Sentenza N. 179 del 1973
Corte Costituzionale
Data generale
19/12/1973
Data deposito/pubblicazione
19/12/1973
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/12/1973
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Dott.
LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof.
ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI – Avv. LEONETTO
AMADEI – Prof. GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI, Giudici,
314, secondo comma, del codice di procedura penale e 133, secondo
comma, n. 1, del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 marzo 1971 dal pretore di Torino nel
procedimento penale a carico di Carone Santo, iscritta al n. 312 del
registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n.259 del 13 ottobre 1971;
2) ordinanza emessa il 19 aprile 1972 dal pretore di Padova nei
procedimento penale a carico di Carraro Luciano, iscritta al n. 206 del
registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 165 del 28 giugno 1972.
Udito nella camera di consiglio del 18 ottobre 1973 il Giudice
relatore Paolo Rossi.
1. – Nel corso di un procedimento penale per truffa ed
appropriazione indebita, il pretore di Torino ha sollevato, in
riferimento alla funzione emendatrice della pena (art.27 Cost.),
questione di legittimità costituzionale dell’art. 314, secondo comma,
c.p.p. – secondo cui è vietata la perizia per stabilire l’abitualità
o la professionalità nel reato, il carattere e la personalità
dell’imputato e, in genere, le qualità psichiche indipendenti da cause
patologiche – e dell’art. 133, secondo comma, n. 1, c.p., nella parte
in cui esclude, ai fini della determinazione discrezionale della pena,
il riferimento alla personalità del colpevole.
Rileva il giudice a quo che nella specie egli avrebbe avuto un
larghissimo margine di discrezionalità nell’applicazione della pena,
ricorrendo la recidiva specifica reiterata infraquinquennale a carico
dell’imputato, e che avrebbe dovuto tener conto, ex art. 133 c.p., del
carattere del reo; che peraltro ai sensi dell’art. 314, secondo comma,
c.p.p., non avrebbe potuto disporre perizia psicologica, che pure
sarebbe apparsa indispensabile per consentirgli di applicare una
sanzione realmente conforme al precetto costituzionale secondo cui le
pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
Osserva inoltre il pretore di Torino che lo stesso art. 133,
secondo comma, n. 1, c.p., limitando il riferimento, per la
determinazione concreta della pena, al solo “carattere” del reo, appare
anch’esso in contrasto con la funizone emendatrice della pena
assicurata dalla Costituzione, la quale esigerebbe venisse presa in
considerazione non soltanto l’indole ed il temperamento del colpevole
ma l’intera sua personalità.
Nessuna parte si è costituita in questa sede.
2. – Nel corso di un procedimento penale a carico di tale Carraro,
imputato del reato di emissione di assegni a vuoto, il pretore di
Padova, riconosciuta la sussistenza dei presupposti per la emissione
del decreto penale di condanna, postosi il problema di graduare
adeguatamente l’ammontare della multa, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 314, secondo comma, c.p.p., nella
parte in cui sancisce il divieto di perizia psicologica, in riferimento
al diritto di difesa di cui all’art. 24 , secondo comma, della
Costituzione ed al principio di eguaglianza.
Osserva il giudice a quo che mentre, ai sensi del secondo comma
dell’art. 133 del c.p., il giudicante deve tener conto del carattere
del colpevole, la norma impugnata impedisce l’acquisizione del più
pertinente mezzo di prova esistente in proposito, e cioè della perizia
psicologica. Sicché il diritto dell’imputato ad ottenere la pena
giusta, quale conseguirebbe dalla effettiva applicazione del sistema
penale, rimarrebbe frustrato, attraverso il suddetto divieto, in
violazione del diritto di difesa, pur garantito dall’art. 24, secondo
comma, della Costituzione.
Il pretore di Padova denuncia infine la violazione del principio
costituzionale d’eguaglianza in raffronto alla diversa norma che tale
perizia consente nel procedimento minorile (art. 11 del r.d.l. 20
luglio 1934, n. 1404), non giustificandosi, a suo avviso, la diversità
di disciplina, posto che anche il sistema processuale ordinario non
può prescindere dalla funnzione emendatrice della pena (art. 27
Cost.).
Nessuna parte si è costituita in questa sede.
1. – Le ordinanze dei pretori di Torino e di Padova sollevano
questioni parzialmente comuni, sicché i relativi giudizi possono
essere riuniti e decisi con unica sentenza.
2. – La Corte costituzionale è chiamata a decidere se l’art. 314,
secondo comma, cod. proc. pen., secondo cui è vietata la perizia per
stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a
delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le
qualità psichiche indipendenti da cause patologiche, contrasti o meno
con gli artt. 27, terzo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione,
per il dubbio che le pene concretamente irrogate non siano così
conformi alla funzione di emenda, e l’imputato non possa fornire la
prova di elementi determinanti a sua difesa.
Il divieto di perizia psicologica contrasterebbe inoltre con il
principio costituzionale d’eguaglianza, in raffronto alla opposta norma
che consente detta perizia nel procedimento minorile.
Viene altresì denunciato, sempre in riferimento all’art. 27,
terzo comma, della Costituzione, l’art. 133, secondo comma, n. 1, del
codice penale, nella parte in cui fa riferimento, ai fini della
graduazione della pena, al solo carattere e non anche all’intera
personalità dell’imputato.
Le questioni sono infondate.
Questa Corte, con la sentenza n. 124 del 1970, ha già respinto la
censura relativa al divieto di perizia psicologica, allora prospettata
in riferimento alla sola funzione di emenda, richiamandosi alle
precedenti decisioni nelle quali era stato posto in luce che il
principio costituzionale secondo cui “le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”, costituisce un contesto unitario, non
dissociabile in una prima ed una seconda parte, separate e distinte tra
loro (sentenza n. 12 del 1966). Dalla considerazione che la finalità
di rieducazione va contemperata con il carattere afflittivo ed
intimidatorio della pena, questa Corte ha dedotto che il divieto non
dà luogo a problemi di legittimità costituzionale ma di mera
discrezionalità legislativa.
Il richiamo alle precedenti argomentazioni, dalle quali non v’è
motivo di discostarsi, vale anche a porre in luce che dall’art. 27,
terzo comma, della Costituzione, non si può ricavare l’esistenza di un
diritto dell’imputato ad ottenere una perizia psicologica, rispetto al
quale la norma impugnata costituisca mezzo elusivo di una
corrispondente tutela processuale. Neppure soccorre in proposito, a
favore dell’illegittimità della norma, il riferimento all’art. 133 del
codice penale, che esige un esame del complesso caratteriale
dell’imputato. Invero il sistema vigente, che risponde a ragionevoli
valutazioni di concreta politica criminale, richiede, tanto ai fini
della dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato, quanto
ai fini della determinazione concreta della pena, che l’esame della
personalità individuale sia ancorato ad elementi di fatto
oggettivamente condizionanti la valutazione complessiva del giudicante
(artt. 102, 103, 105, 133 cod. pen.). D’altronde va anche considerato
che è lecita l’acquisizione processuale di altri mezzi per accertare i
molteplici dati indicati dall’art. 133 del codice penale, quali
indagini disposte dal giudice, rapporti di polizia e testimonianze. In
tale contesto l’imputato può fare affidamento sul risultato della
esperienza e della cultura del giudice, che si esprime nel suo
giudizio, mentre le critiche che possono muoversi alla normativa
vigente, nell’aspirazione ad un sistema ideale di giustizia, attengono
all’esercizio della funzione legislativa e non involgono profili di
incostituzionalità della norma, come già rilevato dalla sentenza n.
124 del 1970. Una reale necessità di collegamento tra il momento
determinativo e quello esecutivo della pena, implicante diversi e più
adeguati strumenti di valutazione della personalità dell’imputato,
sorgerebbe soltanto ove venisse realizzato il principio della
specializzazione della pena, nel cui ambito trova diretta esplicazione
la norma costituzionale sull’emenda.
Le considerazioni suesposte in ordine alla funzione emendatrice
della pena ed al carattere unitario della formulazione dell’art. 27,
terzo comma, della Costituzione, valgono ad escludere la prospettata
illegittimità dell’art. 133, secondo comma, n. 1, cod. pen., nella
parte in cui fa riferimento al solo carattere e non anche all’intera
personalità dell’imputato. Non può infatti negarsi, per i motivi già
enunciati, che l’attribuzione di una maggiore o minore rilevanza agli
elementi soggettivi nella graduazione concreta della pena rientra oggi
nel giudizio di discrezionalità politica rimesso al legislatore
ordinario.
Per quanto attiene, infine, alla pretesa violazione del principio
d’eguaglianza, è sufficiente osservare come le peculiarità del
processo minorile – assai evidenti proprio nel campo della rieducazione
– impediscono di ravvisare quella nota comune ai due procedimenti che
permetta il raffronto degli stessi in relazione all’art. 3, primo
comma, della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 314, secondo comma, del codice di procedura penale e 133,
secondo comma, n. 1, del codice penale, sollevate, con le ordinanze in
epigrafe indicate, in riferimento, rispettivamente, agli artt. 24,
secondo comma, 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 314, secondo comma, del codice di procedura
penale, in riferimento all’art. 27 , terzo comma, della Costituzione,
già dichiarata non fondata con la sentenza n. 124 del 1970.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 1973.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– LUIGI OGGIONI – ANGELO DE MARCO –
ERCOLE ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA –
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI – LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere