Sentenza N. 176 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
26/10/1981
Data deposito/pubblicazione
26/10/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/10/1981
EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO –
Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE –
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof.
LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA –
Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
1957, n. 1203, della legge 23 gennaio 1968, n. 30 e della legge 30
dicembre 1970, n. 1239 (Comunità economica europea – Tabella dei
diritti per la visita del bestiame e dei prodotti ed avanzi animali ai
confini dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 16 dicembre 1978
dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra la S..p.a.
Comavicola e l’Amministrazione delle finanze dello Stato, iscritta al
n. 199 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 108 del 1979.
Visto l’atto di costituzione della S.p.a. Comavicola;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 29 aprile 1981 il Giudice relatore
Antonio La Pergola;
uditi l’avv. Nicola Catalano, per la Soc. Comavicola e l’avvocato
dello Stato Giorgio Zagari, per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
1. – Con ordinanza emessa il 16 novembre 1978, nel corso del
procedimento civile, che verte fra la S.p.a. Comavicola e
l’Amministrazione delle finanze dello Stato, il Tribunale di Milano ha,
in riferimento agli artt. 101, 134 e 136 Cost., proposto questione di
legittimità costituzionale della legge 14 ottobre 1957, n. 1203, per
la parte in cui rende esecutivo in Italia l’art. 189 del Trattato di
Roma, istitutivo della Comunità Europea, quale risulta
dall’interpretazione che di esso ha dato con sentenza 106/177 la Corte
comunitaria di giustizia. Nell’ipotesi che la Corte ritenga la
fondatezza della questione così prospettata, lo stesso giudice. a quo
solleva una seconda questione, questa volta censurando, per presunto
contrasto con l’art. 11 Cost., le leggi 23 gennaio 1968, n. 30 e 30
dicembre 1970, n. 1239, che assume incompatibili con i principi
stabiliti dagli artt. 9, 12, 13 e 95 del Trattato di Roma, nonché con
le prescrizioni dei regolamenti comunitari n. 122 e 123 del 13 giugno
1967. Le anzidette leggi statali sono denunziate, va precisato, per
aver previsto il diritto di visita sanitaria con riguardo alle
importazioni, sottoposte al regime degli invocati regolamenti
comunitart.
2. – Il diritto di visita sanitaria – avverte, nel prospettare la
prima delle suddette questioni, il giudice a quo – è stato in varie
pronunzie qualificato dalla Corte comunitaria di giustizia come tassa
di effetto equivalente al dazio doganale, in quanto tale vietata dalle
sopra menzionate disposizioni del Trattato di Roma e dei regolamenti
comunitari; esso, si aggiunge, è stato poi soppresso con legge dello
Stato d.l. n. 889 del 14 novembre 1977), la quale però nulla
espressamente disporrebbe in ordine alle somme illegittimamente
percette dall’Amministrazione. La Corte costituzionale – prosegue il
Tribunale di Milano – ha già stabilito che il diritto comunitario
prevale sul diritto internazionale incompatibile, con la duplice
conseguenza che le norme anteriori si considerano come implicitamente
abrogate e quelle successive come costituzionalmente illegittime.
Applicando tale criterio al caso in esame, si dovrebbe dunque ritenere
che la norma statale istitutiva del diritto di visita (art. 32, quarto
comma, del T.U. delle leggi sanitarie, come modificato dal d.l.C.p.S.
n. 1099 del 27 settembre 1947) risulti caducata per la sopravvenienza
dei suddetti regolamenti comunitari; le successive leggi del 1968 e del
1970, con le quali è stata nuovamente stabilita l’imposizione fiscale
confliggente con le previgenti norme comunitane, sarebbero, dal canto
loro, viziate di illegittimità costituzionale. Nell’un caso la norma
statale andrebbe quindi immediatamente disapplicata dal giudice a quo;
nell’altro, invece, essa dovrebbe essere denunziata – promuovendo il
relativo incidente di costituzionalità – come lesiva del precetto
dell’art. 11 Cost. Senonché, avverte il Tribunale di Milano, la
possibilità di sollevare una simile questione resta preclusa dopo la
sentenza 9 marzo 1978, pronunziata dalla Corte comunitaria in causa
106/77. Detta decisione statuirebbe, infatti, che il giudice statale è
tenuto a disapplicare la norma interna indipendentemente dalla
circostanza che essa preceda o segua nel tempo la norma comunitaria
incompatibile. Il giudice a quo ritiene dunque di trovarsi di fronte
all’alternativa, o di adottare il punto di vista di questa Corte,
disattendendo quello della Corte comunitaria, ovvero di seguire
l’opposto criterio. I risultati rispettivamente raggiunti dalle due
Corti nella materia in esame avrebbero, è vero, potuto conciliarsi,
avendo questa Corte ormai adeguato la propria giurisprudenza alla più
diffusa coscienza europeistica delle forze politiche, anche di
opposizione, al punto di riconoscere la prevalenza del diritto
comunitario: sempre però, si precisa, in conformità, come sopra
riferito, della distinzione, posta nell’ordinamento interno, fra
funzione giurisdizionale ordinaria e sindacato di costituzionalità. Se
così non è accaduto, ritiene il giudice a quo, è appunto perché
nella citata pronunzia concernente l’interpretazione dell’art. 189 del
Trattato i giudici del Lussemburgo hanno voluto prescindere dalla
ripartizione interna delle competenze fra Corte e giudici ordinari: le
leggi statali confliggenti con il diritto comunitario andrebbero,
secondo la sentenza comunitaria, sempre e comunque disapplicate dal
giudice interno, senza dover chiedere o attendere che esse vengano
rimosse mediante alcun atto del legislatore, (che ne disponga
l’abrogazione) o della Corte, (che ne dichiari l’incostituzionalità).
In altri termini, secondo tale pronuncia, l’art. 189 del Trattato
avrebbe introdotto nell’ordinamento nazionale una causa di invalidità,
implicante la nullità, in luogo dell’annullabilità, dell’atto
legislativo statuale; una nuova figura del vizio di legittimità,
dunque, eccettuata dal controllo riservato alla Corte e rimessa alla
cognizione del giudice ordinario. Resterebbe, d’altra parte, da
stabilire se simile pronunzia vincoli gli organi statuali, ovvero se –
nel presupposto che a detti organi competa di accertare i limiti entro
i quali conformarsi all’interpretazione adottata dai giudici del
Lussemburgo – la statuizione concernente nella specie l’art. 189 del
Trattato abbia sconfinato dalla materia comunitaria, ed invaso la sfera
nella quale la prevalenza dei regolamenti della CEE va autonomamente
garantita dall’ordinamento interno dello Stato.
Il Tribunale di Milano ritiene, per parte sua, che l’efficacia
vincolante della predetta sentenza comunitaria non possa revocarsi in
dubbio, da un canto perché essa è richiesta dal Trattato, al quale
l’ordinamento interno va necessariamente adeguato, dall’altro perché
risponde alla corretta configurazione dei rapporti fra diritto
comunitario e diritto interno: quella, precisamente, accolta dalla
Corte del Lussemburgo. I due ordinamenti, si dice, sono reciprocamente
integrati e non – come ritiene questa Corte – distinti e coordinati
secondo i criteri stabiliti dal Trattato. Le sfere attribuite sia agli
organi comunitari sia a quelli interni, e così le limitazioni che in
forza del Trattato gravano sull’esercizio della sovranità statuale,
non si troverebbero tuttavia puntualmente e rigorosamente definite in
alcuna formula pattizia. L’esatto intendimento del fenomeno starebbe,
invece, nel concepire l’adattamento del diritto interno alle norme
comunitarie come permanente. Data la diretta applicabilità ed
automatica prevalenza di queste ultime, non potrebbe, poi, nemmeno
esservi conflitto fra norme comunitarie e norme interne. Sorgerebbe,
piuttosto, la sola questione della loro compatibilità, che il giudice
del Lussemburgo è, in definitiva, chiamato a risolvere, grazie al
procedimento previsto dell’art. 177 del Trattato, in via pregiudiziale.
Compete dunque, si afferma, esclusivamente e necessariamente a questo
giudice accertare se la questione interpretativa, della quale egli è
investito, riguardi o no la sfera comunitaria. “Essendo vincolante” –
afferma al riguardo il giudice a quo – “la sentenza n. 106/77 ha avuto
l’effetto di modificare l’assetto costituzionale interno sotto il
duplice profilo della soggezione dei giudici alle leggi dello stato
nazionale e del rapporto intercorrente fra essi e la sfera
comunitaria”; e soggiunge: “in forza di quella sentenza è venuto meno
il principio secondo il quale i giudici ordinari sono tenuti alla
osservanza della legge fino a quando questa non abbia cessato di aver
efficacia perché dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale
nell’ambito della sua specifica competenza”. Tale essendo il contenuto
dell’art. 189, esso verrebbe a confliggere con gli invocati precetti
costituzionali (101, 134 e 136 Cost.). È così dedotta, in relazione
al citato disposto del Trattato, l’illegittimità costituzionale della
relativa legge di esecuzione. La questione è peraltro sollevata sulla
traccia di un’indicazione. Che sarebbe contenuta nella sentenza n.
183/73 In tale pronuncia, osserva il giudice a quo, si esclude da un
canto la sindacabilità dei singoli regolamenti comunitari, in quanto
atti diversi dalle leggi statali; dall’altro, però, si considera anche
il caso che l’esercizio dei poteri comunitari concreti gravi lesioni
dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili sanciti nel
nostro ordinamento, per affermare che la Corte deve allora essere
investita del controllo della perdurante compatibilità del Trattato
con la Costituzione. Dove altrimenti opererebbe la limitazione della
sovranità statuale ex art. 11 Cost., viene qui in rilievo – si ritiene
dunque – una controlimitazione, in virtù della quale l’efficacia
interna del diritto comunitario non potrebbe implicare la violazione di
irrinunziabili valori dell’ordine costituzionale interno. La censura
che investe la legge di esecuzione del Trattato sarebbe quindi fondata,
se e in quanto si ravvisano nella specie gli estremi della
controlimitazione testé descritta. Prospettata la questione, la
risposta, si dice, spetta unicamente alla Corte; si osserva tuttavia
che questa dovrebbe privilegiare la tesi, enunciata dalla Corte del
Lussemburgo, dell’integrazione dei due ordinamenti, e della connessa
disapplicabilità delle norme interne contrarie al diritto comunitario:
salvo, vien precisato, a delineare in questa prospettiva altre
eventuali controlimitazioni, le quali andrebbero enucleate – sempre ad
opera della Corte – dal contenuto della costituzione materiale, e
potrebbero esser fatte valere altresì nei confronti dei regolamenti
comunitari, sull’assunto, beninteso, che questi ultimi atti siano
considerati come parte integrante del sistema delle fonti normative
statuali.
L’opposta soluzione, osserva il Tribunale di Milano, è però
certamente possibile – ed andrebbe allora accolta dalla Corte ponendo
“un’espressa controlimitazione istituzionale, in sede di ratifica del
Trattato di Roma” – mediante la dichiarazione di incostituzionalità
della relativa legge di esecuzione, nella parte in cui essa attribuisce
all’art. 189 efficacia vincolante, nei termini sanciti dalla Corte
comunitaria.
La risposta della Corte costituzionale non dovrebbe, peraltro,
prescindere dalle posizioni degli altri stati membri della CEE.
Ove questa Corte respinga la tesi sancita nella pronuncia dei
giudici del Lussemburgo, e affermi così il proprio potere di sindacare
le norme interne incompatibili con l’anteriore statuizione comunitaria,
essa dovrebbe altresì dichiarare, per violazione dell’art. 11 Cost.,
l’incostituzionalità delle leggi n. 30 del 1968 e n. 1239 del 1970, in
quanto incompatibili con gli artt. 9, 12, 13 e 95 del Trattato di Roma
e con le disposizioni contenute nei regolamenti CEE 122 e 123 del 1967.
In tal senso – e cioè condizionatamente all’accoglimento della
questione che si solleva per prima – viene quindi proposta la relativa
questione, concernente, come si è detto, le leggi del 1968 e del 1970,
nelle quali è previsto il diritto di visita sanitaria.
3. – Si costituisce in giudizio la S.p.a. Comavicola, promotrice
del procedimento pendente avanti il Tribunale di Milano, in cui essa ha
chiesto il rimborso delle somme, che assume indebitamente riscosse
dall’Amministrazione finanziaria in applicazione del diritto di visita
sanitaria. La difesa di parte privata contesta, in primo luogo, la
correttezza delle premesse dalle quali detto giudice muove nel
denunziare l’incostituzionalità della legge di esecuzione del Trattato
di Roma, con riferimento alla statuizione ivi posta nell’art. 189. La
pronunzia resa dal giudice comunitario sull’interpretazione di tale
disposto del Trattato, ha ipotizzato, certo come lecita, la
disapplicazione delle norme statali confliggenti con il diritto
comunitario; ma con ciò non intenderebbe, e in alcun caso non
potrebbe, impedire alla Corte di esercitare riguardo alle norme
anzidette il potere di sindacare le leggi interne che ad essa è
costituzionalmente garantito. La difesa della società Comavicola
insiste poi per l’accoglimento della questione posta in via subordinata
dal Tribunale di Milano, deducendo che, alla stregua della pregressa
giurisprudenza di questa Corte, la previsione del diritto di visita è
sicuramente in contrasto con il divieto delle tasse equivalenti al
dazio doganale, stabilito dalle norme del Trattato e dei regolamenti
comunitari, di cui si lamenta l’infrazione.
4. – Si è altresì costituito in giudizio, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio.
L’Avvocatura deduce, anzitutto, l’inammissibilità e comunque
l’infondatezza della questione concernente, come sopra precisato, la
legge di esecuzione del Trattato di Roma.
In punto di ammissibilità, si eccepisce l’avvenuta caducazione
delle norme statali, riguardo alle quali si tratta di stabilire se si
eserciti il controllo di costituzionalità accentrato nella Corte, o se
invece valga il principio della disapplicazione immediata da parte del
giudice ordinario, affermato nella giurisprudenza della Corte
comunitaria. Dette norme, osserva precisamente l’Avvocatura, sono state
colpite, con la sentenza n. 163/77, da dichiarazione di illegittimità
costituzionale. Ivi, si dice, la Corte ha, secondo i principi da essa
posti in precedenti pronunzie riguardo ai rapporti fra diritto
comunitario e diritto interno, ritenuto l’abrogazione implicita della
legge n. 30 del 23 gennaio 1968, anteriore rispetto agli incompatibili
regolamenti comunitari allora invocati (nn. 804 e 805 del 1968), e ha
d’altra parte dichiarato costituzionalmente illegittima la legge
statale (n. 1239 del 30 dicembre 1970), successivamente emessa in
violazione dei suddetti regolamenti. La declaratoria di
incostituzionalità investirebbe peraltro l’intero ambito nel quale,
applicandosi il diritto di visita sanitaria, la legge statale confligge
con la prescrizione comunitaria. Il che l’Amministrazione finanziaria
non avrebbe nemmeno contestato nel giudizio a quo, vertendo la
controversia innanzi al Tribunale di Milano, sulla questione se –
caducata la norma istitutiva del diritto di visita – debba o no farsi
luogo alla restituzione delle somme versate dalla società attrice. Di
qui discenderebbe la irrilevanza, non soltanto della prima delle due
questioni prospettate nell’ordinanza di rinvio, che come oggetto ha
appunto le norme caducate; ma anche della seconda, la quale concerne la
soggezione delle norme anzidette ai controlli di costituzionalità
previsti per gli atti aventi forza di legge, e così evidentemente
presuppone il loro perdurare in vigore.
L’irrilevanza della questione da ultimo richiamata risulterebbe
anche da ciò: che, com’è formulata, essa sarebbe inconferente
rispetto alla pur lodevole esigenza di certezza, avvertita dal giudice
a quo, di fronte alle divergenti soluzioni adottate, come si è visto,
dalla Corte comunitaria e dalla Corte costituzionale. In nessun caso,
invero, il problema che si fa discendere dalla nuova interpretazione
dell’art. 189, accolta dalla Corte comunitaria, implicherebbe
violazioni dell’assetto costituzionale del nostro Stato: se si ritiene
che la pronunzia interpretativa in questione vincola gli organi
statuali, le prospettate deroghe al sistema dei controlli di
costituzionalità andrebbero sicuramente alla sfera degli effetti
consentiti, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte,
dall’art. 11 Cost.: se viceversa si esclude un simile vincolo, non
sarebbe allora nemmeno insorta alcuna variazione delle competenze
interne, che possa essere censurata in questa sede. Il che varrebbe
d’altronde a comprovare che la questione, quand’anche la Corte
scendesse ad esaminare il merito, è palesemente infondata.
Ingiustificato, si osserva inoltre, è il richiamo della sentenza n.
183 del 1973, nella quale la Corte si è riservata di controllare la
conformità del Trattato e del diritto comunitario alla Costituzione:
giacché tale riserva, come quella analogamente avanzata dalla Corte
costituzionale di Karlsruhe, è stata formulata esclusivamente in
considerazione del caso, peraltro definito assai improbabile, che
insorgano norme comunitarie incompatibili con i principi fondamentali
della Carta costituzionale; mentre nella specie il disposto dell’art.
189 sarebbe denunciato sotto il diverso riflesso degli effetti, che
esso stesso produce, rispetto al modo in cui deve operare la prevalenza
della normativa comunitaria sulle confliggenti disposizioni del diritto
statuale. Nell’ordinanza di rinvio, vien dunque dedotto, si confonde la
norma sulla produzione del diritto comunitario, per la quale la Corte
non ha nella sentenza richiamata o in altra pronuncia prefigurato alcun
controllo di costituzionalità, con le regole in conformità di detta
norma prodotte: con la conseguenza di assimilare erroneamente gli
effetti scaturenti nell’ordinamento statuale dai due distinti livelli,
del diritto immediatamente posto, e del diritto derivato dal Trattato.
La Corte avrebbe del resto modo di pronunziarsi più opportunamente
sulla divergenza tra la sua posizione, e quella accolta, con
riferimento all’art. 189 del Trattato, dalla Corte comunitaria, fuori
dallo schema in cui il Tribunale irrigidisce, con il censurare la
legge di esecuzione del Trattato, la prospettazione del problema. A tal
fine, si soggiunge, può giovare l’esame della questione proposta in
riferimento all’art. 11 Cost., sempre che la Corte ne tragga lo spunto
per stabilire “attuosamente” se le norme contrarie ai regolamenti
comunitari vadano disapplicate dal giudice ordinario, o invece da essa
annullate. D’altra parte sarebbe contraddittorio assumere, come fa il
giudice a quo, che la seconda delle questioni sollevate nell’ordinanza
di rinvio si ponga solo in via subordinata all’accoglimento della
prima. Se l’art. 189 del Trattato fosse reso inoperante nel nostro
ordinamento interno, verrebbe infatti a difettare lo stesso presupposto
logico, prima ancora che giuridico, perché alla Corte sia chiesto di
garantire, alla stregua dell’art. 11 Cost., l’efficacia diretta del
diritto comunitario, e la sua prevalenza anche rispetto alle
successive leggi nazionali. A parte le altre evidenti ed inevitabili
conseguenze sull’intero Trattato, sarebbe allora vuotato di concreto
significato proprio quel criterio risolutore del conflitto fra norma
comunitaria e norma interna, di cui si vuole, nel caso in esame,
assicurare l’attuazione.
Quanto, poi, al rilevato contrasto fra le posizioni delle due
Corti, l’Avvocatura ricorda che nel procedimento concluso con citata
pronunzia interpretativa, il Governo italiano aveva, davanti ai giudici
del Lussemburgo, sostenuto la piena compatibilità del mezzo tecnico
del controllo di costituzionalità, operante nel nostro ordinamento,
rispetto ai fini ed ai principi del Trattato. La tesi è stata, però,
disattesa, con il risultato di generare una situazione di incertezza
per gli organi giurisdizionali ed amministrativi dello Stato chiamati
da un canto ad applicare il diritto comunitario, dall’altro a
rispettare l’ordinamento costituzionale interno. L’Avvocatura si
rimette alla saggezza della Corte per l’apprezzamento del delicato
problema. Del pari, dato il contenuto della sentenza n. 163 del 1977,
essa si rimetta alla valutazione che in questa sede sarà fatta della
questione concernente la compatibilità fra le prescrizioni comunitarie
ed il diritto di visita sanitaria, previsto nelle censurate leggi del
1968 e del 1970.
5. – In prossimità dell’udienza, la difesa di parte privata ha
prodotto una memoria aggiuntiva. In essa si tien conto, in primo luogo,
dell’eccezione di irrilevanza opposta dall’Avvocatura dello Stato alle
censure, che il Tribunale di Milano muove alla legge di esecuzione del
Trattato.
L’eventuale accoglimento di tale eccezione non pregiudicherebbe le
istanze della parte privata costituitasi nel presente giudizio, e negli
altri promossi con le ordinanze dei Presidenti del Tribunale di Firenze
(ordinanza n. 486/79) e di Trento (ordinanza n. 882/79). Accolta tale
eccezione, ne segue, si osserva, che la sentenza n. 163 del 1977
avrebbe investito l’atto legislativo in cui la norma istitutiva del
diritto di visita è contenuta, nel suo complesso: così nei confronti
di tutte le voci dell’annessa tabella, anche dove si tratti di
importazioni da paesi terzi queste ricadano sotto la disciplina
derivante dalla fonte comunitaria. Il giudice a quo sarebbe, allora,
comunque tenuto a disapplicare le norme in questione. D’altra parte,
alla tesi dell’Avvocatura potrebbe obiettarsi che gli effetti della
pronunzia di incostituzionalità già intervenuta sono circoscritti
alla voce tabellare, sotto la quale il diritto di visita veniva nella
specie ad incidere sul puntuale oggetto della normazione comunitaria; e
in ogni caso, delle due leggi statuali considerate nell’ordinanza di
rinvio, quella emanata nel 1968 andrebbe rimossa mediante apposita
dichiarazione di illegittimità costituzionale, perché emanata in
violazione di previgenti regolamenti comunitari.
Sotto tutti i residui profili, la difesa della parte privata
concorda sostanzialmente con l’Avvocatura, nel dedurre la
inammissibilità e l’infondatezza della prima questione, e viceversa la
rilevanza e proponibilità della seconda; la quale – si ritiene,
aderendo anche qui alla tesi della Presidenza del Consiglio – non
sarebbe subordinata alla prima questione da quel nesso di dipendenza
logica, che è prospettato nell’ordinanza di rinvio. Diversamente
dall’Avvocatura, si insiste, tuttavia, per l’accoglimento della seconda
questione, la cui fondatezza, dopo la sentenza n. 163 del 1977, sarebbe
incontestabile: nessuna norma o pronunzia degli organi comunitari, si
deduce, può privare la Corte del potere di sindacare la
costituzionalità delle leggi; tale sindacato costituisce anzi una
garanzia, in definitiva la più sollecita e compiuta, del diritto posto
nel Trattato, e della normazione comunitaria.
La questione, discussa nell’udienza pubblica del 23 aprile 1980
veniva, in forza dell’ordinanza n. 145 del 1980 rinviata a nuovo ruolo
e ridiscussa nell’udienza del 29 aprile 1981. In prossimità
dell’ultima udienza, la difesa della società Comavicola ha presentato
altra memoria, insistendo per l’integrale conferma della vigente
giurisprudenza, sull’assunto che il sistema di costituzionalità offra,
a chi invochi l’applicazione della normativa comunitaria, un rimedio
più sicuro, per via dell’efficacia erga omnes annessa alla pronuncia
della Corte costituzionale, e oltre tutto più spedito, rispetto a
quelli esperibili innanzi ai giudici ordinari. L’opposta opinione, si
afferma, trascura questo dato dell’esperienza, nonché le prevedibili
conseguenze di un sindacato, che fosse diffuso in capo ad ogni giudice:
così, la difficoltà, se non l’impossibilità, di ottenere da parte,
sia di altri organi giudicanti, sia e soprattutto dell’Amministrazione
(in genere finanziaria), l’estensione del giudicato, risultante dalla
disapplicazione della norma nazionale più recente, che un qualsiasi
tribunale periferico abbia ritenuto non conforme al precetto
comunitario, ma che si trova pur sempre posta in una legge formalmente
vigente.
Anche negli ambienti della Corte di giustizia, del resto, verrebbe,
per quanto risulta alla difesa di parte privata, facendosi strada il
convincimento che, nell’ordinamento italiano, il mezzo tecnico del
sindacato di costituzionalità risulta in pratica il più vantaggioso
per l’osservanza del diritto comunitario e per la tutela delle
situazioni giuridiche da esso derivanti. La sopra richiamata sentenza
interpretativa di detta Corte sancirebbe la tesi, secondo cui il
divieto per il giudice italiano di disapplicare le norme interne emesse
in violazione di precedenti norme comunitarie impedisce (o comunque
ritarda, finché non sia intervenuta la pronunzia di
incostituzionalità) l’applicazione immediata della norma comunitaria,
prescritta dall’art. 189 del Trattato di Roma. Senonché, questa
ricostruzione dogmatica del fenomeno sarebbe frutto della confusione
fra due concetti, invece distinti: l’astratta applicabilità e la
concreta applicazione di una norma. La norma può ben essere
applicabile, e sotto il profilo dogmatico andrà correttamente definita
come tale, anche quando la materiale applicazione di essa resti esclusa
per una serie di cause di diverso genere, che vanno dalla mera
ignoranza da parte dell’interessato della norma a lui favorevole ad
altre ipotesi (decadenza, giudicato, transazione): le quali tutte, si
osserva, incidono solo sulla specie, senza pregiudicare altrimenti
l’ambito in cui la norma, mantenendo intatta l’astratta qualifica della
applicabilità, riceve attuazione. Il che potrebbe del resto ben
darsi, anche dove, alla stregua dell’attuale giurisprudenza della
Corte, la norma comunitaria sia da ritenere fuor di dubbio
immediatamente applicabile, in quanto sopravviene alla norma interna
incompatibile e ne determina la caducazione. Analoga, si aggiunge, è
in definitiva la situazione della norma comunitaria che, applicabile
immediatamente in forza del Trattato, non possa tuttavia, in presenza
di successive e contrarie statuizioni del legislatore statuale, essere
applicata; giacché la pronunzia di incostituzionalità, che allora si
renderebbe indispensabile, lungi dal contraddire conferma – accertando
l’invalidità ab initio, ex art. 136 Cost., della norma interna
incompatibile – l’applicabilità immediata della norma comunitaria.
L’altro rimedio alternativo alla dichiarazione di incostituzionalità,
e parimenti efficace, sarebbe del resto l’abrogazione, necessariamente
riservata alla discrezionalità del legislatore. Fermo restando,
però, che l’atto abrogante sia congegnato in modo da operare fin dal
momento in cui sorge l’incompatibilità fra le prescrizioni comunitarie
e il diritto prodotto dal legislatore interno. Diversamente, si
conclude, il rimedio sarebbe peggiore del male, implicando la mera
rimozione ex nunc della norma statale che la norma comunitaria,
contraddetta dal diritto interno, non è immediatamente applicabile
nell’ordinamento interno.
Altri rilievi sono infine formulati dalla difesa della società
Comavicola sia per il caso che la Corte mantenga l’attuale
giurisprudenza sia, in via subordinata, per il caso che essa decida di
mutarla.
A) Nella prima ipotesi, andrebbe presa in considerazione una
limitata modifica dell’art. 26, secondo comma, della legge n. 87
dell’11 marzo 1953 e correlativamente delle norme integrative del 16
marzo 1956, al fine di prevedere, fra le possibilità di decisione in
Camera di Consiglio, quella della manifesta fondatezza della questione.
Ciò servirebbe a semplificare opportunamente la procedura quando, come
nella specie, la norma interna oggetto di censura sia stata già
dichiarata incostituzionale dalla Corte, o quando il contrasto fra
norma comunitaria e norma interna risulti insanabile sulla base di un
giudizio della Corte del Lussemburgo.
B) Anche quando la Corte rivedesse la propria giurisprudenza, essa
non potrebbe per questo in alcun caso dichiarare infondata la
questione, sollevata da un giudice che assuma la norma statale più
recente come lesiva di norma comunitaria, e, in conseguenza, dell’art.
11 Cost. Si prospetterebbe semmai il rinvio della causa al giudice a
quo perché, in conformità della mutata giurisprudenza, disapplichi
nel caso in esame la norma nazionale più recente.
All’udienza pubblica del 29 aprile 1981, l’Avvocatura dello Stato e
la difesa della parte privata, hanno ribadito le conclusioni svolte in
precedenza.
1. – La controversia, dalla quale trae origine il presente
giudizio, verte innanzi al Tribunale di Milano sul rimborso delle somme
che la società Comavicola assume illegittimamente percette
dall’Amministrazione doganale. Com’è esposto in narrativa, si tratta
di importazioni (di uova e pollame), alle quali è stato applicato il
diritto di visita sanitaria, qual è previsto nella legislazione
interna (r.d. 27 luglio 1931, n. 1265, successivamente modificato dal
d.l.C.p.S. 27 settembre 1947, n. 1099, e legge 23 gennaio 1968, n. 30,
ed infine dalla legge 30 dicembre 1970, n. 1239). Le merci importate –
precisa il giudice a quo – cadono d’altro lato sotto la disciplina
dettata dagli organi della Comunità economica europea prima con i
regolamenti n. 21/62 e 22/62 (del 4 aprile 1962), poi con i regolamenti
n. 122/67 e 123/67 (del 13 giugno 1967), relativi all’organizzazione
comune dei mercati, rispettivamente nei settori delle uova e del
pollame. La normazione testé citata stabilisce, tra l’altro (art. 13
del regolamento n. 122/67; art. 13 del regolamento 123/67) che negli
scambi intercomunitari è vietata la riscossione di qualsiasi dazio
doganale, o tassa di effetto equivalente. Nell’ordinanza di rinvio si
osserva, altresì, che secondo la ormai ferma giurisprudenza della
Corte comunitaria del Lussemburgo, il diritto di visita rientra
nell’ambito del divieto così configurato. Il conflitto che qui
sussiste tra la norma interna e la prescrizione comunitaria andrebbe
risolto, si dice, secondo i criteri già enunciati in precedenti
pronunzie di questa Corte: e cioè, disapplicando la norma interna, se
incompatibile con il regolamento comunitario che la segue nel tempo, e
ne determina l’implicita cadue azione; sollevando invece la questione
di costituzionalità, dove la norma interna sia posta in violazione di
un anteriore regolamento comunitario, perdie’ allora essa sarebbe, in
riferimento all’art. 11 Cost., affetta da un vizio di illegittimità,
del quale conosce esclusivamente il giudice costituzionale. Nella
specie, le norme implicitamente caducate, e da disapplicare, sarebbero
quelle che contemplavano il diritto di visita prima dell’entrata in
vigore dei regolamenti comunitari del 1967; sarebbero d’altro canto
costituzionalmente illegittime le altre, che hanno contemplato la
riscossione di tale diritto nel 1968 e nel 1970, e così disatteso le
previgenti norme comunitarie. Diverso, e incompatibile, sarebbe d’altra
parte il criterio sancito dalla Corte del Lussemburgo con la pronunzia
resa, in causa 106/77, ex art. 177 del Trattato, sull’interpretazione
dell’art. 189 del Trattato medesimo. In detta decisione, avverte il
giudice a quo, si è invero affermata la necessaria disapplicazione
delle norme interne confliggenti con quelle comunitarie, non importa se
anteriori o successive. Di fronte all’alternativa di seguire l’una
soluzione giurisdizionale, anziché l’altra, il Tribunale di Milano
ritiene di promuovere il giudizio di questa Corte: e a questo fine
solleva una prima questione, al cui eventuale accoglimento è
subordinato l’incidente di costituzionalità che concerne la norma
regolatrice della specie, come qui’ di seguito precisato.
2. – La prima questione è sostanzialmente dedotta in base al
seguente ordine di rilievi:
a) La giurisprudenza costituzionale italiana sarebbe venuta
adeguandosi alla coscienza europeistica, che si è intanto diffusa nel
paese, fino a riconoscere, non soltanto l’applicabilità immediata, ma
la prevalenza delle norme comunitarie nei confronti delle confliggenti
statuizioni del legislatore statale: sempre sull’assunto, tuttavia,
che questo risultato si consegue in conformità dei rimedi offerti
dalla giustizia ordinaria o dal sindacato di costituzionalità, secondo
i casi. Dal canto loro, i giudici del Lussemburgo avrebbero inteso
prescindere da simili ripartizioni delle competenze all’interno
dell’ordinamento statale: perciò la suddetta pronunzia interpretativa
affermerebbe che il giudice statale disapplica sempre e comunque le
norme incompatibili col diritto comunitario, senza dover attendere o
chiedere che esse siano rimosse con legge di abrogazione, o con altro
procedimento all’uopo prescritto dalla Costituzione statale (qual è,
nell’ordinamento italiano, quello che si conclude con la dichiarazione
di illegittimità costituzionale). Per questa via, si soggiunge, viene
peraltro a delinearsi una nuova figura di invalidità, eccettuata
dalla cognizione della Corte, in quanto essa implica non
l’annullabilità, ma la radicale nullità dell’atto legislativo
interno, rilevabile da qualsiasi organo giudicante.
b) La Corte costituzionale e i giudici della Corte comunitaria
giungerebbero alle divergenti conclusioni sopra richiamate anche in
conseguenza delle rispettive sistemazioni teoriche dei rapporti tra
ordinamento comunitario e ordinamento interno. Questa Corte, si dice,
assume l’uno e l’altro ordinamento come distinti, ancorché coordinati
secondo il Trattato; l’altra li configura invece come reciprocamente
integrati, e così afferma che le norme comunitarie, scaturendo dalla
sola fonte che può produrle ed estinguerle, sono intangibili dalle
norme interne, rispetto alle quali esse acquistano rango superiore.
c) Dopo di che, si prospetta l’ulteriore problema di stabilire se
la sentenza resa ex art. 177 dalla Corte del Lussemburgo vincoli in
ogni caso gli organi statuali, ivi inclusa la Corte; ovvero se –
competendo a detti organi di sindacare la pertinenza della pronunzia
alla materia comunitaria – si debba nella specie concludere che la
statuizione concernente il disposto dell’art. 189 travalica la sfera
riservata ai giudici del Lussemburgo ex art. 177, per occuparsi del
modo come la prevalenza del diritto comunitario va autonomamente
regolata e garantita, nel proprio ambito, dall’ordinamento statuale.
Il Tribunale di Milano ritiene, per parte sua, che l’efficacia
vincolante della sentenza comunitaria non possa essere revocata in
dubbio, anche se pronunciata, come nella specie, in un procedimento
promosso, ex art. 177, da altro giudice nazionale. I due ordinamenti –
si osserva al riguardo, accogliendo il punto di vista dei giudici
comunitari – sono integrati, di guisa che nel sistema da essi composto
non può, propriamente, nemmeno darsi alcun conflitto fra norme
comunitarie e norme interne. Sorgerebbe, se mai, il solo problema della
loro compatibilità, che in definitiva è risolto, nella via prevista
dall’art. 177, ad opera della Corte del Lussemburgo. L’inerenza alla
materia comunitaria delle questioni sollevate in quella sede non
potrebbe essere allora accertata da altro giudice, che la Corte
anzidetta, istituzionalmente investita dell’interpretazione del
Trattato.
d) Dato il vincolo scaturente dalla pronuncia comunitaria, prosegue
il giudice a quo, si solleva in questa sede il dubbio, se il disposto
che essa ravvisa nell’art. 189 del Trattato, urti, in quanto efficace
nell’ordinamento interno, contro il principio della soggezione del
giudice alla legge (art. 101 Cost.), finché questa non sia dichiarata
illegittima dalla Corte, nei modi prescritti per l’esercizio del
sindacato di costituzionalità (artt. 134 e 136 Cost.). Nell’ordinanza
di rinvio è così denunciata, in riferimento ai testé citati
parametri costituzionali, l’illegittimità costituzionale della legge
14 ottobre 1957, n. 1203, nella parte, appunto, in cui rende esecutivo
in Italia l’art. 189 del Trattato, come interpretato con la sentenza n.
106/77 della Corte di giustizia. Nel porre la questione, si fa peraltro
riferimento alla sentenza n. 183/73. In detta pronuncia, ricorda il
giudice a quo, questa Corte si è riservata di sindacare la perdurante
compatibilità del Trattato con la Costituzione, pur escludendo che i
singoli regolamenti comunitari – atti diversi dalle leggi statali –
siano innanzi ad essa impugnabili. La riserva così avanzata opererebbe
quando la Corte fosse chiamata ad accertare se l’esercizio dei poteri
affidati agli organi della Comunità, deviando dalle finalità
stabilite nel Trattato, finisca per vulnerare i principi fondamentali
del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana.
In una simile evenienza, la compressione della sovranità statuale, che
è altrimenti consentita dall’art. 11 Cost., viene preclusa, si
osserva, in virtù di una “controlimitazione”, posta a salvaguardia
dell’ordine istituzionale interno. I precetti costituzionali di cui si
prospetta la lesione andrebbero dunque fatti assurgere al piano in cui
risiedono i fondamentali ed irrinunziabili valori costituzionali,
perché la questione si riveli fondata. Diversamente, andrebbe accolta
la tesi sancita nella pronunzia comunitaria, e dovrebbe ritenersi che
nell’ordinamento interno si è reso operante ex art. 11 Cost., il
criterio della disapplicabilità immediata delle norme contrarie al
diritto comunitario, qual è ivi configurato. Pur adottando tale ultima
soluzione, la Corte potrebbe, del resto, enucleare dal contenuto della
costituzione materiale altri inderogabili valori, e garantirne
l’osservanza con l’estendere il suo controllo ai regolamenti
comunitari: i quali, si soggiunge, risulterebbero in questa prospettiva
integrati nel sistema degli atti normativi interni, e così
assoggettabili al sindacato di costituzionalità.
3. – La seconda questione è poi prospettata sull’assunto che la
Corte ritenga la fondatezza della prima, affermando il proprio potere
di sindacare le norme interne che contraddicono al previgente diritto
comunitario. Precisamente, sono censurate, per asserito contrasto con
l’art. 11 Cost., le norme istitutive del diritto di visita, che si
denunziano come lesive degli artt. 9, 12, 13 e 95 del Trattato, e dei
regolamenti comunitari n. 122 e n. 123 del 1967.
4. – Una riflessione s’impone subito con riguardo al nesso di
dipendenza logica, com’è posto nell’ordinanza’ di rinvio, della
seconda questione dalla prima: la quale ultima investe, nei termini
sopra precisati, la compatibilità fra l’art. 189 del Trattato e la
soggezione al sindacato di costituzionalità delle leggi interne, che
divergono da anteriori statuizioni comunitarie. Ora, il problema così
prospettato rileva per l’esame della seconda questione – e questa
acquista, a sua volta, rilevanza per la definizione del giudizio a quo,
che concerne le norme istitutive del diritto di visita – evidentemente
ad una condizione: le norme censurate devono essere assoggettabili al
controllo della Corte; occorre perciò che esse non risultino rimosse
in forza di alcun titolo, che ne determini l’estinzione e la
caducazione nel caso di specie. Per le considerazioni che seguono, tale
rilevanza, invece, difetta: con il risultato che l’una o l’altra delle
proposte questioni vanno dichiarate inammissibili.
5. – Nella questione che si solleva in via subordinata vengono – è
stato premesso – denunciate due leggi nazionali, come successive ed
incompatibili rispetto ai regolamenti comunitari del 1967: la legge n.
30 del 1968 e la legge n. 1239 del 1970, con le annesse previsioni
tabellari (i prodotti cui afferiscono le importazioni nel giudizio a
quo figurando rispettivamente indicati ai nn. 8, 16 e 17 della tabella
del 1968 e alle lettere B. I e H in quella del 1970). Ora, la prima
delle dette leggi è abrogata e sostituita dalla seconda. Diversamente,
dunque, da quel che si assume nel provvedimento di remissione, sarebbe,
semmai, la sola legge del 1970 a dettare il regolamento della specie.
Ma, in proposito, occorre anzitutto osservare che il diritto di visita
sanitaria è stato soppresso con legge 14 novembre 1977, n. 889
(“importazione ed esportazione di bestiame, carni, prodotti ed avanzi
di carni animali, e per i paesi della Comunità Economica Europea.
Soppressione dei diritti di visita sanitaria”).
Di quest’atto legislativo importa richiamare la disposizione
contenuta nell’art. 1, così testualmente formulata: “I diritti di
visita sanitaria, di cui alla tabella annessa alla legge 30 dicembre
1970, n. 1239, non sono dovuti sui prodotti soggetti ad organizzazione
comune dei mercati agricoli, nonché sugli altri prodotti indicati
nella tabella stessa, in importazione ed esportazione interessanti il
territorio di uno degli Stati membri della Comunità Economica
Europea”. Il giudice a quo osserva che, con ciò, nulla si dispone per
la restituzione delle somme illegittimamente riscosse
dall’Amministrazione, in applicazione del soppresso diritto. Si assume
dunque che la testé citata statuizione abrogatrice disponga soltanto
per il futuro, senza toccare la specie sottoposta all’esame del
Tribunale di Milano, per non avere espressamente derogato la regola
dell’irretroattività della legge, posta nell’art. 11 delle
disposizioni sulla legge in generale. Senonché una deroga siffatta –
rimessa alla prudente valutazione del legislatore fin dove non
contrasti con precetti o principi costituzionali – non deve essere
necessariamente disposta in modo espresso, ma può anche risultare
voluta, in base ai comuni canoni ermeneutici, esaminando, prima di
tutto, se l’effetto retroattivo sia giustificato dallo scopo, che la
norma persegue. E nella specie, vi è un dato, che si desume con
certezza, sia dalla relazione dei ministri proponenti il relativo
disegno, sia dai lavori della commissione parlamentare in sede
deliberante: la legge n. 889 del 1977 è diretta a sopprimere il
diritto di visita sanitaria in tutto l’ambito, in cui la preesistente
legislazione confliggeva con il divieto, sancito nel diritto
comunitario, delle misure fiscali equivalenti al dazio doganale. Per
questa via, si legge peraltro nella suddetta relazione, lo Stato
avrebbe rimediato all’inadempimento di un obbligo scaturente dal
Trattato di Roma, e scongiurato le conseguenze del ricorso alla
procedura ivi prevista all’art. 189, e già promossa dalla Commissione
della C.E.E. Va poi ricordato che l’osservanza del Trattato istitutivo
della C.E.E. e della normazione da essa derivata, si atteggia
nell’ordinamento interno come un limite, al quale la legge deve
conformarsi. Secondo Costituzione, il diritto comunitario prevale sul
diritto interno incompatibile, come questa Corte ha in varie pronunzie
chiarito.
Si deve dunque ritenere che il legislatore, statuendo “i diritti di
visita sanitaria non sono dovuti” non abbia disposto solo per
l’avvenire: ma abbia voluto esonerare il privato dalla previgente
misura fiscale, pienamente e precisamente, come richiesto dalla
necessità di adattare la legislazione italiana alle esigenze derivanti
dal Trattato. Il che, poi, implica che la previsione del diritto di
visita si consideri rimossa nella sfera del diritto interno dal momento
in cui essa risulta, ai sensi del diritto comunitario, incompatibile
con la proibizione del dazio doganale. Spetta all’interprete
individuare quest’insorgenza dell’effetto abrogante, in relazione, da
un canto, alla voce tabellare che andrebbe in concreto applicata:
dall’altro, alle statuizioni degli organi comunitari che sanciscono il
divieto di applicarla, nel corrispondente settore dell’organizzazione
comune del mercato. Ora, nell’ordinanza di rinvio si afferma che
siffatto divieto era internamente efficace – per quel che concerne il
procedimento pendente avanti il Tribunale di Milano – ancor prima
dell’emanazione dell’abrogata legge del 1970. Si osserva, quindi,
dallo stesso giudice a quo che la disposizione istitutiva del diritto
di visita, posta in tale legge, contraddice – insieme con la rilevante
previsione dell’annessa tabella, ed in questo caso ab initio – il
precetto comunitario. Se la specie è così costruita, ne segue, per le
ragioni or ora dette, che essa cade sotto il disposto della norma
abrogante sin dall’entrata in vigore della legge del 1970.
6. – Una conferma dei rilievi fin qui svolti si ha, del resto, sol
che si guardi al diverso atteggiarsi di altre figure di abrogazione,
sempre in ordine a tasse equivalenti al dazio doganale.
Tale è il caso della legge 24 giugno 1971, n. 447, nella quale si
dice, all’art. 2, che il diritto di statistica è abolito, sempre in
quanto incompatibile con le prescrizioni comunitarie, dalla “data di
entrata in vigore” della stessa legge. Si vede in questa specie come la
retroattività dell’atto abrogativo – in quanto essa si connette
funzionalmente con l’adeguamento della normazione interna agli obblighi
comunitari – non possa essere esclusa, in via di presunzione,
dall’interprete. Invero, nel citato articolo della legge del 1971, è
inserita una espressa ed apposita previsione, appunto per disporre che
l’abolizione del diritto di statistica non retroagisce, e decorre,
invece, dall’entrata in vigore della legge suddetta. Il difetto, nella
legge del 1977, di un analogo regolamento degli effetti temporali
dispiegati dalla norma abrogante costituisce, quindi, un ulteriore
ausilio interpretativo a conforto del risultato sopra raggiunto. A ciò
si aggiunge che la legge del 1971 è stata emanata prima che la Corte
stabilisse, nel corso di successive decisioni, il sicuro fondamento
costituzionale della prevalenza e dell’applicabilità immediata del
diritto comunitario. L’assetto poi dato ai rapporti tra questo
diritto, e le norme prodotte dal legislatore nazionale, offre
all’interprete un altro ed assorbente titolo giustificativo della
soluzione, che si è detto soccorrere nel caso in esame: in definitiva,
si viene ad adottare, fra le possibili interpretazioni della norma che
sopprime il diritto di visita, quella conforme, sia alle prescrizioni
degli organi della Comunità, sia ai principi del nostro stesso
ordinamento, che garantiscono la osservanza del Trattato, e delle norme
da esso derivate.
7. – Vi è ancora un aspetto della presente indagine, sotto il
quale va preso in considerazione il vigente regime dei rapporti tra
norme comunitarie e norme interne. Il diritto di visita è abolito – si
è detto – in tutta quell’area, nella quale, secondo le prescrizioni
della C.E.E., deve esserne esclusa l’applicazione. Nell’ambito così
definito, il congegno della abrogazione espressa agisce, d’altra parte,
in ogni caso: e così anche quando si siano già verificati gli effetti
caducatori (equivalenti, nell’ordinamento interno, a quelli
dell’abrogazione implicita), che si connettono con la produzione di
norme Comunitarie successive ed incompatibili, rispetto alla legge n.
1239 del 1970, e all’annessa tabella.
Ora, la Corte ritiene che gli effetti caducatori testé descritti
colpiscano solo la norma costituita dalla singola voce tabellare, sotto
la quale i regolamenti comunitari siano volta a volta venuti ad
incidere nel possibile campo di applicazione del diritto di visita.
Detto ciò, si affaccia la seguente conclusione: il legislatore del
1977 ha abrogato legge e tabella del 1970, in via generale e per
ragioni di uniformità e certezza di disciplina, mentre il fenomeno
estintivo delle norme interne, connesso al sopravvenire della normativa
comunitaria ha la circoscritta incidenza, che sopra si rilevava. Ma
ciò non toglie – anzi necessariamente comporta – che si attribuisca la
stessa decorrenza temporale all’abrogazione espressa della legge del
1970, nel suo complesso, ed alla puntuale ed implicita caducazione
delle voci tabellari: là dove, s’intende, sia nella specie intervenuto
anche quest’ultimo evento normativo. L’abolizione del diritto di
visita è stata – in sede di abrogazione espressa – infatti prevista,
con esclusivo riferimento “ai prodotti soggetti ad organizzazione
comune del mercato”; la disposizione che contemplava tale onere
pecuniario è soppressa sempre in ragione, oltre che nei limiti, della
sua incompatibilità con le prescrizioni comunitarie: e dunque dal
momento, al quale tale incompatibilità va fatta risalire
dall’interprete, come si è spiegato.
8. – Resta da aggiungere un ultimo e decisivo rilievo. Il giudice
a quo assume che non solo la legge di abrogazione del 1977, ma nemmeno
altri eventi normativi, quale sarebbe la sopravvenienza di un
incompatibile regolamento comunitario, abbiano comunque estinto
l’efficacia delle norme regolatrici della specie.
Così non è, tuttavia. Altra normativa comunitaria è intervenuta
nella materia, che formava oggetto dei regolamenti n. 122 e 123 del
1967. Questi due atti sono i soli considerati dal giudice a quo, che
deduce, nella seconda delle prospettate questioni, la loro anteriorità
nei confronti delle leggi del 1968 e del 1970, in conseguenza
denunciate come illegittime, per presunta violazione dell’art. 11 Cost.
Non si tien conto, però, delle norme comunitarie più recenti: queste
contenute nei regolamenti n. 2771 del 1975 e n. 2777 del 1975, relativi
rispettivamente all’organizzazione comune dei mercati nei settori delle
uova e del pollame (l’uno e l’altro adottati dal Consiglio della C.E.E.
il 29 ottobre 1975 ed entrati in vigore prima della data in cui è
stato emesso il provvedimento di remissione). Il divieto della
riscossione di qualsiasi dazio doganale o tassa di effetto equivalente
si trova espressamente sancito nell’art. 11.2 di ciascuno di questi
più recenti regolamenti comunitari, i quali seguono in ordine di tempo
alle norme istitutive del diritto di visita. Operando il divieto
comunitario come detti atti prescrivono, le confliggenti norme interne,
censurate in questa sede, devono – secondo il criterio enunciato dalla
Corte, e richiamato nella stessa ordinanza di rinvio – considerarsi
implicitamente caducate: e ciò – occorre precisare – sempre dal
momento in cui esse risultano incompatibili con il divieto che, posto
nella precedente normativa comunitaria, è stato nella specie
confermato dai successivi regolamenti della C.E.E. Di qui il necessario
risultato che, riguardo alle anzidette disposizioni interne, non può
essere instaurato alcun giudizio di costituzionalità.
Questa conclusione, va infine avvertito, s’impone anche a voler
prescindere dalla legge di abrogazione del 1977, e dalle osservazioni
sopra esposte in ordine ai suoi effetti temporali. La questione è
comunque inammissibile. Il che dispensa la Corte dall’occuparsi delle
eccezioni di irrilevanza proposte, sotto altri profili, dall’Avvocatura
dello Stato.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
della legge 14 ottobre 1957, n. 1203, in riferimento agli artt. 101,
134 e 136 Cost., e delle leggi 23 gennaio 1968, n. 30 e 30 dicembre
1970, n. 1239, in riferimento all’art. 11 Cost., sollevate dal
Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 1981.
F.to: GIULIO GIONFRIDA – EDOARDO
VOLTERRA – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere