N. 176 del 1973
Data generale
11/12/1973
Data deposito/pubblicazione
11/12/1973
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/12/1973
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Dott.
LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof.
ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI – Avv. LEONETTO
AMADEI – Prof. GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI, Giudici,
della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa l’8 giugno 1972 dalla Corte suprema di
cassazione – sezioni unite civili – nel procedimento civile vertente
tra Muscillo Amina e Saviotti Claudio, iscritta al n. 310 del registro
ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 279 del 25 ottobre 1972;
2) ordinanza emessa il 6 luglio 1972 dalla Corte d’appello di
Napoli nel procedimento civile vertente tra De Matthaeis Maria e Monti
Francesco, iscritta al n. 387 del registro ordinanze 1972 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21 del 24 gennaio 1973;
3) ordinanza emessa il 10 novembre 1972 dalla Corte d’appello di
Torino nel procedimento civile vertente tra Negro Giuseppe e Schaeffer
Maria, iscritta al n. 53 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 88 del 4 aprile 1973;
4) ordinanze emesse l’8 novembre 1972 dalla Corte d’appello di
Napoli nei procedimenti civili vertenti tra Ferraioli Celeste e Turlà
Luigi e tra Abbondante Vincenzo e Murolo Giuseppina, iscritte ai nn.
141 e 142 del registro ordinanze 1973 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 163 del 27 giugno 1973;
5) ordinanza emessa il 28 febbraio 1973 dalla Corte d’appello di
Napoli nel procedimento civile vertente tra Lubrano Francesca e
Flagiello Agostino, iscritta al n. 259 del registro ordinanze 1973 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 176 dell’11
luglio 1973;
6) ordinanza emessa il 30 marzo 1973 dalla Corte d’appello di
Trieste nel procedimento civile vertente tra Mulloni Gino e Corona
Maria, iscritta al n. 335 del registro ordinanze 1973 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 236 del 12 settembre 1973.
Visti gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri e di Costituzione di Muscillo Amina, De Matthaeis Maria, Negro
Giuseppe, Saviotti Claudio e Monti Francesco;
udito nell’udienza pubblica del 21 novembre 1973 il Giudice
relatore Vezio Crisafulli;
uditi l’avv. Piero Santucci, per Muscillo Amina e Negro Giuseppe,
l’avv. Teodoro Doria, per De Matthaeis Maria, gli avvocati Luigi Tirone
e Giovanni Pugliese, per Saviotti Claudio, ed il sostituto avvocato
generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
1. – Con ordinanza emessa l’8 giugno 1972 nel corso di un
procedimento civile vertente tra Muscillo Amina e Saviotti Claudio, la
Corte suprema di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge
1 dicembre 1970, n. 898, in relazione agli artt. 7 e 138 della
Costituzione con riferimento all’art. 34 del Concordato tra la Santa
Sede e l’Italia, reso esecutivo con legge 27 maggio 1929, n. 810, ed
agli artt. 5 e 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847.
Il procedimento ha origine da un ricorso per regolamento di
giurisdizione, promosso dalla Muscillo, in pendenza di un giudizio
iniziato innanzi al tribunale di Napoli dal Saviotti per sentire
dichiarare nei di lei confronti la cessazione degli effetti civili di
un matrimonio celebrato davanti a ministro del culto cattolico e
trascritto nei registri dello stato civile.
L’ordinanza ha cura di precisare che l’istanza per regolamento di
giurisdizione proposta dalla ricorrente è proceduralmente ammissibile,
trattandosi di stabilire se l’art. 34 del Concordato, contenendo una
riserva generale di giurisdizione in favore dei tribunali e dicasteri
ecclesiastici, nelle cause attinenti ai matrimoni concordatari,
implichi l’improponibilità della domanda del Saviotti con conseguente
difetto di giurisdizione dei giudici dello Stato italiano. Onde la
rilevanza della questione di legittimità costituzionale, la cui
soluzione condiziona necessariamente la definizione della questione di
giurisdizione.
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, l’ordinanza,
dopo avere affermato che l’esame da parte delle sezioni unite della
questione di giurisdizione “resta del tutto estraneo a qualsiasi
valutazione sia in relazione all’istituto del divorzio in sé, sia in
relazione al regime matrimoniale concordatario”, e dopo avere
rammentato la sentenza n. 169 del 1971 con cui questa Corte ebbe a
giudicare non fondata la questione di legittimità costituzionale del
medesimo art. 2 della legge n. 898 del 1970, “sotto un profilo di
diritto sostanziale”, rileva – mantenendosi dunque dichiaratamente
entro i limiti della questione di giurisdizione – che l’attribuzione ai
giudici italiani della competenza in oggetto non sarebbe compatibile
con la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali e dicasteri
ecclesiastici, nell’assunto che questa sia da ritenere comprensiva di
tutti i giudizi, sia inerenti alla validità, sia anche alla
persistenza degli effetti civili del matrimonio cosiddetto
concordatario: con l’unica deroga espressa che si riferisce alle cause
di separazione personale tra coniugi.
Secondo l’ordinanza, la questione, non specificamente affrontata
nella sentenza n. 169 del 1971 di questa Corte, sarebbe tanto più
delicata se si riflette alle conseguenze suscettibili di derivare dalla
coesistenza – con riferimento all’ipotesi di matrimonio concordatario
non consumato – della giurisdizione italiana e di quella ecclesiastica,
con il rischio di possibili conflitti di pronuncie in contrasto con le
finalità di armonizzazione in Italia perseguite dalla disciplina
concordataria sull’argomento.
L’ordinanza conclude che il sistema implica riconoscimento della
piena giurisdizione canonica su tutto il matrimonio concordatario: dal
che discenderebbe per i coniugi il diritto costituzionalmente garantito
in forza dell’art. 7 Cost. di adire esclusivamente i tribunali e
dicasteri ecclesiastici, sia per la dichiarazione di nullità, sia per
lo scioglimento del vincolo.
2. – Si è costituito in giudizio il resistente, con deduzioni
depositate il 14 novembre 1972, nelle quali chiede una pronuncia di
infondatezza della questione, sostenendo che essa appare in definitiva
identica a quella già risolta con la sentenza n. 169 del 1971, anche
se il giudice a quo afferma di invocare l’esame della Corte sotto il
profilo giurisdizionale e non sostanziale.
Il riconoscimento contenuto nella legislazione concordataria degli
stessi effetti del matrimonio civile per quello canonico implicherebbe,
infatti, che l’istituto abbia rilievo nel diritto statale non come
rapporto, ma come negozio, donde l’erroneità della premessa –
accettata invece dall’ordinanza di rinvio – che il rapporto
matrimoniale, costituitosi nell’ordinamento italiano in virtù della
trascrizione, rimanga “condizionato” nel suo svolgimento dalle
caratteristiche essenziali desunte dall’ordinamento canonico. Ed anzi,
proprio la constatazione che gli effetti civili del matrimonio canonico
trascritto, non differenziandosi da quelli prodotti dall’altro
celebrato con il rito civile, sono soggetti alla normativa sovrana
dello Stato induce – unitamente ad altre ragioni testualmente
deducibili dalla stessa disposizione – a contestare l’affermazione
secondo cui la riserva dell’art. 34 del Concordato esaurirebbe
pattiziamente, sotto il profilo della giurisdizione e della competenza,
tutta la materia delle cause attinenti alle possibili vicende del
vincolo matrimoniale concordatario, senza lasciare spazio per ulteriori
e diverse competenze giurisdizionali nazionali. Diversamente opinando,
dovrebbe coerentemente ammettersi che lo Stato italiano abbia anche
assunto l’impegno della indissolubilità di quel rapporto: il che
risulta, fra l’altro, testualmente smentito dalla citata sentenza n.
169 del 1971.
3. – Una pronuncia di infondatezza della questione è ri- chiesta
anche dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocato generale dello Stato, intervenuto in giudizio con atto
depositato il 14 novembre 1972, nel quale osserva anzitutto che la
norma impugnata ha contenuto innovativo nell’ordinamento giuridico
italiano solo per quanto attiene all’aspetto sostanziale – che ha già
formato oggetto della giurisprudenza della Corte costituzionale,
espressasi nel senso della infondatezza sulla relativa questione -,
mentre sul piano processuale il fondamento del potere giurisdizionale
dei giudici italiani in materia di diritti soggettivi sarebbe da
rinvenire nell’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E,
nell’art.1 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario) e
negli artt. 1 e 2 del codice di procedura civile, oltre che negli artt.
24, 101 e 102 della Costituzione. Né sarebbe esatto parlare nella
fattispecie che interessa di un diritto costituzionalmente protetto ad
adire i giudici ecclesiastici, poiché in realtà non esiste che un
diritto politico in senso ampio alla giurisdizione italiana, attribuito
per il solo fatto di essere cittadino o residente nello Stato, come
risulterebbe confermato dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte
la quale, in riferimento alle riserve di giurisdizione a favore di
comunità extra-statuali, non riconosce che dagli accordi
internazionali al riguardo intercorsi discendano diritti soggettivi per
i privati.
L’applicazione delle regole sull’interpretazione degli atti
contrattuali internazionali non potrebbe, del resto, consentire di
estendere la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali e dei
dicasteri ecclesiastici in materia di giudizi sulla permanenza del
rapporto matrimoniale oltre l’unico caso eccezionale previsto dalla
norma concordataria, quello cioè della dispensa su domanda di uno o di
entrambi i coniugi per il matrimonio rato e non consumato: tanto più
che a quest’ultima norma sono rimaste estranee persino le altre ipotesi
di scioglimento ammesse dall’ordinamento canonico, quali la dispensa
per la professione di voti solenni anch’essa nel caso di in
consumazione del rapporto ed il cosiddetto privilegio paolino (concesso
a favore del coniuge originariamente non cristiano e poi convertitosi,
se l’altro coniuge non intenda seguirlo nella nuova fede). L’opposta
tesi condurrebbe, inoltre, all’assurda conclusione che i tribunali
della Santa Sede dovrebbero pronunciarsi anche su cause di scioglimento
riconosciute dall’ordinamento statale, per quanto carente di
giurisdizione al riguardo, ma condannate dall’ordinamento cui essi
appartengono.
Se poi la dispensa per il matrimonio rato e non consumato sia
giuridicamente ricostruita non come espressione di una competenza
giurisdizionale, ma come manifestazione di potestà ministeriale del
Pontefice, ne conseguirebbe a fortiori l’inesistenza di una riserva di
giurisdizione concordatariamente stabilita anche per le cause di
scioglimento oltre che per quelle di nullità, ma soltanto, in quella
particolare ipotesi di cessazione del vincolo, un impegno dello Stato
italiano a prendere atto del provvedimento canonico ed a dargli
attuazione nel proprio territorio: verrebbe meno, perciò, anche il
rischio, prospettato nell’ordinanza, di un conflitto tra giurisdizioni
concorrenti.
4. – Si è costituita in giudizio la ricorrente, con memoria
depositata l’11 novembre 1972, che amplia e ribadisce le censure di
illegittimità già contenute nell’ordinanza di rimessione.
In particolare, viene in primo luogo ricordato il tenore testuale
della prima parte dell’art. 34 del Concordato, secondo cui “Lo Stato
italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base
della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo
popolo, riconosce al sacramento del matrimonio… ecc.”: dizione
questa che non sembrerebbe compatibile con interpretazioni che tendano
a disconoscere l’avvenuta accettazione dell’ordinamento matrimoniale
della Chiesa, senza cioè la minima distinzione fra regola dell’atto o
del vincolo.
Un secondo argomento è basato sulla considerazione che, al momento
in cui fu stipulato il Concordato, il codice civile allora vigente non
comprendeva fra gli effetti che venivano ad essere riconosciuti anche
al matrimonio canonico altra ipotesi di dissoluzione del vincolo che
non fosse quella della morte del coniuge, per cui la riserva attribuita
alla giurisdizione ecclesiastica in materia si presentava come totale
ed esclusiva, mentre il riferimento esplicito alla dispensa dal
matrimonio rato e non consumato – necessario ad assicurare alla Santa
Sede l’operatività dell’istituto anche nell’ordinamento statale, ove
era ignoto – presupponeva evidentemente che ulteriori cause di
scioglimento non si dessero né si potessero dare.
Infine dalla formula letterale usata nell’ultimo comma dello stesso
art. 34 del Concordato (“Quanto alle cause di separazione personale, la
Santa Sede consente che siano giudicate dall’autorità giudiziaria
civile”) dovrebbe evincersi che l’una parte contraente abbia ricevuto
indirettamente dall’altra in sede pattizia la competenza di cui
trattasi e che al di fuori di essa non sia residuato margine alcuno per
nuove competenze statali sul tema.
La ricorrente chiede, pertanto, una pronuncia di illegittimità
della normativa denunciata.
5. – Analoga questione di legittimità costituzionale è sollevata
anche dall’ordinanza della Corte d’appello di Napoli, emessa il 6
luglio 1972 nel corso di un procedimento civile tra De Matthaeis Maria
e Monti Francesco.
6. – Nel giudizio si è costituito il sig. Monti, con comparsa
depositata il 3 gennaio 1973, rilevando che il giudice a quo avrebbe
accolto una eccezione diversa – riferentesi cioè al profilo
processuale della norma impugnata ed all’asserito suo contrasto con la
riserva di giurisdizione ecclesiastica – rispetto a quella
originariamente proposta dalla controparte sia in prima che in seconda
istanza, che aveva invece ad oggetto l’aspetto sostantivo della
questione di legittimità costituzionale, negli stessi termini in cui
essa era stata prospettata e risolta dalla sentenza n. 169 del 1971
della Corte costituzionale.
Nel merito, la questione pur nella sua attuale formulazione
risulterebbe già esaminata e respinta dalla ricordata sentenza della
Corte costituzionale ed appare comunque non meritevole di accoglimento
per le stesse ragioni che sorreggono la motivazione di quella
decisione.
Le conclusioni della parte, si precisano, quindi, in una richiesta
di inammissibilità o di rigetto della questione stessa.
7. – Si è costituita anche la signora De Matthaeis, con comparsa
prodotta il 13 novembre 1972, nella quale, richiamate le decisioni n.
30, n. 31, n. 32 e n. 169 del 1971 della Corte costituzionale, svolge
tutta una serie di rilievi critici in relazione soprattutto a
quest’ultima sentenza.
Più precisamente, viene osservato che l’art. 7 Cost. fa diretto
riferimento ai Patti Lateranensi e non già alle norme di immissione
degli stessi nell’ordinamente italiano, per cui l’argomento che si
vuole desumere dalla differenza testuale fra l’art. 34 del Concordato e
l’art. 5 della legge 27 maggio 1929, n. 847, ove più non ricorre
l’accenno al carattere sacramentale del matrimonio, non sarebbe
persuasivo, in quanto l’anzidetto contrasto o non dovrebbe considerarsi
esistente o dovrebbe semmai essere risolto dando prevalenza alla
disposizione concordataria. In secondo luogo, non sarebbe stata
adeguatamente valutata la premessa insita nel disposto dello stesso
art. 34 innanzi citato, ove il matrimonio viene qualificato come base
della famiglia e definito come sacramento, secondo una concezione cioè
che non può non intenderlo come rapporto oltre che come atto. Del
resto, la soluzione del problema costituzionale in esame non può non
tener conto della scelta garantita ai cittadini fra l’uno e l’altro
rito e delle conseguenze che ad essa si collegano, costituendone anzi
la ragione determinante per quei nubendi che abbiano inteso basare la
propria famiglia su una visione sacramentale del matrimonio.
8. – L’Avvocato dello Stato, in rappresentanza del Presidente del
Consiglio dei ministri, è intervenuto pure in questo giudizio, con
atto depositato il 30 novembre 1972, illustrando argomenti e
conclusioni sostanzialmente simili a quelli precedentemente dedotti.
9. – Analoga questione è stata poi sollevata dalla Corte d’appello
di Torino con ordinanza emessa il 10 novembre 1972 nel corso di un
procedimento civile tra Negro Giuseppe e Schaeffer Maria.
10. – Si è costituito in questo giudizio il sig. Negro, con
memoria depositata il 19 febbraio 1973, nella quale chiede una
pronuncia di illegittimità della norma denunciata, sviluppando le
ragioni già poste a sostegno della motivazione dell’ordinanza di
rinvio.
11. – L’Avvocato dello Stato, intervenuto a sua volta in
rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio dei ministri con
atto depositato il 16 gennaio 1973, si riporta ai motivi ed alle
conclusioni già assunte negli altri interventi.
12. – Infine, analoghe questioni sono state ancora sollevate dalla
Corte d’appello di Napoli con tre ordinanze emesse le prime due l’8
novembre 1972 e la terza il 28 febbraio 1973 nel corso di procedimenti
civili vertenti rispettivamente tra Ferraioli Celeste e Turlà Luigi,
tra Abbondante Vincenzo e Murolo Giuseppina – procedimento questo che
in particolare ha per oggetto una ipotesi di inconsumazione del
rapporto matrimoniale – e tra Lubrano Francesca e Flagiello Agostino;
nonché dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza emessa il 30
marzo 1973, nel corso di un procedimento civile tra Mulloni Gino e
Corona Maria. In questi ultimi giudizi non vi è stata Costituzione di
parti, né è intervenuto l’Avvocato dello Stato.
Nella pubblica udienza i difensori delle parti private e l’Avvocato
dello Stato hanno insistito nelle rispettive argomentazioni e
conclusioni.
1. – Le ordinanze delle sezioni unite civili della Corte di
cassazione, della Corte d’appello di Napoli, della Corte d’appello di
Torino e di quella di Trieste hanno ad oggetto la stessa questione e i
relativi giudizi vengono perciò decisi con unica sentenza.
2. – Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di
inammissibilità prospettata dalla difesa del Monti per essere la
questione sollevata con l’ordinanza del giudice a quo diversa da quella
proposta dalla controparte: spetta, infatti, al giudice il potere –
dovere di sollevare, anche d’ufficio, le questioni di legittimità
costituzionale, sulle quali questa Corte è chiamata a pronunciarsi nei
termini e nei limiti dallo stesso giudice precisati nella sua
ordinanza.
3. – La questione si accentra sull’asserito contrasto dell’art. 2
della legge 1 dicembre 1970, n. 898, che demanda ai tribunali statali
di giudicare delle cause di cessazione degli effetti civili dei
matrimoni canonici cosiddetti “concordatari”, con l’art. 34 del
Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede, che riserva ai
tribunali e dicasteri ecclesiastici il potere di conoscere delle cause
di nullità del detto matrimonio, nonché della dispensa dal matrimonio
rato e non consumato, con indiretta violazione, quindi, degli artt. 7 e
138 Cost., per il combinato disposto dei quali modificazioni alle norme
di esecuzione dei Patti del Laterano non possono validamente essere
introdotte con legge ordinaria senza previa intesa con la Santa Sede,
dovendosi, in mancanza, seguire il procedimento della revisione
costituzionale.
4. – La questione non è fondata.
È da premettere che, qualunque concezione si ritenga di
accogliere, sul piano teorico, in tema di rapporti tra diritto
soggettivo ed azione, certo è comunque – in forza del preciso disposto
dell’art. 24 Cost. – che la legge non avrebbe potuto, né potrebbe,
attribuire il diritto di ottenere, ricorrendo le condizioni in essa
previste, la cessazione degli effetti civili del matrimonio
concordatario, senza assicurare al tempo stesso l’azione per farlo
valere, e con essa quella tutela giurisdizionale la cui mancanza
priverebbe il diritto medesimo di qualsiasi consistenza. Ché anzi,
trattandosi nella specie di diritto ad un mutamento giuridico non
realizzabile se non attraverso una pronuncia costitutiva del giudice,
può ben dirsi che diritto ed azione si risolvono l’uno nell’altra.
In presenza di situazioni giuridiche siffatte, scindere l’aspetto o
profilo sostanziale dal profilo della giurisdizione, non è, dunque,
possibile. Ed in questo senso, la particolare questione oggi sottoposta
all’esame della Corte era già logicamente ricompresa in quella, più
vasta, risolta con la sentenza n. 169 del 1971, che tutte le ordinanze
dichiarano di non voler riproporre e che l’ordinanza della Corte
d’appello di Torino ha addirittura dichiarato manifestamente infondata.
Segue dal già detto che, se la riserva di giurisdizione e
competenza ai tribunali e dicasteri ecclesiastici, operata dal quarto
comma dell’art. 34 del Concordato, fosse – come si assume nelle
ordinanze – piena e totale, cioè comprensiva di tutte le cause
inerenti sia alla validità sia agli effetti del matrimonio
concordatario, con la sola eccezione delle cause di separazione
personale tra i coniugi, in modo da non lasciare spazio (come si legge
nell’ordinanza delle sezioni unite) “per ulteriori e diverse competenze
giurisdizionali nazionali”, la conseguenza pratica finirebbe per essere
la rinuncia dello Stato a disciplinare il rapporto matrimoniale specie
conferendo alle parti situazioni giuridiche soggettive, le quali, per
quanto ora accennato, non potrebbero non essere azionabili davanti agli
organi giurisdizionali italiani. Rinuncia che, invece, non sussiste,
come ebbe a ritenere questa Corte con la ricordata sentenza n. 169 del
1971 (ribadita con l’ordinanza n. 31 del 1972) precisando che, con il
Concordato, per la parte che cui interessa, lo Stato ha assunto
unicamente l’impegno di riconoscere al matrimonio contratto secondo il
diritto canonico, e regolarmente trascritto, gli stessi effetti del
matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile: libero
restando, peraltro, di regolare tali effetti, anche quanto alla loro
permanenza nel tempo ed ai limiti che questa, secondo il suo proprio
diritto, può incontrare in casi determinati.
5. – Ma soprattutto è decisivo il rilievo che una riserva di
giurisdizione e competenza così ampia, ed anzi addirittura illimitata,
come quella che viene ipotizzata dalle ordinanze, seppur fosse
ammissibile, non potrebbe di certo presumersi, né può farsi derivare
dalle singole specifiche cause enumerate nel quarto comma dell’art. 34:
l’espressa previsione delle quali, fatta per di più in termini
rigorosamente puntuali (nullità del matrimonio, dispensa dal
matrimonio rato e non consumato), depone invece univocamente in senso
opposto.
Al riguardo devono tenersi presenti due considerazioni. La prima è
che tali riserve furono pattuite, e risultano disposte, in vista del
riconoscimento di effetti civili alle pronuncie adottate in merito
dalle autorità ecclesiastiche: così come – reciprocamente, e pur non
essendone fatta espressa menzione nei Patti – le sentenze e i
provvedimenti dei giudici italiani, relativi alla separazione dei
coniugi, “hanno valore anche nel foro canonico” (art. 53 della
Istruzione del 1 luglio 1929 della Sacra Congregazione de disciplina
sacramentorum agli Ordinari ed ai parroci d’Italia). Ciò che – sia
detto di passaggio – concorre a ridimensionare il rilievo, sul quale
viene posto in particolare l’accento negli scritti defensionali di
talune tra le parti private, della parola “consente”, usata nell’ultimo
comma dell’art. 34 del Concordato per esprimere il riconoscimento da
parte della Santa Sede della competenza dell’autorità giudiziaria
civile a giudicare delle cause di separazione (a prescindere anche
dalla circostanza che identica formula risulta adoperata poco oltre,
nel successivo art. 36, laddove lo Stato italiano “consente che
l’insegnamento religioso, ora impartito nelle scuole pubbliche
elementari, abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie”: con
riferimento, in entrambi i casi, ad una sorta di deroga,
consensualmente stabilita, ad orientamenti per l’innanzi costantemente
seguiti nei rispettivi ordinamenti).
La seconda considerazione è che le anzidette riserve, per la loro
stessa natura e funzione, non potevano ovviamente riferirsi se non ad
oggetti sui quali le autorità ecclesiastiche già avevano, in base al
diritto canonico, giurisdizione o competenza.
Tali sono, infatti, le cause di nullità del matrimonio, in ordine
alle quali la riserva (ed il connesso riconoscimento di effetti civili)
sono coerenti con l’impegno assunto di considerare l’atto del
matrimonio, validamente sorto nell’ambito dell’ordinamento canonico,
quale presupposto cui attribuire – dopo la intervenuta trascrizione –
gli effetti civili. Tale è, altresì, la dispensa dal matrimonio rato
e non consumato, istituto tipico del diritto canonico: la sola, tra le
ipotesi dell’art. 34, assimilabile, per l’efficacia ex nunc del
relativo provvedimento del Sommo Pontefice, ad una causa di risoluzione
del rapporto (non rilevando in questa sede la problematica concernente
la più corretta qualificazione che debba darsene dal punto di vista
della dogmatica canonistica). Ed è significativo che gli altri casi di
“scioglimento” ammessi nell’ordinamento canonico (la professione di
voti solenni e il cosiddetto privilegio paolino) non siano invece
contemplati nell’art. 34: di tal che, in conclusione, il
riconoscimento di effetti civili, cui è preordinata la riserva, non si
estende che ad una parte (e sia pure alla maggior parte) delle
pronuncie e provvedimenti degli organi ecclesiastici in materia
matrimoniale.
6. – Sta di fatto, dunque, che il quarto comma dell’art. 34 del
Concordato, frutto di lunghe, complesse, faticose trattative, contiene
una precisa specificazione, per ipotesi tassative, delle cause
matrimoniali riservate alla giurisdizione e competenza delle autorità
ecclesiastiche, con il connesso obbligo dello Stato italiano di
riconoscere piena efficacia, nel proprio ambito, alle pronuncie da
queste ultime adottate. Così che ben si comprende come la qualifica di
“esclusiva”, che nelle originarie proposte della Santa Sede
accompagnava detta riserva, sia scomparsa poi, nella fase conclusiva,
dal testo definitivamente concordato tra le parti. E poiché la
introduzione, nella legge n. 898 del 1970, di una serie di cause di
cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario lascia
intatte le riserve dell’art. 34, risulta ulteriormente confermata la
conclusione, cui questa Corte era giunta nella sentenza n. 169 del
1971, al punto 4 della motivazione, non essersi apportata alcuna
modificazione ai Patti del Laterano (e relative norme interne di
esecuzione), nemmeno per la parte relativa all’art. 34, quarto comma.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2 della legge 1 ‘ dicembre 1970, n. 898, recante “Disciplina
dei casi di scioglimento del matrimonio”, sollevata, in riferimento
agli artt. 7 e 138 della Costituzione, in relazione all’art. 34 del
Concordato con la Santa Sede 11 febbraio 1929 ed alla legge di
esecuzione 27 maggio 1929, n. 810, nonché agli artt. 5 e 17 della
legge 27 maggio 1929, n. 847, dalle ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 1973.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– LUIGI OGGIONI – ANGELO DE MARCO –
ERCOLE ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA –
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI – LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere