Sentenza N. 177 del 1980
Corte Costituzionale
Data generale
22/12/1980
Data deposito/pubblicazione
22/12/1980
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1980
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO
ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv.
ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE –
Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO ANDRIOLI, Giudici,
della legge 22 maggio 1975, n. 152, e dell’art. 1, n. 3, u.p., della
legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Applicazione delle misure di
prevenzione) promosso con ordinanza emessa il 12 dicembre 1978 dal
Tribunale di Roma, nel procedimento per l’applicazione di misure di
prevenzione a carico di Miliucci Vincenzo, iscritta al n. 686 del
registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 66 del 7 marzo 1979.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 ottobre 1980 il Giudice relatore
Alberto Malagugini;
udito l’avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
1. – In data 8 marzo 1978, la Procura della Repubblica di Roma ha
proposto per l’applicazione di misure di prevenzione (sorveglianza
speciale della P.S. con l’obbligo di soggiorno in un comune diverso da
Roma) Miliucci Vincenzo, ritenuto “proclive a delinquere” (art. 1, n. 3
della legge n. 1423/56) ed autore di “atti preparatori, obiettivamente
rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato” (articolo
18, n. 1 della legge n. 152/75). Nel procedimento davanti al
Tribunale, la difesa del Miliucci ha sollevato diverse questioni di
legittimità costituzionale, attinenti al rito, al fondamento ed ai
presupposti delle misure di prevenzione. Il Tribunale di Roma, con
ordinanza in data 12 dicembre 1978, ha ritenuto manifestamente
infondate le questioni relative al processo di prevenzione
(sull’assunto che anche in esso è consentito un compiuto dispiegamento
di attività difensive e probatorie) nonché quelle tendenti a
contestare in radice l’istituto delle misure di prevenzione,
richiamandosi, quanto al fondamento di queste, alle considerazioni già
svolte dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 27/59 e n. 23/64.
Non manifestamente infondata, invece, è stata ritenuta la questione di
costituzionalità delle norme sopra citate, indicanti i presupposti per
l’applicazione della misura richiesta, per indeterminatezza delle
previsioni legali, in violazione dell’art. 25, terzo comma, della
Costituzione.
Il giudice a quo muove dall’osservazione che già la Corte
costituzionale “nel riconoscere la legittimità costituzionale delle
misure di prevenzione, ha ribadito la necessità della stretta
osservanza del principio di legalità; dette misure si ricollegano non
già a tipiche fattispecie criminose ma a fatti e comportamenti assunti
come indici di pericolosità, motivo per cui ancor più rigorosa è la
esigenza che il legislatore delimiti, in astratto ma con
determinatezza, gli estremi di tali fatti e comportamenti, senza
rimetterne al giudice la libera specificazione”.
Nelle norme denunciate, di cui nella specie viene richiesta
l’applicazione, il Tribunale ravvisa “una vera e propria delega in
bianco” del legislatore al giudice. L’art. 18, n. 1, della legge n.
152/75 è incentrato sul concetto di “atti preparatori obiettivamente
rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato”, con la
commissione di dati reati. Situazione che, si osserva, prescinde dagli
estremi della idoneità ed univocità degli atti, posto che altrimenti
sarebbe integrato il tentativo di uno dei reati elencati. Ciò
premesso, continua l’ordinanza, “la distinzione tra atti preparatori e
atti esecutivi, accolta nel precedente codice penale in tema di
tentativo, è stata nel nuovo abbandonata perché inidonea (“spesso
inafferrabile in pratica” si legge al n. 39 della relazione al Re sul
C.P.) a risolvere il difficile e non ancora del tutto risolto problema
di fondo del tentativo: stabilire cioè in che momento dell’iter
criminis l’attività umana diretta alla realizzazione di un proposito
criminoso diviene attività propria di una determinata figura
criminosa, condotta tipica di un reato”.
In palese contraddizione con se stesso il legislatore del 1975 ha
per altre finalità riesumato lo sfuggente concetto di “atto
preparatorio”, di proposito abbandonato nel codice penale del 1930,
tuttora vigente. L’ha fatto senza in alcun modo determinare, mediante
limiti o specificazioni di contenuto della norma, in che cosa consista
l’atto preparatorio di un reato.
Il vuoto così lasciato dalla genericità potrebbe dal giudice
essere riempito con il ricorso a fonti estranee alla legge e quindi con
l’arbitrio.
Né l’indeterminatezza può ritenersi superata dall’espressione
“obiettivamente rilevanti” che dovrebbe concorrere a qualificare gli
atti preparatori. Essa, in realtà è per un verso puramente
tautologica – un atto è sempre qualcosa di estrinseco, di
oggettivamente apprezzabile – e per l’altro, quanto alla rilevanza, è
di nuovo generica, sicché lascia del tutto invariata la vaghezza del
concetto che si voleva specificare.
Non meno evidente è la genericità di contenuto dell’art. 1 n. 3,
ultima ipotesi della legge n. 1423 del 1956, in base al quale possono
essere assoggettati a misure di prevenzione coloro che “per le
manifestazioni cui abbiano dato luogo diano fondato motivo di ritenere
che siano proclivi a delinquere”.
A differenza di altre specifiche ipotesi previste dallo stesso art.
1, per quella in esame la fonte da cui il giudice deve attingere per
giungere al giudizio di pericolosità è data semplicemente dal termine
“manifestazioni”, in se stesso così ampio e onnicomprensivo da
prestarsi ad ogni sorta di interpretazione da parte di chi promuove o
applica le misure di prevenzione.
2. – Intervenendo nel giudizio davanti alla Corte costituzionale,
l’Avvocatura generale dello Stato argomenta l’infondatezza della
prospettata questione, alla luce dei principi già enunciati dalla
Corte, nella sentenza n. 23/64, circa i criteri con cui il legislatore
può procedere nel delineare i presupposti delle misure di prevenzione.
Diversamente che nella tipizzazione di figure criminose, è sufficiente
“far riferimento ad elementi presuntivi, purché, però, si tratti
sempre di comportamenti obiettivamente identificabili”. Ora, con
riferimento al concetto di “atti preparatori”, è vero che il
“legislatore del 1930 ha ritenuto spesso inafferrabile in pratica, ed
ha perciò abbandonato, la distinzione tra atti preparatori ed atti
esecutivi al fine di individuare il momento dell’iter criminis in cui
l’attività umana diviene meritevole di pena, ma è certo che quella
scelta normativa non ha cancellato il concetto logico degli atti
preparatori, tanto è vero che numerosi autori ritengono che l’antica
distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi non sia stata
abolita dal codice del 1930, ma mantenuta e perfezionata; che numerose
sentenze utilizzano il concetto di atti preparatori per affermarne o
negarne la coincidenza con il concetto di atti equivoci di cui all’art.
56 cod. pen.”; che il riferimento agli “atti idonei di esecuzione” è
stato riproposto nel progetto di riforma del codice penale, approvato
dal Senato nel gennaio 1973.
L’impostazione del giudice a quo si fonderebbe su un “equivoco
logico”, circa la funzione della norma denunciata: che non è di
definire in negativo gli atti costituenti reato tentato, ma di
“definire in positivo le attività umane che giustificano
l’applicazione delle misure di prevenzione distinguendole non già dal
reato tentato, bensì da quei comportamenti che non legittimano
l’adozione, da parte dell’autorità giudiziaria, di alcun
provvedimento, comunque restrittivo della libertà individuale, sia in
sede di sanzione sia in sede di prevenzione.
Quella stessa difficoltà, rilevata dalla relazione del
guardasigilli al re e manifestata dal travaglio secolare della
giurisprudenza, nel distinguere gli atti preparatori dagli atti
esecutivi, o se si vuole nell’individuare gli atti non equivoci ai
sensi dell’art. 56 cod. pen., non può allora essere considerata
d’ostacolo (anzi al contrario la favorisce) alla individuazione del
grado di sviluppo della azione criminosa che giustifica l’adozione
delle misure di prevenzione. Appare infatti evidente che la zona degli
atti preparatori proprio perché è vicina e difficilmente
distinguibile da quella del reato tentato, definisce con chiarezza
l’ipotesi prevista dalla norma impugnata che, si ripete, è quella che
giustifica l’adozione da parte del giudice delle misure di prevenzione.
Se quindi per atti preparatori devono in genere intendersi gli atti
con i quali si palesa all’esterno un’intenzione delittuosa, la norma
impugnata contiene ulteriori precisazioni volte a vieppiù restringere
l’ipotesi normativa: deve trattarsi di atti obiettivamente rilevanti, e
la precisazione non è né tautologica né generica, perché vale ad
escludere quegli atti che, privi di ogni concreta efficienza, valgono
solo a dimostrare un atteggiamento psicologico del soggetto; deve
altresì trattarsi di atti aventi un fine precisamente indicato dalla
legge, il sovvertimento dell’ordinamento dello Stato, con metodi
specifici costituiti dal compimento di reati tassativamente indicati
nella norma medesima”.
Quanto all’art. 1, n. 3, della legge 1423/56, l’Avvocatura richiama
le precedenti pronunce, con le quali già la Corte ha respinto la
stessa (ed analoghe) questione (sentenze n. 23/64, n. 32/69, n.
76/70).
1) Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale:
a) dell’art. 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152, nella
parte in cui prevede l’applicabilità delle disposizioni della legge 31
maggio 1965, n. 575 “anche a coloro che operanti in gruppo o
isolatamente pongano in essere atti preparatori, obiettivamente
rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la
commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI del libro
II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605
e 630 dello stesso codice”;
b) dell’art. 1, n. 3, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella
parte in cui elenca tra i soggetti passibili delle misure di
prevenzione previste dalla legge medesima “coloro che… per le
manifestazioni cui abbiano dato luogo diano fondato motivo di ritenere
che siano proclivi a delinquere”.
I disposti di legge in questione, secondo il Tribunale di Roma,
contrasterebbero con l’art. 25, terzo comma, Cost., per la
indeterminatezza delle fattispecie giustificative dell’applicazione
delle misure di prevenzione.
2) il giudice a quo muove dal riconoscimento della legittimità
costituzionale (del sistema) delle misure di prevenzione e – richiamate
al proposito le sentenze n. 27 del 1959 e n. 23 del 1964 di questa
Corte – ne afferma la perdurante necessità nella “situazione attuale
così tragicamente seria per il dilagare delle più gravi forme di
delinquenza comune e politica”. Ritiene, peraltro, che gli indici di
pericolosità descritti nelle norme denunziate siano talmente generici
da “rimetterne al giudice la libera specificazione” con “una vera e
propria delega in bianco”. Invero, sempre secondo il Tribunale di
Roma, l’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975 non indica in alcun
modo “in che consista l’atto preparatorio di un reato”, rendendo così,
sfuggente la distinzione tra le fattispecie considerate e quelle di cui
all’art. 56 del codice penale.
Quanto all’art. 1, n. 3, ultima ipotesi della legge n. 1423 del
1956, l’inciso “manifestazioni cui abbiano dato luogo ” dettato dal
legislatore per indicare “l’unica fonte cui il giudice deve attingere
per giungere al giudizio di pericolosità ” sarebbe tanto “ampio ed
onnicomprensivo da prestarsi ad ogni sorta di interpretazioni da parte
di chi promuove ed applica le misure di prevenzione”.
3) La tematica delle misure di prevenzione ed i relativi problemi
sono stati posti all’attenzione di questa Corte sin dall’inizio della
sua attività.
Già con la sentenza n. 2 del 1956, la Corte ebbe ad annunciare
alcuni importanti principi, quali l’obbligo della garanzia
giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della libertà
personale e il netto rifiuto del sospetto come presupposto per
l’applicazione di siffatti provvedimenti, in tanto legittimi in quanto
motivati da fatti specifici.
Con la successiva sentenza n. 11 del medesimo anno 1956, la Corte
affermò che “Il grave problema di assicurare il contemperamento tra le
due fondamentali esigenze di non frapporre ostacoli all’attività di
prevenzione dei reati e di garantire il rispetto degli inviolabili
diritti della personalità umana, appare… risoluto attraverso il
riconoscimento dei tradizionali diritti di habeas corpus nell’ambito
del principio di stretta legalità”. “Correlativamente”, prosegue la
Corte nella citata sentenza, “in nessun caso l’uomo potrà essere
privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa privazione
o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un
regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia
provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni”.
La legittimità costituzionale di “un sistema di misure di
prevenzione dei fatti illeciti”, a garanzia “dell’ordinato e pacifico
svolgimento dei rapporti, fra i cittadini ” è sempre stata ribadita
dalle successive sentenze della Corte (sentenze: n. 27 del 1959; n. 45
del 1960; n. 126 del 1962; n. 23 e n. 68 del 1964; n. 32 del 1969 e n.
76 del 1970) con riferimento agli artt. 13, 16, 17 e 25, terzo comma,
Cost.; ora sottolineando ora attenuando il parallelismo con le misure
di sicurezza (di cui appunto all’art. 25, terzo comma, Cost.) e
perciò, ora richiamando l’identità del fine – di prevenzione di reati
– perseguito da entrambe le misure che hanno per oggetto la
pericolosità sociale del soggetto, ora marcando, invece, le differenze
che si vogliono intercorrenti tra di esse.
Soprattutto occorre qui ricordare, non tanto l’inciso contenuto
nella sentenza n. 27 del 1959, che definisce “ristrette e qualificate ”
le “categorie di individui cui la sorveglianza speciale può essere
applicata (art. 1 della legge)” (n. 1423 del 1956), quanto la sentenza
n. 23 del 1964 di questa Corte, che ha dichiarato non fondata “la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27
dicembre 1956, n. 1423, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 Cost. ”
Nella parte motiva di questa sentenza si legge che “nella descrizione
delle fattispecie (di prevenzione) il legislatore debba normalmente
procedere con diversi criteri da quelli con cui procede nella
determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e
possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti,
però, sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che
non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella
adozione delle misure di prevenzione rispetto alla previsione dei reati
ed alla irrogazione delle pene”. Con riferimento specifico ai numeri 2,
3 e 4 dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, la Corte ha escluso che
“le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di
semplici sospetti”, richiedendosi, invece, “una oggettiva valutazione
di fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della
persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al
delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni
puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o
applica le misure di prevenzione”.
4) In coerenza con le precedenti decisioni di questa Corte, va
ribadito che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione
– in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà
personale – è necessariamente subordinata all’osservanza del principio
di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sent. n.
11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed
intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro
rendendolo meramente illusorio.
Il principio di legalità in materia di prevenzione, il
riferimento, cioè, ai “casi previsti dalla legge”, lo si ancori
all’art. 13 ovvero all’art. 25, terzo comma, Cost., implica che la
applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei
casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in
“fattispecie di pericolosità”, previste – descritte – dalla legge;
fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento
giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità,
che solo su questa base può dirsi legalmente fondata.
Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione
della legge mediante l’accertamento dei presupposti di fatto per la sua
applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie
garanzie, tra l’altro di serietà probatoria, non si può dubitare che
anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità
(demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti
elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di
fatto “previsti dalla legge” e, perciò, passibili di accertamento
giudiziale.
L’intervento del giudice (e la presenza della difesa, la cui
necessità è stata affermata senza riserve) nel procedimento per
l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato
sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione
giurisdizionale nel campo della libertà personale) se non fosse
preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti,
l’accertamento di fattispecie legali predeterminate.
Si può, infine, ricordare che l’applicazione delle misure di
sicurezza personali, finalizzate anche esse a prevenire la commissione
di (ulteriori) reati (e che non sempre presuppongono la commissione di
un – precedente – reato; art. 49, secondo e quarto comma e art. 115,
secondo e quarto comma del codice penale), talché possono considerarsi
una delle due species di un unico genus, è vincolata all’accertamento
delle fattispecie legali dal quale dipende il giudizio di
pericolosità, sia tale pericolosità presunta o da accertare in
concreto.
5) L’accento, anche per le misure di prevenzione, cade dunque sul
sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione
legislativa dei presupposti di fatto dal cui accertamento dedurre il
giudizio, prognostico, sulla pericolosità sociale del soggetto.
Le questioni decidende esigono che questa Corte verifichi la
sufficienza nel senso anzidetto degli “indici di pericolosità
sociale”, per usare la terminologia corrente in letteratura, descritti
nelle disposizioni di legge denunziate.
Al proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della
determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa
abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di
condotte, posto che apprezzabile può essere sempre e soltanto il
comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo
esterno, come si esprime attraverso le sue azioni od omissioni.
Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione
legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le
condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente
dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all’avvenire.
Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per
l’applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di
prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o
implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui
prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte
considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta
di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole
previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad
opera di quei soggetti.
6) Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, deve
dichiararsi fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1, n. 3 ultima ipotesi, della legge n. 1423 del 1956.
La disposizione di legge in esame (a differenza ad esempio di
quella di cui al n. 1 del medesimo art. 1), non descrive, infatti, né
una o più condotte, né alcuna “manifestazione ” cui riferire, senza
mediazioni, un accertamento giudiziale. Quali “manifestazioni ” vengano
in rilievo è rimesso al giudice (e, prima di lui, al pubblico
ministero ed alla autorità di polizia proponenti e segnalanti) già
sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello
dell’accertamento. I presupposti del giudizio di “proclività a
delinquere ” non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio
stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una
autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei “casi ” (come
vogliono sia l’art. 13, che l’art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre
agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità.
Né per la ricostruzione della fattispecie può sovvenire il
riferimento al o ai reati della cui prevenzione si tratterebbe. La
espressione “proclivi a delinquere ” usata dal legislatore del 1956
sembrerebbe richiamare l’istituto della “tendenza a delinquere ” di cui
all’art. 108 del codice penale, ma l’accostamento sul piano
sostanziale non regge, posto che la dichiarazione prevista da
quest’ultima norma presuppone l’avvenuto accertamento di un delitto non
colposo contro la vita o l’incolumità individuale e dei motivi a
delinquere, tali da far emergere una speciale inclinazione al delitto;
e l’indole particolarmente malvagia del colpevole. Nel caso in esame la
“proclività a delinquere ” deve, invece, essere intesa come sinonimo
di pericolosità sociale, con la conseguenza che l’intera disposizione
normativa, consentendo l’adozione di misure restrittive della libertà
personale senza l’individuazione né dei presupposti né dei fini
specifici che le giustificano, si deve dichiarare costituzionalmente
illegittima.
7) Le stesse considerazioni di cui ai punti 4 e 5, conducono a
dichiarare, invece, non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152.
Il giudice a quo muove dall’affermazione che gli atti preparatori –
di cui alla disposizione di legge censurata – “non debbono rivestire,
rispetto alla direzione specificata dalla norma, gli estremi della
idoneità e della univocità ” perché, se così non fosse “verrebbe
commesso uno dei reati elencati “.
Posta questa esatta premessa, il Tribunale di Roma osserva che “la
distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, accolta nel ” codice
penale del 1889 “in tema di tentativo ” è stata abbandonata dal
legislatore del 1930 (come espressamente risulta dalla relazione al re
sul C.P. (n. 39)), in quanto ritenuta inidonea a risolvere il difficile
problema, appunto del tentativo. “In palese contraddizione con se
stesso il legislatore ” del 1975 avrebbe nella disposizione di legge
denunziata “riesumato lo sfuggente concetto di atto preparatorio”,
“senza in alcun modo determinare mediante limiti o specificazioni di
contenuto della norma, in che cosa consista l’atto preparatorio di un
reato”.
Tale assunto non può essere condiviso.
8) Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a
sollecitazioni politiche dell’epoca, aveva ritenuto di allargare l’area
del tentativo punibile redigendo il testo dell’art. 56 del codice
penale, non è men vero che gran parte della dottrina e della
giurisprudenza hanno dimostrato l’illusorietà del proposito che, con
quel mezzo, si intendeva attuare.
Ciò perché “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere
un delitto ” possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se
l’idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell’atto
a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall’inizio di
esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione
univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso
voluto dall’agente.
Dottrina e giurisprudenza indicano nell’art. 115 del codice penale
la disposizione che integra, ovvero conferma l’anzidetta
interpretazione dell’art. 56 del codice penale, per quanto attiene alle
condizioni e ai limiti di rilevanza del tentativo punibile.
Dal medesimo art. 115 del codice penale, d’altra parte, si deduce
anche la (possibile) rilevanza per l’ordinamento di atti che ancora non
sono esecutivi di una fattispecie criminosa, ma che, a partire dalla
prima manifestazione esterna del proposito delittuoso, predispongono i
mezzi e creano le condizioni per il delitto. Si tratta, appunto, degli
atti preparatori, che vengono presi in considerazione dal citato art.
115 cod. pen. in via normale per l’applicazione di misure di sicurezza,
fatti salvi i casi in cui, in via di eccezione, la legge 11 preveda
come figure autonome di reato.
Si può dunque dire che la distinzione tra tentativo punibile ed
atto preparatorio è certamente percepibile e che l’atto preparatorio
consiste in una manifestazione esterna del proposito delittuoso che
abbia un carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora
iniziata, di una figura di reato.
9) Se così è, è difficile negare che le fattispecie descritte
dall’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975 abbiano i necessari
requisiti di determinatezza. Gli atti preparatori, infatti sono
riferiti ad una pluralità di figure di reato tassativamente indicate,
sottolineandosi in tal modo l’accennato carattere strumentale dell’atto
preparatorio medesimo, sottolineatura ulteriormente ribadita con
l’inciso “obiettivamente rilevanti”, che richiama non solo e non tanto
il dato, ovvio, della rilevanza esterna dell’atto quanto la sua
significatività rispetto al fine delittuoso perseguito dall’agente.
Infine, gli atti preparatori devono essere finalizzati al sovvertimento
dell’ordinamento dello Stato e della sussistenza di questo requisito
dovrà darsi la prova nel caso concreto.
Deve, quindi, ritenersi sufficientemente determinata la fattispecie
di pericolosità di cui all’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975,
la cui latitudine rispecchia una scelta che compete solo al
legislatore.
Quanto alle difficoltà che possono insorgere nell’applicazione di
questa come di altre disposizioni normative, non spetta a questa Corte
né proporne una sistemazione né indicarne la soluzione. È, peraltro,
evidente che gli atti preparatori di cui all’art. 18, n. 1, della legge
n. 152 del 1975 in tanto possono venire in considerazione per
l’applicazione di misure di prevenzione in quanto non costituiscano
figure autonome di reato (ci si riferisce, in particolare, ai reati
associativi) e che il materiale probatorio ritenuto inidoneo o
insufficiente per fondare una affermazione di responsabilità in ordine
a taluna di siffatte figure di reato non può essere diversamente
valutato quando si tratti di accertare, per l’applicazione di misure di
prevenzione, la sussistenza del medesimo atto preparatorio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) Dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1, n. 3,
della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella parte in cui elenca tra i
soggetti passibili delle misure di prevenzione previste dalla legge
medesima coloro che, “per le manifestazioni cui abbiano dato luogo,
diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere “;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152, sollevata con
riferimento all’art. 25, terzo comma, Cost. dal Tribunale di Roma, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
MICHELE ROSSANO – ANTONINO DE STEFANO
– LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO ROEHRSSEN
– ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO
PALADIN – ARNALDO MACCARONE – ANTONIO
LA PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere