavoro, per quei lavoratori, è il riflesso
giuridico di una necessità pratica, autonomamente valutabile dal
legislatore.
4. – Queste ragioni, invece, non valgono nei riguardi dei
lavoratori che abbiano superato il 65 anno di età e non siano già
pensionati o in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla
pensione di vecchiaia: in tal caso risulta effettiva la violazione
dell’art. 3 da parte della norma impugnata, nella quale inoltre non
ricorre concretamente la tutela del diritto al lavoro nei modi e limiti
costituzionalmente garantiti.
Per costoro in realtà la disparità di trattamento non appare
razionalmente giustificata.
Non ricorrono specifiche e particolari ragioni perché a codesti
lavoratori venga negato o non egualmente riconosciuto il diritto a
determinate garanzie.
La semplice maggiore probabilità, che, in quanto anziani, i
lavoratori non si trovino nelle migliori condizioni per il normale
dispiegamento delle energie fisiche e psichiche in favore del datore di
lavoro e che questo, correlativamente, attraverso la loro
collaborazione, non consegua un regolare adempimento delle obbligazioni
contrattuali e di legge o il normale apporto all’esercizio
dell’impresa, non può essere assunta a valida e sufficiente condizione
del trattamento differenziato. Al lavoratore, che presti la propria
opera in favore del datore di lavoro o che sia inserito nella impresa
di questo, non possono essere negate, e per il solo fatto dell’età,
cautele e garanzie che sono informate al rispetto della personalità
umana e costituiscono, altresì, indici del valore spettante al lavoro
nella moderna società industriale. In particolare, ed a prescindere
dal risultato (della non recedibilità ad nutum) al quale per tale via
si dovesse pervenire, il licenziamento del lavoratore anziano non può
non essere comunicato per iscritto in una all’indicazione dei motivi
(se richiesta); e nel processo, se si pretende dal lavoratore che il
licenziamento sia stato determinato da uno dei motivi di cui all’art.
4, non può non incombere sul datore di lavoro l’onere di fornire la
prova contraria indiretta (e cioè che quel licenziamento in effetti è
avvenuto per giusta causa o per giustificato motivo).
5. – Il riferimento che dal giudice a quo viene fatto agli artt. 4
e 35, comma primo, della Costituzione, non appare pertinente a
proposito della seconda disposizione. Come la Corte ha avuto occasione
di precisare (e da ultimo con sentenza n. 10 del 1970), infatti, il
principio enunciato nel primo comma dell’art. 35 “si limita a
stabilire il criterio generale ispiratore di tutte le disposizioni
comprese nel titolo III”.
Risulta invece la norma denunciata in contrasto con l’articolo 4
della Costituzione, ove si consideri – come pare alla Corte – che la
tutela del diritto al lavoro sia strettamente connesso all’attuazione
(in precedenza valutata) del principio di uguaglianza.
A ciò non è d’ostacolo l’interpretazione che dell’art. 4 si è
data e secondo cui non è garantito a ciascun cittadino il diritto al
conseguimento di un’occupazione così come non gli è garantito il
diritto alla conservazione del lavoro (cfr. sent. n. 45 del 1965),
perché, come la Corte ha precisato con la stessa pronuncia, là ove
sono previsti i casi, i tempi ed i modi dei licenziamenti la
disciplina, per essere conforme alla Costituzione, deve rispecchiare
l’esigenza di un trattamento giuridico eguale per le situazioni eguali,
e in relazione a queste può essere diversificato solo in presenza di
giustificate ragioni.
Ora a proposito della norma denunciata, non appare rispettato il
disposto dell’art. 4 nel senso ed entro i limiti in cui sussiste la
rilevata violazione dell’art. 3.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma primo,
della legge 15 luglio 1966, n. 604 (contenente norme sui licenziamenti
individuali), nella parte in cui esclude l’applicabilità degli artt. 2
e 5 della stessa legge nei riguardi dei prestatori di lavoro che, senza
essere pensionati o in possesso dei requisiti di legge per avere
diritto alla pensione di vecchiaia, abbiano superato il 65 anno di
età.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1971.
GIUSEPPE BRANCA – MICHELE FRAGALI –
COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ –
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI.